Informazioni su Giancarlo Frigieri

uno che suona la chitarra e canta

L’abitudine

Io, quando suono, ho delle persone che vengono a sentirmi apposta.
Non sono mica tante, ma vengono apposta. Mi hanno sentito una volta e dopo tornano a sentirmi, sentono che canzoni nuove ho scritto e riascoltano quelle vecchie.
A volte succede pure che muovono la testa ritmicamente e a volte succede che con la coda dell’occhio vedo che cantano le canzoni che sto suonando.
Non sono mica tante. A volte vengono a sentirmi suonare e poi non vengono più per tanto tempo, che io mi dimentico anche chi sono. E mi si presentano davanti e mi dicono “Sono xyz” e io non mi ricordo e mi sento anche un poco una cacca, a non ricordarmi. Quando non mi ricordo lo dico, che non sta bene dire che ti ricordi se non è vero. Però qualche volta l’ho fatto, di dire che mi ricordavo e invece no, ma mi son pentito subito e oggi non mi capita quasi mai.
A volte ci sono delle persone che vengono a sentirmi un sacco di volte, che mi sentono anche dieci volte in un anno, che si fanno dei km apposta. Mi è anche capitato che venissero da lontano e si prendessero un albergo. Mi capita anche che ci sono dei posti che quando ci torno, ci sono quelli che mi avevano sentito la volta prima e tornano ogni volta, si comprano il disco nuovo, lo ascoltano, gli piace.

Non sono mica tanti. Ci sono di quelli che ne hanno a centinaia, anzi a migliaia, così. Delle volte ne hanno talmente tanti che il fatto che succedano queste cose qui gli sembra una cosa normale.

Io so che non mi ci abituerò mai.

Che bello.

Natale in fumo

L’autunno del 1992 di colpo vide lo sciopero del monopolio tabacchi.

Non avevamo capito subito cosa avrebbe significato. Io fumavo da tre anni, non avevo idea di essere completamente dipendente dalle sigarette al punto di esserlo anche dalle mie sigarette preferite. Avevo cominciato con le Marlboro Rosse a 17 anni, poi ero passato brevemente alle Lucky Strike per poi virare verso le Diana Rosse, che assomigliavano alle Marlboro e costavano molto ma molto meno.

Poi di colpo il monopolio tabacchi fece sciopero. Le sigarette iniziarono a diventare introvabili. Inizialmente iniziavano a diventare introvabili le marche più usate e ti dovevi sciroppare le marche più scrause. Iniziavi a sentire dei nomi che manco sapevi che esistessero. Passi per fumarsi le Milde Sorte (una stecca comprata all’inizio dello sciopero, quando ancora non avevamo capito come sarebbe andata a finire, mi salvò per due settimane circa), ma quando arrivi a fumarti le ALFA e le Nazionali, capivi che erano cazzi da cagare.

Poi si passò al trinciato forte messo nelle cartine. Ad un certo punto c’era solo quello. Tabacco schifoso che ti rullavi nelle cartine. Quando incontravi uno che fumava una sigaretta vera lo guardavi come se fosse stato uno che ti sbandierava in faccia che lui aveva il Porsche Carrera e tu una Panda.

Ricordo che si andava a fare le macchinate, tra fumatori, nei paesini di montagna. Perché nei paesini di montagna le sigarette andavano via più lentamente e quindi trovavi dei bar tabacchi che ne avevano ancora. Macchine cariche di 5 persone, spesso due macchine. Si partiva e quando si avvistava una “T” bianca su sfondo nero dopo 6 km di tornanti sentivi salire nel petto la speranza. Poi entravi e scoprivi che le davano razionate. Tipo che ne vendevano ad una singola persona non più di un pacchetto. Allora si parcheggiava a un centinaio di metri di distanza, si entrava uno alla volta, se un non fumatore aveva deciso di unirsi alla banda anche lui doveva entrare e comprarsi delle sigarette per la comunità e sarebbe stato premiato offrendogli da bere una volta ritornati a casa.

Ricordo che quando si usciva dal bar tabacchi di montagna dopo in macchina si dividevano le sigarette, nel caso che ne fosse risultato meno di un pacchetto a testa. Sembravamo degli eroinomani.

Lo sciopero intanto andava avanti, ormai anche il trinciato forte era un lusso e lo razionavi, fumando il meno possibile fin quando proprio non ne potevi più. C’erano scene veramente patetiche, da parte di fumatori pluridecennali che ti insultavano quando ti chiedevano una sigaretta e tu dicevi “NO”, perché magari ne avevi quattro e non sapevi fino a quando ci avresti dovuto tirare avanti.

In una fase ancora embrionale di questo tracollo psicologico e morale di stampo paraproibizionista, i più abbienti arrivavano ad avere le sigarette che fumavano loro e quelle da offrire. Più tardi avrebbero anche loro pagato pegno, arrivando ad avere un unico pacchetto vecchio che avevano tenuto per conservare una sigaretta o due di varie marche. Quindi capitava che assistessi a frasi del tipo “Ti posso dare due PAK AL MENTOLO per una NAZIONALE”. Chi aveva amici stranieri se le faceva spedire di contrabbando.

Arrivò Natale e ancora la situazione non si era sbloccata, le sigarette non si trovavano, le scene di cui sopra all’ordine del giorno. La sera della vigilia di Natale andai a trasmettere a Radio Antenna Uno per lo speciale natalizio, poi tornai a casa per cenare. Non facevamo un cenone alla vigilia, non lo abbiamo mai fatto. Ricordo che mangiammo gli spaghetti al tonno, che mia madre fa degli spaghetti al tonno che secondo me se il tonno sapesse che finisce lì dentro sarebbe talmente orgoglioso che si consegnerebbe ai pescatori di sua spontanea volontà.

Poi mia madre mi disse “Toh, il tuo regalo”. Era tempo che i regali non ce li facevamo praticamente più, ma mia madre finiva sempre per tirare fuori qualcosa. Un accappatoio, un maglione di lana, cose così. Quell’anno mi passò questo coso incartato in una roba rossa. Strappai e la vidi.

Una stecca di Marlboro rosse.

“Le ho comprate un poco di tempo fa, non appena è iniziato lo sciopero. Le ho tenute lì nascoste”.

Ne fumai una subito. Poi mi sistemai, andai in bar dove ci trovavamo sempre, con tre pacchetti. Uno in tasca a me e due che buttai sul tavolone dove si riuniva la mia compagnia, dicendo “Ragazzi, non litigate, buon Natale”.

Mi sentivo come Marlon Brando ne “Il padrino”, o qualcosa del genere.

E’ stato il Natale più bello della mia vita.

40 anni fa – La fine della seconda guerra mondiale.

Si chiamava Teruo Nakamura, anche se il suo nome aborigeno era Attun Paladin. Veniva dall’isola di Taiwan ed era nato nel 1919. Arruolato nell’esercito giapponese, venne spedito nella piccola isola indonesiana di Morotai come parte di un’unità militare chiamata “Volontari di Takasago”. Morotai fu teatro di una cruenta battaglia nel 1944, al seguito della quale tornò sotto il comando alleato.

Nakamura non venne catturato, rimase nascosto insieme ad altri suoi commilitoni fin quando, in circostanze mai completamente chiarite, li abbandonò e si costruì un piccolo campo solitario. Una capanna, una decina di metri di terra recintata.

Aspettò lì che le cose si mettessero meglio. Resistette, fin quando un pilota non si accorse di questo curioso accampamento e chiamò le autorità, che non senza qualche difficoltà procedettero al suo arresto e lo costrinsero ad arrendersi.

Era il 18 dicembre del 1974.

Nonostante il Giappone avesse firmato la resa il 2 settembre 1945, erano molti i soldati giapponesi che erano stati ritrovati dopo quella data. Anzi, proprio nel 1974, in febbraio, era stato catturato Hiro Onoda, un ufficiale dell’esercito giapponese rimasto nascosto nelle Filippine. Visto che era tanto tempo che non se ne trovavano più, Onoda era stato riportato in patria, il suo nome fece il giro del mondo, scrisse un libro, tenne conferenze, la sua storia diventò celebre.

Il Giappone non aveva voglia di un secondo “ultimo soldato ad arrendersi”. Non si trattava solo del fatto che quando una storia viene promossa dalle televisioni e dai media, poi non hai voglia di un altro ritrovamento che la smentisca. E’ anche che Nakamura era un soldato semplice e non un ufficiale. Ma più di ogni altra cosa, era di Taiwan, isola che nel frattempo era tornata sotto la Cina dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale. L’ultimo ad arrendersi, ad incarnare l’eroismo cieco nipponico, non poteva essere un cittadino cinese.

La posizione della Cina stessa su Taiwan appariva (e ancora oggi appare) un tantino controversa, ragion per cui anche il governo cinese non gradiva eccessiva pubblicità.

Nakamura venne dunque rimpatriato direttamente a Taiwan, per lui non ci furono parate militari, gloria e onore. A Taiwan, Nakamura incontrò di nuovo una moglie che nel frattempo si era abituata all’idea del marito morto in guerra e da vent’anni si era risposata.

La sua nuova, confusa vita, vide un’imbarazzante querelle tra i governi di Cina e Giappone su chi dovesse accollarsi la paternità della sua missione e su chi dovesse provvedere al suo sostentamento. Nakamura infatti al momento del suo arresto era ufficialmente un apolide.

Alla fine di questa tragicomica farsa, Teruo Nakamura venne liquidato dall’esercito al quale aveva prestato servizio in completa solitudine per 29 anni più del necessario.Egli rimane, al momento, l’ultimo giapponese ad essersi arreso, visto che i successivi ritrovamenti di soldati nelle varie aree di guerra si sono poi rivelati falsi per attirare i turisti o semplici errori di ricerca.

Il compenso per la sua abnegazione e la sua fedeltà fu nient’altro che la pensione minima di un soldato semplice. Sessantottomila yen, più o meno l’equivalente di mille euro al giorno d’oggi.

Nakamura è morto di cancro, nel 1979, soltanto cinque anni dopo il suo rimpatrio.

Natale dell’odio.

1. Il momento, inevitabile, in cui sei in giro da qualche parte e da un qualsivoglia altoparlante parte “All I want for Xmas is you” cantata da Mariah Carey. Se poi fai tanto di beccare anche il momento in cui il pezzo sta finendo e (se passa per radio) arriva il Dj a parlare con quel modo di parlare scemo che ha la maggioranza dei Dj, allora capisci perché Ted Bundy, Charles Manson, il mostro di Firenze e compagnia bella hanno fatto quello che hanno fatto.

2. Il momento in cui sei a tavola con la famiglia e uno innesca la famosa diatriba sul fatto che da una parte del Secchia si chiamano “tortellini” e dall’altra parte del Secchia si chiamano “cappelletti”. Il fatto che sia sempre, inevitabilmente, un parente a farlo. Sangue del tuo sangue.

3. Il momento in cui arriva uno a dire che “Il tortellino vero è in brodo” e ti voglia fare passare per idiota perché lo mangi alla panna. Naturalmente il brodo “è di gallina” e non appena è stato detto che è di gallina, naturalmente,”si sente che il brodo è di gallina”. I più ardimentosi chiedono “Ma di gallina o di cappone?”. Lì, se io fossi un giudice del tribunale, direi che è “colpa grave”.

4. Il momento in cui arriva uno e ti dice “buona fine e buon principio”. Il resto sperano che ti vada di merda.

5. Il momento in cui uno dice che “Ormai lo spirito del Natale si è perso”. Io non so cosa sia, lo spirito del Natale. Lo dimostra il fatto che, almeno da quando ho memoria, “Ormai lo spirito del Natale si è perso”.

6. Il momento in cui i mezzi di comunicazione dicono che sarà un Natale dove gli italiani dovranno tirare la cinghia ma “Non rinunceranno a pranzi, cene…” e cazzi vari. Ovviamente, lo spumante vincerà sullo champagne, che noi amiamo il medinitali, la qualità, vaffanculo.

7. Il momento in cui uno ti dice che “Noi quest’anno solo regali utili”. Poi te ne elenca un paio e a quel punto ti viene la curiosità di sapere che cosa si regalassero quando valevano anche gli inutili. Non insisti sull’argomento per paura che il tuo interlocutore continui a parlare.

8. Il momento in cui ti chiedono “E te…sei stato a messa?”.  Ancora con questa storia?

9. Il momento in cui ti dicono “Buon Natale a te e a tutta la famiglia” che a momenti non sai neanche chi sono e se ce l’ho, una famiglia. Per fortuna te la cavi con un “altrettanto”. Breve, coinciso, educato, funzionale.

10. Il momento in cui ci si lamenta tutti, inevitabilmente, di aver mangiato come merde. E il giorno dopo si rimangia come merde. Come se ci obbligassero.

Al contrario

Ieri ho sentito dire “Questo è razzismo al contrario”.

Ho pensato: il razzista presuppone che la propria “razza” sia superiore e quindi dichiara la propria superiorità sulle altre, oltre che attraverso le parole, anche nei fatti. Con l’autorizzazione di soprusi e prevaricazioni.

Quello al contrario, ho pensato, presuppone che la propria “razza” sia inferiore alle altre e quindi dichiara la propria inferiorità sulle altre, oltre che attraverso le parole, anche nei fatti. Con l’autorizzazione di soprusi e prevaricazioni.

Mi è venuto mal di testa. Secondo me il razzismo è alla dritta. E secondo me quando diciamo “razzismo al contrario”, oltre al fatto che ci smascheriamo da soli, ne rivendichiamo anche la paternità con un certo orgoglio. Certe volte siamo proprio delle merde. Anche al contrario.

L’ora di religione – Una domanda ingenua.

Mi è venuto da pensarci per una cosa letta su un blog, quello di Leonardo.

A scuola, durante l’ora di religione cattolica, quasi sempre non si fa religione cattolica. In effetti anche ai tempi in cui andavo a scuola, almeno dalle medie in avanti (prima c’era proprio il prete che ti parlava di tutta l’organizzazione nei secoli dei secoli), non è che si facesse religione.

Veniva uno a parlarti un poco della società, si parlava di temi di attualità. Quel qualcuno era l’insegnante di religione e non è che lo mettesse lì (per dire), il PCI.

Perché durante l’ora di religione non si fa religione?

Chiaramente, quando ero a scuola pensavo che fosse bello che non si facesse religione ma si chiacchierasse del più e del meno. Più che altro perché i vangeli e tutto l’ambaradan religioso sono stati sempre da me considerati una cosa di una noia mortale.

Noiosa QUASI quanto la formula uno, per intenderci.

Perché c’è l’ora di religione, se non si fa religione? Non è un poco come fare storia durante l’ora di ragioneria? Non sarebbe meglio, se della religione non ce ne frega niente, tirarla via e metterci un’ora di un’altra cosa?

Ok, è facoltativa. Ma perché tanti genitori fanno fare l’ora di religione se poi non si fa religione e va bene così? Mistero della fede?

I miei me la facevano fare “così stai insieme agli altri, tanto cosa te ne frega che son tutte cazzate, al limite studiati le altre materie”, più o meno. Ma eravamo all’inizio dell’ora “facoltativa” e quindi le scuole non sapevano mai bene come fare e quelli che non facevano religione li spedivano in un’aula da soli con il bidello, cose così.

Ma se si fa qualcos’altro, non potremmo metterci qualcuno che faccia qualcos’altro senza dover passare per forza dal Vaticano?

Io di programmi ministeriali e quelle robe lì non so nulla. Però ricordo, ad esempio, che la nostra prof di religione scriveva della cose sul registro del tipo “La funzione della cristianità nel (riempite voi lo spazio)” e invece parlavamo di quello che leggevamo sui giornali. Una volta facemmo dei cruciverba, per dire. Cosa scrivono oggi sui registri? Qualcuno lo sa?

(Stasera siamo a IL POSTO a Modena, con K.Butler & The Judas, a parlare di Blood on the tracks di Bob Dylan. Facciamo anche un pezzo da “Infidels”, forse. Giusto per stare a tema con il post)

Un giorno, nel futuro, forse…

Un giorno, nel futuro, forse, al momento del caffé, ci alzeremo da tavola e mentre ci stiamo mettendo sulla poltrona, parlando del più e del meno con i nostri nipoti che ci saranno venuti a trovare un poco controvoglia, ci scapperà di parlare di uno scienziato che aveva fatto una cosa che chissà cos’era ma che aveva una camicia che ci ricordiamo benissimo.

Poi dice che li mettono all’ospizio, i vecchi.

Porco cane.

Alla domenica mattina vedo un articolo online di Repubblica dove un certo Ettore Livini dice che in Grecia è morto un cane. Questo cane, del quale si è parlato molto, sarebbe (secondo Livini) un cane pericolosissimo per l’establishment greco. L’articolo comincia dicendo che

“La Troika e le pattuglie di poliziotti antisommossa di Atene possono tirare un sospiro di sollievo. Il loro avversario più pericoloso non c’è più”

riferendosi al cane. L’avversario più pericoloso è il cane. Mi immagino che i poliziotti dicano proprio “Che culo, avevo paura che mi mordesse”.

Proseguendo nell’articolo, il Livini attribuisce anche ai “cattivi” la parziale responsabilità della morte del cane, attribuendo le parole al veterinario. Infatti dice che (le maiuscole sono mie)

“Il decesso, secondo il veterinario, è legato ANCHE ai problemi polmonari causati dai gas lacrimogeni inalati in tanti anni passati in prima linea nel cuore della guerriglia urbana sotto il Partenone.”

Livini dice che il cane “Irrompe SULLA SCENA POLITICA nel 2009”.

E’ lì che è iniziata la leggenda di “uno dei tanti randagi (censiti dal Comune e coccolati dalla cittadinanza) che vivono per le strade della capitale ellenica”.

Che la cittadinanza COCCOLA. Ma lascia lì, randagio, ad Atene. Fin quando non diventa famoso, allora dopo se lo piglia. Insomma, ad Atene il randagismo canino è una cosa ordinaria.

Dice anche il Livini (maiuscole sempre mie) che “Nessuno è mai riuscito a capire come facesse a indovinare giorni e ora degli appuntamenti politici più caldi. Fatto sta che ogni volta che una manifestazione anti-Troika ad Atene degenerava in scontri di piazza, lui era lì. OCCHIO ATTENTO, abbaio rauco, pronto a scattare con i manifestanti e scagliarsi per primo contro i cordoni della Mas, l’addestratissima polizia anti-sommossa ateniese. Salvo poi sparire nel nulla appena il fumo dei gas si diradava e in strada tornava la calma. La sua capacità di distinguere tra buoni e cattivi (dal suo punto di vista, ovvio) è mitica. Qualche mese fa è finito in mezzo agli scontri tra poliziotti in borghese impegnati a manganellare i loro colleghi che scioperavano contro i tagli agli stipendi delle forze dell’ordine. HA ESITATO SOLO UN ATTIMO, confuso. Poi si è schierato con le zampe ben piantate per terra di fronte ai contestatori.”

Avete capito? Il cane capisce chi ha ragione. Non serve che pensiate. Lui sa sempre chi sono i buoni e i cattivi. Esita solo un attimo quando la disputa è tra poliziotti in borghese che protestano e poliziotti in divisa. Perché il poliziotto, probabilmente, comunque puzza di sbirro, secondo Ettore Lavini. Che non lo dice, se non implicitamente. Facciamo governare gli animali, dunque. Altro che Orwell. Secondo Repubblica, insomma, quando Caligola nominò senatore il suo cavallo, ci aveva preso. Caligola era matto, Repubblica è di sinistra.

Quando i cronisti si mettono a cercare i buoni e i cattivi è un casino. Quando poi decidono di fare i poeti, dimenticandosi che sono cronisti, il giornalismo ci perde. Tanto. C’è un bellissimo libro di Federica Sgaggio (che oggi compie gli anni, auguri!) che si chiama proprio “IL PAESE DEI BUONI E DEI CATTIVI” e che parla di questo. Ma andiamo oltre.

Dopo aver letto questo mare di (riempite voi lo spazio) al mattino, nel primo pomeriggio io e mia moglie andiamo a Cavriago al mercatino del riuso. Quando stiamo tornando a casa, sulla statale c’è un cane di taglia piccola che corre lungo la strada, attraversandola ripetutamente durante la sua corsa e rendendo la faccenda molto pericolosa. Per lui in primis, ma anche per le macchine i cui autisti fossero costretti, trovandoselo davanti, a manovre pericolose che potrebbero causare un incidente.

La strada infatti è estremamente trafficata.

Decidiamo di rallentare e seguire il cane, andiamo piano piano mettendo le doppie frecce a lato, dietro di noi si forma la fila, dall’altra parte lampeggiamo e notiamo che alcuni vedono il cane solo dopo che hanno fatto a caso al nostro lampeggiare. La cosa dura circa un minuto, poi il cane si infila, piuttosto terrorizzato, in un viottolo. Ci leviamo dalla strada principale e andiamo nel viottolo pure noi. Sulla strada principale riprende il traffico.

Notiamo che il cane cammina male. La zampa posteriore sinistra fatica ad appoggiare a terra. Il cane corre, peraltro, e va spedito. Ogni tanto si gira per guardarci. Decidiamo di provare un poco a seguirlo che tanto la strada laterale è sgombra e anche se sappiamo che lo stiamo spaventando un poco, probabilmente, il gioco vale la candela. Magari è un cane abbandonato per strada, speriamo di no.

Il cane prosegue e dopo circa cento metri arriva nel cortile di una azienda agricola bella grossa di Codemondo. “LA COLLINA”, si chiama. C’è un bel negozione gigante di NATURASI, la catena dei supermarket bio.

Scendiamo, mia moglie chiama il cane che arriva scodinzolando e si fa accarezzare. Dopo essersi fatto accarezzare, il cane trotterella verso i campi. Lo seguiamo e arriviamo in un capannello di gente che chiama il cane per nome. Stanno facendo delle pizze, ridono e scherzano. Il cane è loro. Tiriamo un sospiro di sollievo.

Mia moglie spiega che era sulla statale. Loro non la fanno manco finire di parlare e dicono “Avete vinto una bella pizza con pasta madre”, belli sorridenti.

Mia moglie dice che grazie ma la pizza no, però state attenti perché era finito sulla strada e c’è un bel po’ di traffico.

Una tipa allora, sempre con la risposta al volo che manco mia moglie ha finito di parlare a momenti, dice che “Eh ma qui oggi noi abbiamo avuto più di (mettete un numero a tre cifre) persone” e dice che per questo avevano chiuso il cane in casa e si vede che dopo quando abbiamo aperto ne ha approfittato.

Mia moglie a quel punto si raccomanda di stare bene attenti, che la statale è vicinissima ed è parecchio rischioso. Non fa in tempo a dire “rischioso” quasi che il tizio che fa le pizze, sempre sorridente, allarga le braccia e dice

“Ah beh. Ma sulla strada poi rischiam tutti eh?” come se a lui non gliene fregasse una mazza, tanto ha la pasta madre biologica della natura e quando deve succedere succede, signora mia.

A quel punto io, che sono molto meno diplomatico di mia moglie, spiego al tipo che se io faccio un incidente per colpa di un cane che viene lasciato in giro bello libero a venti metri da una statale e quando mi risveglio trovo uno che mi viene a dire che “Sulla strada poi rischiam tutti”, poi non mi ricordo più esattamente parola per parola quello che ho detto ma penso che il tipo abbia capito.

Pensateci quando andate a fare la spesa. E anche quando leggete Repubblica. Che altrimenti finiamo come in Grecia.

Compressione

Secondo me non è tanto quello che dice il genitore di un figlio che infila il compressore dove non dovrebbe.

Secondo me è quello che gli porge il microfono, al genitore, e gli chiede un’opinione su quella cosa lì proprio al genitore, come se ce ne fregasse qualcosa di cosa pensa il genitore, che il microfono poteva metterselo lui, in quel posto là.

Secondo me.