Il mio ultimo album “Distacco” è stato incluso nella rosa dei 50 candidati come “Miglior album in assoluto” al Premio Tenco 2014.
Mi sento come il Kuwait quando si è qualificato ai mondiali del 1982.
Il mio ultimo album “Distacco” è stato incluso nella rosa dei 50 candidati come “Miglior album in assoluto” al Premio Tenco 2014.
Mi sento come il Kuwait quando si è qualificato ai mondiali del 1982.
C’è stato un tempo in cui quando c’era un pezzo e c’era una parola inglese che si scrive “Featuring” e all’epoca si pronunciava proprio così, “Featuring”, che era il tempo quando THE non era ancora usato come sostantivo ma THE BEATLES erano I BEATLES, non come adesso che si dice I THE BEATLES, che secondo me è principalmente colpa del fatto che quando tagghi qualcosa su un socialcoso ti viene anche il THE e allora mica lo stai lì a togliere e poi pian piano il linguaggio si è modificato, c’è stato un tempo in cui quel “FEATURING” si diceva proprio “featuring” e non “ficiurin”, che infatti se scrivevano “FEAT” tu dicevi “FEAT”, che era più o meno il tempo in cui c’erano quelli che dicevano “ZE” per dire “THE”, non si diceva quella specie di “V” con la lingua tra i denti per fare gli inglesi, ed era più o meno il tempo di ZEUOL che voleva dire “The Wall”, il disco dei Pink Floyd, il disco intero e non “ZEUOL LA CANZONE” che voleva dire “Another brick in the Wall Pt. 2” che si diceva “PARCIU’ ” che lì fare gli inglesi si poteva, dicevo c’è stato quel tempo lì che FEATURING voleva dire spesso che c’era un assolo di chitarra di uno figo, che magari non era nemmeno questo granché però era di uno figo e allora ci mettevano il FEATURING. Perché oggi quel FEATURING e’ diventato FICIURIN e finisce che vuol dire più o meno sempre “Adesso arriva un tamarro e ci tira su una rappata tamarra dove dice cose del tipo SONO QUI A FARE LA RAPPATA CON IL FICIURIN CON IL TIPO CHE MI HA CHIAMATO CHE E’ UN SUPERFIGO E IO SONO UN SUPERFIGO DI RIFLESSO”.
E a me, anche se non sono sicuramente i primi, mi viene in mente quando in “Crosseyed and painless” nel 1980 i Talking Heads hanno fatto la rappatina “Facts are simple and facts are straight…” e io ho sempre pensato che tutto sommato quel pezzo lì, se invece di metterci il FINTO FICIURIN che tanto poi era sempre David Byrne, ci avessero messo una roba diversa, tipo le percussioni oppure un assolo di chitarra di Belew (come in “The great curve”, forze ancora ZEGREITCHIURV) forse sarebbe stato più figo e magari il mondo oggi sarebbe un posto migliore o quantomeno nei pezzi con il FICIURIN non avremmo sempre ‘sti cazzo di inizi di canzone con un afroamericano (che sono POLITICALLICORRECT) che fa “UH Yeah, c’mon, UH” come se stesse provando quel cazzo di microfono di merda.
Ma i tempi cambiano. E come “Remain in light” mi fece schifo al cazzo per circa 6 giorni quando lo comprai a 8900 lire da “Quartieri” a Sassuolo nel 1986 per poi diventare inspiegabilmente il mio disco preferito di colpo la sera del settimo giorno, magari un giorno anche questa cosa qui la digerirò come si deve.
Il MEI, Meeting delle Etichette Indipendenti, chiude i battenti. Quella che comincia dopodomani sarà l’ultima edizione. Lo ha detto oggi il suo creatore, Sangiorgi.
Per alcuni è la fine di un’epoca, per altri è la fine di una grossa fiera della fuffa, per altri è la fine e basta, per altri ancora è solo mercoledi 24 settembre.
Ebbene, personalmente ho già letto troppe dichiarazioni tonanti e spavalde che si rallegrano della cosa, che denunciano i presunti metodi paramafiosi che garantivano l’accesso al Meeting delle Etichette Indipendenti e cose così.
Non mi va di unirmi al coro, soprattutto perché sono anni che certe cose le diciamo tutti sottovoce; poi però eravamo tutti in fila quando c’era da prendere una targa, un piccolo riconoscimento, anche solo un applauso. Proprio perché non siamo INDIPENDENTI per un cazzo, ma siamo pronti a dipendere dal primo cretino che passa con un poco di potere, sia esso derivato dalla posizione economica o addirittura soltanto dalla moda del momento.
Ecco perché mi fa schifo che, dopo anni di “pissi pissi bao bao” oggi il tono di voce della maggior parte dei musicisti poveri si alzi e faccia il verso a quello di Mel Gibson in “Braveheart”.
Chi scrive è stato premiato al MEI, nel 2009. Miglior Album Autoprodotto per “L’età della ragione”. Chi scrive pensa pure, senza false modestie, di esserselo meritato. E ne va pure orgoglioso.
Chi scrive lo disse, da quel palco e al microfono, come stavano le cose nell’ambito delle etichette indipendenti. Lo disse quando, introdotto da Federico Guglielmi che diceva “Non ha trovato un’etichetta e quindi ha fatto l’album da solo” ci tenne a puntualizzare un paio di cose.
Il filmato lo potete vedere qui:
Premio Autoproduzioni 2009
Chi scrive lo dice da tempo che “indipendenti” ormai è una parola vuota, che sottointende “poveri”.
Chi scrive lo disse, nel corso di un’intervista a Rai Stereonotte seguita a quella premiazione, che autoprodursi o uscire con un’etichetta indipendente è quasi sempre la stessa identica cosa, che la scena indipendente è una tigre di carta e la maggior parte delle etichette indipendenti non esiste nemmeno sulla carta, ma è solo un marchio stampato su un disco che manco esiste legalmente e che se uno con qualche centinaio di migliaia di euro da buttare volesse depositare quei marchi e poi fare causa a tante di quelle presunte etichette, ridurrebbe sul lastrico tanti poveri sfigati.
Insomma, il Meeting delle Etichette Indipendenti chiude perché praticamente non esistono più le etichette, siano esse indipendenti o no.
A quel punto resta solo il Meeting. E per incontrarsi non ci vuole un ente fiera.
Basta un bar.
E’ stato un lampo, qualche giorno fa. Arrivare a capire che forse i Buffalo Tom non si erano mai sciolti, avevano solo aspettato un poco dopo le due raccolte che avevano fatto uscire, come ogni tanto un guerriero deve fermarsi a riposare.
Perché il sospetto era lecito. Forse però la fregatura è stata attenderlo così tanto tempo, questo “Three Easy pieces”. Ed è una delusione. Non che non fossi abituato alle delusioni, soprattutto quando si parlava di gruppi che si riuniscono dopo parecchio tempo. La delusione più grande di tutte fu vedere la reunion dei Velvet Underground a Bologna, nel 1993. In prima fila, contro la transenna davanti a Lou Reed. Una folla quasi oceanica, i pezzi suonati con un suono addomesticato, non facevano più male. Certo, Moe era uno spettacolo, in piedi a smazzare su quei tamburi. Però come mai durante il crescendo di “Heroin” c’erano centinaia di persone che saltavano ritmicamente urlando “he, he, he” come se fossimo allo stadio? Quella canzone parlava di un tossico che ha deciso di stare definitivamente dall’altra parte, qualunque conseguenza comporti. Cosa c’era da esultare?
Idealizzare è pericolosissimo. La realtà prima o poi arriva e ti chiede di colmare lo scarto e non sempre la tua vita è pronta per compiere tutta quella distanza in così poco tempo. A volte arrivi impreparato.
Ma i Buffalo Tom dal vivo erano stati grandi. Li avevo visti a Baricella, tra Bologna e Ferrara, in un palestrone chiamato Kryptonight, in mezzo alla nebbia emiliana. Nello stesso posto avevo visto pure i Nirvana, nei giorni in cui, anche se stavano esplodendo proprio in quel periodo, uno poteva pure vantarsi di essere andato lì per vedere gli Urge Overkill, che fecero un set con un’acustica terribile. Noi sì che eravamo snob come si deve, mica come quelli che si vantavano di essere venuti per i Melvins, nel 1994. L’eccitazione non era paragonabile, tanto che la sera dei Nirvana chi era rimasto fuori sfondò una porta di sicurezza e volarono botte da orbi, la capienza arrivò ad essere ben oltre il limite di sicurezza, era tutto molto pericoloso e quindi molto eccitante, come a 19 anni chiede di essere eccitante subito e senza possibilità di appello, una serata fuori.
I Buffalo Tom avrebbero potuto essere ancora più eccitanti. Fino al punto che ancora oggi c’è chi sostiene di ricordarsi il gruppo spalla e di essere andato lì apposta per loro (“Bravi. Com’è che vi chiamate? Black Babies? Ah no…Blake, come William Blake, ok”).
Una sera, nella discoteca dove andavo a ballare di solito in quel periodo (Albert Hall) perché ci metteva i dischi Antenna Uno, dove avevo appena cominciato a trasmettere, dopo aver riempito la pista con “Smells like teen spirit”, il dj (Giuliano Ghini) aveva messo “Velvet Roof” per cercare di lanciare un pezzo nuovo che potesse, con la dovuta insistenza sabato dopo sabato, diventare una hit da ballo. La pista si era vuotata quasi già al primo break con l’armonica, ma quel riff, quel ritmo, quella melodia, mi avevano fatto sentire come se ci fosse la possibilità che i Buffalo Tom riuscissero a diventare una cosa tipo “I nuovi Nirvana” o “I nuovi R.E.M.” o comunque a vendere un sacco di copie.
Invece a Baricella saltò la luce. Una, due, forse tre volte. Il gruppo dopo un poco ne ebbe abbastanza e suonò il minimo sindacale, una cosa simile avrebbe fiaccato anche un bufalo vero, figuriamoci un trio della costa est degli USA.
Eppure quell’ora di concerto fu memorabile. Bill Janovitz aveva una gibson SG color rosso vino e un amplificatore alto come un armadio, dal quale usciva un volume allucinante a tal punto che Janovitz stesso aveva due enormi tappi per le orecchie, di quelli che si vedono a distanza, che ti fanno sembrare la creatura di Frankenstein e che rendevano ancora più antieroiche le smorfie e il sudore che quel viso da nerd con i capelli rossi e le lentiggini era costretto a fare per aver ragione di quella massa di suono. Al centro un sassofonista, un ospite che si portavano in tour per rafforzare il suono dal vivo e che soffiava dentro ad uno strumento che era peraltro sempre completamente sommerso da basso, chitarra e batteria, tanto che ad un certo punto ci si iniziò pure a chiedere se servisse a qualcosa, tra le prime file.
Di quella serata ricordavo soprattutto una canzone, una delle canzoni che in realtà amavo di meno, almeno fino a quel giorno: “Enemy” si chiamava.
C’era un gruppo di amici miei che, non appena il brano cominciò, si mise a urlare sconnessamente e a cantare come una banda di ubriachi. Per un attimo ci si sentiva una tribù indiana e Buffalo Tom era il nostro grande capo a tre teste più sassofono.
Arrivò un nuovo album, qualche tempo dopo. Si chiamava “Big red letter day” e odorava di muffa. Era bello, per carità. Ma sembrava una copia di “Let me come over”, l’album prima. Era quello il perfetto equilibrio tra rumore, melodia, sonorità acustiche ed elettriche, da lasciare senza parole. Lo zenit.
Forse, pensai una notte poco dopo l’uscita del disco mentre indossavo una divisa dell’esercito italiano, con “Let me come over” le carte erano ormai tutte scoperte. Il suono del gruppo era perfetto e oltre non era consentito andare. I confini dei Buffalo Tom erano dunque quei guaiti sofferti di Janowitz, quel basso eternamente sulle frequenze medie mai troppo presente, quella batteria che apriva il charleston quando doveva riempire e lo chiudeva nelle strofe, potente senza mai essere granitica e fantasiosa senza mai suonare se non al servizio della canzone. Quell’equilibrio distorto/acustico che i Grant Lee Buffalo non sono quasi mai riusciti ad avere, e dire che l’animale delle praterie ci aveva riprovato a infilarsi nel nome e nelle sonorità.
Forse i confini di tutta quella meraviglia erano quegli accordi di Sol suonato aggiungendo un dito che sulla corda del SI tocca il terzo capotasto, quel suo cambiare tra Mi minori, Re, Do, La maggiori e minori, cercando il più possibile di non muoversi con mignolo e anulare dal terzo capotasto del MI cantino e del SI ed evitando i barrè come la peste, in modo che il centro tonale del pezzo fosse scandito dagli acuti e da qualche corda vuota sulle medie, non da qualche insulso power chord sulle frequenze basse come accade di solito nella musica rock che decide di essere rumorosa e distorta.
Forse era quello che dava quel gusto epico alle canzoni, pensai. In fondo quel sapore lì, quello che ad un certo punto non basta nemmeno urlare e ti vengono i lucciconi agli occhi e ti sembra proprio di volare, ce lo avevano anche le cose degli U2 migliori, ce lo avevano anche gli Afghan Whigs di “Turn on the water” e di un sacco di altre canzoni. Andai a verificare mentalmente le posizioni di diversi brani sulla chitarra con la mano sinistra e quasi mi scappò il fucile di mano. Nessuno se ne accorse, peraltro, tanto in porta centrale non c’era nessuno. Erano tutti andati a letto e finalmente mi ero potuto guardare la rotazione notturna di Videomusic, all’epoca una cosa molto figa in senso metaforico, senza essere costretto dagli altri a sorbirmi un’ora di pubblicità di telefoni erotici, all’epoca una cosa molto figa in senso letterale. Il tempo di pensare a tutto questo, poi il video di “Sodajerk” era già finito e ne era partito un altro. Forse gli Stone Temple Pilots, forse i Lemonheads, chi se ne frega.
Si, non era poi brutto “Big Red Letter Day”. E’ che era tutto come ti aspettavi. Era come ritornare a casa in licenza e non saper bene di cosa parlare con nessuno.
Ci volle un nuovo album, un singolo come “Summer” a rialzare un attimo la testa. Ma ormai era andata, l’amore si fa in due e da parte mia non c’era più forse la voglia, in quel momento.
Quindi è inutile che oggi cerchi di rivivere i miei vent’anni solo perché una band di Boston ha fatto un nuovo album dopo cinque o sei anni di silenzio. Certe cose, penso, non te le ridà nessuno. Conviene rimettere “Three Easy Pieces” nello scaffale dei cd e lasciarlo lì. Magari venderlo, tanto il rammarico di aver capito che quei brividi sono rimasti per sempre un ricordo ormai si è già stampato nella memoria, non occorre un simbolo a ribadire il concetto. Forse un giorno me lo ricomprerò in qualche bancarella a 3 euro e scoprirò che la musica poi non era male, vuotata da ogni aspettativa e analizzata più freddamente.
In fondo, se mi guardo indietro, al momento non mi importa nulla. Dopo “Smells like teen spirit” nessuno ha mai messo “Velvet Roof” per cercare di non vuotare la pista. Oggi anche “Smells like teen spirit” è scomparsa dalle scalette, andando a cercare casa in quei locali dove, se dici “Buffalo Tom”, credono che sia il fratello di Buffalo Bill. Quei posti dove non trovi persone che abbiano urlato tutta la propria disperazione cantando “Stymied” a squarciagola in una camera chiusa a chiave e quindi cosa vuoi che ne sappiano loro del fatto che dopo “Stymied” arriva la beatitudine solare di “Porchlight” a sollevarti il morale e poi con “Frozen Lake” giungi alla pace dei sensi e ogni colpo di tamburello che viene dopo che Janovitz dice “IN” (sciaf) “A FROZEN LAKE” (sciaf) “SHE COMES AND TAKE” ti ricorda che per il momento tu non hai bisogno di niente altro al mondo. Cosa ne sanno loro della tua vita? Al massimo, se proprio hanno un poco di orecchio, gli fai sentire “Taillights fade” e ti va già bene che si accorgono a malapena che ha gli stessi accordi di “Don’t Cry” dei Guns ‘n’ Roses, soltanto con anulare e mignolo bloccati sulle corde più acute.
Oggi non ha proprio più importanza, sapere se i Buffalo Tom si siano riuniti ufficialmente, o se avessero solo preso una pausa. Così come quando una storia d’amore è davvero superata quando non ti importa più di cosa cavolo stia facendo il tuo ex, anche qui ormai è tutto finito, ognuno va per la sua strada. Troppo tardi.
E così sabato se ne è andato Jason Molina.
Li avevamo chiamati “cantautori depressi” per tanti motivi. Forse perché a differenza dei cantautori degli anni sessanta e settanta, spesso impegnati politicamente e attivi e pieni di energia, questi erano impegnati solo nelle storie personali. Non c’era bisogno di interessarsi delle vite altrui e dei mondi distanti, avevano già abbastanza casino nel loro mondo.
Forse pure perché le atmosfere delle loro canzoni erano quasi sempre da catacomba, zeppe di accordi in minore che magari potevano esplodere in grida e crescendo scuri e apocalittici, mai rassicuranti, sempre con un alone di morte sopra a sovrastarle. Quando capitava che ci fossero dei passaggi armonici un poco più solari, il timbro della voce era quasi sempre rarefatto, come a voler sussurrare che in quel momento, anche se la musica era apparentemente allegra e accomodante, si stava assistendo comunque ad una soluzione temporanea e le catacombe sarebbero tornate presto.
La loro esistenza era fatta di concerti spesso bellamente ignorati dal grande pubblico, in posti piccoli e apparentemente inadeguati, soprattutto nel loro paese. Anche quando capitava di sentirli e vederli dal vivo in Italia, non era raro trovare torme di chiacchieroni che presenziavano al concerto soltanto per quelle piccole mode che in certi ambienti vogliono che un poco di disperazione non manchi mai, nella musica. Intanto però si stava con il bicchiere in mano, a parlare delle nostre piccole sciocchezze, mentre loro si consumavano sul palco.
Si segnalava un Vic Chesnutt in Romagna che, urlante dalla sua sedia a rotelle con una disperazione che lasciava annichiliti, poi intonava una cover di “Everybody Hurts” che suonava tremendamente autentica, canzone sul suicidio priva di ogni possibile leziosità dinamica che magari viene spontaneo trovare nell’originale. A Natale avremmo poi trovato conferma dell’autenticità dell’argomento da parte dell’interprete.
Si segnalava un Mark Linkous che prendeva dall’Italia la passione per le motociclette e un titolo, “It’s a sad and beautiful world”, frase che Benigni disse in “Daunbailò” e che colta come un fiore dalla sensibilità del cantante degli Sparklehorse, si trasformasse in una splendida ballata. Anche qui una sedia a rotelle, a causa di una reazione ad un insieme di farmaci potenzialmente letale ingerito dal nostro per motivi facilmente immaginabili durante un tour di spalla ai Radiohead. Noi che se avessimo suonato di spalla ai Radiohead avremmo probabilmente sorriso ventiquattr’ore su ventiquattro, anche dormendo, facevamo fatica a capire il tormento che viveva quest’uomo e magari ci veniva da sfotterlo pure un poco, come quando a Ferrara reinterpretò con rara sensibilità due brani di Nico nel tributo allestito da John Cale e i commenti furono in più di un caso frasi gentili come “Dio bono, sparati” o cose del genere. Alla fine Linkous si sparò davvero.
Sabato se ne è andato Jason Molina. Dopo averci fatto esplorare la sua eterna notte oscura con Songs:Ohia e Magnolia Electric Co. si erano diffuse voci allarmanti sulla sua salute, mai smentite dallo stesso. Molina e l’alcool erano compagni di viaggio fedelissimi, il primo aveva provato a troncare la relazione con il secondo, a volte sembrava con risultati ma le ricadute erano sempre dietro l’angolo. Si diceva fosse a lavorare in una fattoria, si diceva che la sua famiglia non sapesse dove si trovava, che la musica non lo interessasse praticamente più, ogni tanto si parlava di un ritorno sulle scene e non si sapeva mai se prendere sul serio la cosa. Tutto sommato non ci interessava sapere la risposta esatta, avevamo altra musica alla quale correre dietro. Ora la risposta è arrivata, chiara e definitiva come solo la morte sa essere.
Cadono uno dopo l’altro, i “cantautori depressi”. Noi possiamo pure goderci lo spettacolo della loro desolazione, come cannibali che si cibano del cuore dei loro simili, come palombari delle emozioni altrui, ma alla fine la soluzione sembra essere sempre quella.
Cadono come birilli. E quando succede rimane solo il rimpianto, sembra sempre troppo tardi.
A novembre entrerò in studio per registrare alcune canzoni che faranno parte di un mio nuovo album. Non so ancora quando lo farò uscire, ma direi non più tardi del settembre 2015, se proprio tutto dovesse andare per le lunghe. I ripensamenti, le cose da fare, gli impegni vari, insomma… non si sa mai.
Sarà, da quando ho cominciato a cantare in italiano, il sesto disco.
Dal 2009 al 2015. Sei dischi in sei anni, come si faceva una volta.
Si chiamerà “TROPPO TARDI”.
Altri dettagli nelle prossime settimane.
Stamattina ho visto sulla gazzetta di Reggio un articolo che parlava di una istruttrice di fitness che ha fatto l’Ice Bucket Challenge, che per chi vivesse sulla luna è quella roba dove ti tiri un secchio di acqua gelata in testa e poi dai dei soldi per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica.
E’ un poco che va avanti questa storia qui, la secchiata se la sono tirata tutti quanti. Vip, meno vip, persone comuni, persone comuni che volevano sembrare dei vip, eccetera.
Tutti, secondo la voglia e la possibilità, si sono tirati la secchiata, hanno nominato tre persone e poi hanno dato dei soldi alla ricerca.
La cosa ha alimentato polemiche, di varia natura, blah blah blah.
La cosa adesso sta un poco passando di moda, perché avendola già fatta tutti quanti più o meno non è che uno si tira una secchiata di acqua gelata in testa tutte le settimane.
Ecco, stamattina, mentre ho letto che una tipa ieri si era tirata l’acqua in testa per l’Ice Bucket Challenge, io per un attimo, ma proprio per un attimo che non sono riuscito a controllare, ho pensato “E va bé, basta con questa cosa, che palle. E’ una roba vecchia”.
Non mi ha visto nessuno. Probabilmente non sono nemmeno stato l’unico a pensarlo.
Ma l’odore di merda che sento ovunque vado stamattina, mi sa che sono io.
Secondo me a quelli che dicono che i Beatles sono il gruppo più sopravvalutato della storia o che dicono che i Beatles fanno schifo o cose così non è che ricorderei soltanto che per essere sopravvalutati bisogna innanzitutto essere “sopra” ed essere valutati piuttosto bene in generale da tutti, che non è mica facile…
E’ che secondo me, poi posso bagliarmi ma credo di no, tra quelli lì e quelli che dicono che gli aerei buttano le scie chimiche, che non siamo mai andati sulla luna, che i bambini vanno allattati al seno fino a quando ne hanno voglia loro e che non vanno vaccinati io non ci vedo, oggi come oggi, tutta questa grande differenza.
Il primo album che comprai nella mia vita fu “Catch a fire”, di Bob Marley and the Wailers. Non so quanti anni avessi, a memoria direi otto. Mi piaceva, Bob Marley. Me lo aveva fatto ascoltare mio fratello, l’educazione musicale è un compito che spesso è riservato ai fratelli maggiori. Ascoltavo le cassette, ricordo una cassetta di “Survival” comprata al mercato nero dove al posto dei titoli, nella costina, c’era una dichiarazione di Marcus Garvey che diceva
“A people without – The knowledge of – Their past history – Origin and culture – Is like a tree – Without roots – Marcus Garvey”
Proprio così, con i trattini in mezzo. Come fossero i titoli delle canzoni. E io per anni ho creduto che i titoli fossero quelli. Mica c’era internet, come si dice in questi casi.
Comunque, un giorno sono al supermercato con mia madre e mio cugino Paolo. Al supermercato, almeno in quel supermercato, una volta c’era il reparto dischi. Vado a vedere e trovo un disco con Bob Marley in copertina che si intitola “Catch a Fire”. Lo prendo e vado da mia mamma dicendo “Mamma, me lo compri?”.
Mia mamma legge il nome “Bob Marley”, sa che lo ascolto dalla mattina alla sera, è in buona. Mi immagino le facce di chi era lì a fianco e si vede la scena di un bimbetto che si guarda, tutto contento, un negro (una volta si diceva così) che si fa un cannone grande come un cetriolo in copertina di un album. Sul retro una foto del complesso, gli Wailers, con delle facce decisamente poco raccomandabili.
Mio cugino invece era patito di Elvis. Lui comprò una raccolta di Elvis della RCA.
Andammo a casa ad ascoltarci i dischi, io conquistato subito dall’album di Marley. Poi mettemmo su il disco di Elvis, che partiva con “Hound dog”.
La voce dava l’attacco, il gruppo partiva a seminare rock’n’roll e poi “You ain’t no friend o’ mine” e TARATATATATATATATATATATATA!!!!!!!!!!!!
La batteria di Dj Fontana fu una smitragliata che mi mandò il cervello in frantumi. Ho il ricordo nitido di quella rullata, mi piacerebbe avere una macchina del tempo e tornare là per vedere la faccia che fa quel ragazzino, perché onestamente è stato uno di quei momenti musicali che ti cambiano la vita.
Nei mesi seguenti, il “mamma me lo compri?” venne riservato a “Wanted Dread & Alive” di Peter Tosh, su cassetta originale in una bancarella del mercato a Sassuolo. E poi, un giorno, la “supplica a mia madre” (Pasolini perdonami) nello stesso supermercato di prima, andai a vedere se c’era qualcosa di Elvis e mi capitò un disco della RCA chiamato “Elvis Presley Show”, che poi scoprì in età abbondantemente adulta essere “That’s the way it is” in una edizione italiana.
Arrivai a casa gasatissimo immaginando una smitragliata di rock’n’roll e invece qui c’erano Elvis e i suoi che cantavano canzoni lente e melense, che schifo, pensai.
Poi, visto che i soldi per i dischi erano pochi e quando compri un disco devi far vedere che lo ascolti, se non altro perché a tua madre gli hai fatto spendere dei soldi, ascoltai per bene l’album, giorno dopo giorno. E quelle canzoni melense erano proprio belle, cantate benissimo, suonate da Dio, arrangiamenti pazzeschi per quello che potevo capire io di arrangiamenti.
Ricordo che avevamo da poco montato la doccia nel “Tasèl” (per i non emiliani, il solaio) mentre prima avevamo solo la vasca da bagno e quindi una delle prime canzoni che cantavo sotto la doccia, in un inglese maccheronico, era “Stranger in the crowd”, da quel disco lì. Ancora oggi, quando sono sotto la doccia, se mi viene da cantare all’improvviso quella canzone e altre da quel disco (Twenty days and twenty nights, I just can’t help believin’, You’ve lost that lovin’ feelin, per dirne alcune) sono tra le prime che mi escono.
So che per molti sarà una bestialità, che l’Elvis del periodo della Sun Records non si tocca, ma personalmente l’Elvis che preferisco è questo qui, quello del primo periodo a Las Vegas. Grandi canzoni, alternanza di Rock’n’roll e melodia, arrangiamenti sontuosi, musicisti straordinari con una tecnica sopraffina (su tutti Jerry Scheff al basso, il bassista che suonò anche in L.A. Woman dei Doors).
Curiosando su Amazon, ho visto che “That’s the way it is” esiste anche in una supermega edizione con 8 cd, due DVD e un libro. Le tentazioni sono forti, mi sono messo a scrivere questo pezzo perché mi si sfogasse la fregola di ricomprarlo. Adesso penso che andrò a fare la spesa, con la mia edizione normalissima in cd dentro lo stereo della macchina. Se vedete un cretino che gira con il carrello tra gli scaffali cantando, siate indulgenti.
Ieri sera ho suonato all’Agriturismo Cantoni a Modena. Insieme a me c’erano Renzo Picchi (Nel Dubbio) e Sandro Campani (Ismael). Invece che fare ognuno il suo set, siamo saliti sul palco insieme. Eravamo tutti e tre uno a fianco all’altro e suonavamo un brano per uno.
E’ successo che se uno suonava un pezzo che parlava di una cosa, magari anche un altro aveva in repertorio un brano che affrontava lo stesso argomento da un altro punto di vista e quindi lo suonava dopo. Oppure succedeva che ognuno facesse un pezzo tiratissimo e poi dopo ognuno un pezzo molto lento, oppure si facesse ognuno un pezzo in una determinata tonalità oppure… Insomma, uno scambio di idee mica male. A volte (poche, che eravamo timidi l’uno con l’altro) uno interveniva un attimo nel pezzo dell’altro improvvisandoci sopra.
Se tra il pubblico c’era qualcuno al quale non piacevano le canzoni di uno dei tre, c’erano sempre gli altri due e si trattava di aspettare 3-4 minuti. E al terzo giro magari scopriva che quello che non gli piaceva era invece quello che gli piaceva di più.
Secondo me è un’idea che tanti posti in giro per l’Italia dovrebbero copiare, magari mischiando cantautori del posto a quelli che vengono da fuori.