Informazioni su Giancarlo Frigieri

uno che suona la chitarra e canta

Basta scuse #1 – La morte del rock (Scusate il francese).

Ciclicamente arriva qualcuno che dice che il rock è morto.

Ogni 3 ore uno che suona dice su un qualche socialcoso che il problema è che “in Italia” e poi comincia con la filippica.

Chi scrive, nel corso della sua malandata vita, ha detto almeno una volta anch’egli queste due cazzate micidiali.

Chi scrive ha smesso di dire queste cazzate micidiali. Ne dice altre, sicuramente, ma queste ha smesso. Non è stato difficilissimo, circa come con le sigarette. E’ facile se sai come farlo. Basta ricordarsi quanto segue.

Se il problema è che “in Italia” andate all’estero. Un volo Ryanair non costa un cazzo di niente. Oppure fate un crowdfunding per il biglietto su “Musicraiser, la nuova frontiera del prenderti per il culo”. Se giurate che sarà SOLO ANDATA giuro che partecipo alla raccolta fondi. Quando poi siete in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Olanda saranno cazzi di quelli che vi dovranno ascoltare dire continuamente che il problema è che “In Inghilterra, in Germania, in Francia, in Olanda e via con la filippica” visto che anche lì non combinerete un emerito cazzo di niente.

Per chiudere, il Rock non è morto. E’ VECCHIO.

 

Avete presente un vecchio? Dice sempre le stesse cose, parla al muro e nessuno lo ascolta più, si caga e si piscia addosso, da solo non ce la fa più a fare una vita decente e quindi sono necessarie strutture dove poterlo far stare altrimenti diventa pure un peso, ha un passato glorioso del quale però a quasi nessuno frega niente, ha una nostalgia costante di quando era giovane, tanto che dice che erano bei tempi e li ricorda molto meglio di quanto erano in realtà visto che ormai è arteriosclerotico, il sangue è messo come è messo, l’osteoporosi avanza, non riesce quasi a piegarsi, non appena eccede un poco in un qualche vizio alimentare lo sente subito, puzza, si lava malvolentieri che tanto è uguale, sta lì rassegnato in giornate tutte uguali, si ammala spessissimo e fa avanti e indietro dagli ospedali, dove dice dietro a medici e infermieri che lo curano imprecando che non capiscono niente e tirando cancheri a destra e sinistra, perché è un vecchio rompicoglioni di merda.

Ma non è morto. E’ vecchio.

Se non capite la differenza, come regalo del vostro 70esimo compleanno tagliatevi le vene.

For those about to rock…we salute you!!!

Tua moglie che ti guarda come un deficiente. Ti vesti, con la maglietta della kipsta, con i pantacosi, con la maglia catarinfrangente o come cacchio si scrive, con il K-way o come cacchio si scrive. Piove. Tua moglie te lo dice chiaro e tondo. PIOVE!!! E tu rispondi “Poco” e parti. I consueti 10/11 km che fai 3 volte a settimana, in attesa di provare distanze più grosse. Corri. Arrivi a metà del percorso che fai di solito e poi torni indietro. Quando torni indietro vedi uno che va dalla parte opposta alla tua. E’ il primo che vedi stasera, perché piove. Quando piove in tanti non ci vanno a correre. Lo saluti. Li saluti tutti, perché quelli che corrono si salutano, quando si incrociano. Lui ti saluta, con quella sua vocina acuta e poi ti passa a fianco con una velocità pazzesca. Sarà mica lui? Tu aumenti, che se è lui, poi te lo trovi dietro tra un poco e ci rimani male. Passa un poco e tu vai vai vai vai vai. Sei a due km da casa e incroci un altro. Lo saluti. Ti saluta. Poi dopo un secondo lo senti dietro di te che saluta e senti di nuovo quella vocina acuta che dice “Ciao”. Poi ti affianca. Sorride. Tu aumenti, gli stai a fianco. Poi lui passa, ti si mette davanti e tu VROOOM. Dietro. Per quasi 200 metri gli stai dietro. Poi lui curva e cambia strada.

Ora, io lo so benissimo che lui probabilmente stava andando a funghi e io invece stavo andando a manetta. Però provateci voi a stare un mezzo giro di pista di uno stadio attaccati al culo del campione olimpico di maratona, poi ne parliamo.

:-)

Una scusa per bere gratis.

Io e il Dottor Manicardi tempo fa avevamo avuto l’idea di fare uno spettacolo dove io suonassi e lui leggesse delle cose che scrive, giusto perché in questo modo ci vedevamo una volta in più andando fuori a bere qualcosa e ci eravamo detti che se qualcuno ci fosse cascato, allora non avremmo nemmeno dovuto preoccuparci del fatto di dover chiedere il conto e anzi, magari ci sarebbero saltati fuori due euri. Poi abbiamo lasciato lì la cosa, che tanto figurati chi è così stupido da cascarci, ci siamo detti. Beh, quelli dell’ “AH BEIN BAR” di Via CANALINA 19 a Reggio Emilia ci sono cascati e ci hanno chiamato a fare questa roba qui e quindi noi stasera ci andiamo. Si mangia anche. Cucina tipica emiliana a prezzi super competitivi, che è l’unico motivo per il quale venire. Se però dovete mangiare della roba che avete in casa che altrimenti vi scade, allora potreste andare davvero da un’altra parte: tipo alla Sala Truffaut a Modena c’è un bel documentario su Gregory Crewdson, al Rosebud c’è l’ultimo di Ozon, oppure state in casa che c’è anche freddo e chi ve lo fa fare di uscire vestiti pesanti?

THE caldo, THE freddo, THE THE.

In principio fu Matt Johnson. Si fece chiamare “THE THE”. In molti ricordano solo il suo nome e non la sua musica. Peccato perché ha fatto alcune cose egregie e particolari, tipo fare un album con un video per ogni pezzo ben prima che ci fosse Youtube (Infected), oppure un tributo ad Hank Williams dove riproponeva i suoi pezzi in modo davvero originale (Hanky Panky) e pure un gran disco di Pop (Dusk) dove spiccavano il riff di armonica più bello della storia (Slow emotion replay) e un video di un brano (Dogs of lust) dove i protagonisti erano tutti a una temperatura caldissima e sudavano per davvero. Forse qualcuno cominciò a pensare che “THE” fosse il nome vero di quel tipo lì e penso che avesse un senso pronunciarlo quando diceva il nome di una band.

Questo onore una volta era concesso soltanto ai gruppi non anglofoni. I tedeschi in particolare (o i gruppi che sceglievano un nome tedesco) diventavano tutti DIE (riempite voi lo spazio). In particolare ricordo anni passati nella radio dove trasmettevo a sentire i DJ che parlavano del “Nuovo album dei DIE KRUPPS” o “dell’ultimo dei DIE KREUZEN”, tanto per fare due nomi. *

Poi un giorno, a memoria all’inizio degli anni zero (che una volta si chiamavano anni duemila, decennio partito con grandi intenzioni) qualcuno ha cominciato ad ascoltare gruppi che avevano di nuovo il THE nel nome.

Non voglio dire un filtro, una tazzina e “Latte o zucchero”. Intendo l’articolo.

Visto che in quegli anni lì c’era già internet, non è che si potrebbe vedere chi è stato il primo babalone che in Italia ha cominciato a dire “I The Strokes” oppure “I The National” o addirittura “I THE BEATLES”?

Perché saperlo non sarebbe male. Del tipo che quest’uomo qui ha fatto dei danni incalcolabili, una roba peggio di quelli che hanno messo in giro la voce che Gianni Morandi mangi la merda, che Predolin abbia l’aids o che Paola Barale e la De Filippi…

Giusto per sapere a chi dobbiamo attaccare lo scotch al campanello. Anzi, al “THE CAMPANELLO”.

* Se non avete mai sentito i DIE KREUZEN (A questo punto mi adeguo pure io), avevano un paio di ballate abrasive niente male. Andate su THE YOUTUBE a dargli un’occhiata, che almeno queste righe servano a qualcosa.

Concerti

Questo sabato (26/10) suonerò allo Stella Nera di Modena. A Novembre vi aspetterà “Una scusa per bere gratis” che è una idea nata da letture del Dr.Manicardi e musiche mie. A fine novembre una data in quel del “Pasteggio a livello” di San Felice sul Panaro. Poi il vuoto, fino a febbraio. Non è che mi sono ammalato, tranquilli. Aspetterò di avere il disco nuovo fuori, tutto lì. Portate pazienza.

Un bicchiere.

Sono morte centinaia di persone nell’affondamento di un barcone. Ci siamo indignati. Abbiamo fatto il lutto nazionale. Abbiamo litigato perché c’era chi diceva che non bisognava farlo, che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. Poi ne sono morte altre decine per un barcone, nove giorni dopo. Ci siamo indignati meno, non abbiamo fatto il lutto nazionale, abbiamo anche litigato meno con quelli che dicevano che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. A dire il vero non ne abbiano nemmeno parlato, qualcuno ci ha provato ma poi ha pensato che non erano trecento ma solo una trentina oppure siamo rimasti in silenzio pensando “Ma che palle, adesso però. Mica posso sempre incarognirmi”.

A volte mi chiedo quale sia la nostra soglia, nella percezione delle cose.

Sembra un bicchiere da riempire al contrario.

All’inizio, sull’orlo, sta la tacca dello sgomento, dell’indignazione, della protesta. Ad un certo punto, che non so misurare, sta la tacca della normalità, dell’abitudine. Un pelo sotto sta la tacca dell’ineluttabilità, della rassegnazione. Sul fondo arriva il bicchiere colmo, la normalità.

Poi ci sono le fontanelle, dove l’acqua scorre sempre. Il bicchiere è sempre pieno, quindi. A quel punto ecco la “tradizione”, questa parola che oramai è diventata un falso amico, uno di quelli che (per dirla con “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese) ti ammazzano con il sorriso sulle labbra.

Poi un giorno arriva uno, gira il bicchiere e se lo beve in un attimo. E ci lamentiamo che manca l’acqua.

Lo abbiamo seppellito giovedì

“Mi sono stancato di avere paura in continuazione”.

Sono le parole di Brooks, un personaggio del film “Le ali della libertà”, prima di suicidarsi. Sono parole che spiegano bene la condanna che ci si porta in spalla ad avere paura di qualcosa che gli altri considerano normale. Ci si sente tanto male che alla lunga il logoramento può portarti ad impazzire.

Io avevo paura dei cani. Se in una stanza c’era un cane, io uscivo. Se ero in un parco e un cane gironzolava libero nel raggio di cinquanta metri, io non lo perdevo di vista nemmeno un secondo. Quando da piccolo si trattava di scegliere a casa di che amici andare a giocare, io andavo da quelli che non avevano un cane.
Mia madre ha avuto anche un paio di cagnolini, che non mi facevano paura ma dai quali stavo comunque bene a distanza. Ho avuto una ragazza che adorava i cani, ma quando i suoi due (che vivevano nell’officina del padre) me li trovavo intorno, restavo teso tutto il tempo. Paura.

Quando ho incontrato Poldo, tre giorni dopo aver conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, mi ha ringhiato e abbaiato contro. Cattivo, proprio. Voleva farmi paura. Ci riuscì benissimo.

Oggi che esistono foto mie dove metto la testa in faccia ad un alano brandenburghese, che quando vedo un cane in genere vado subito a fargli le coccole, che quando sono in un posto pubblico ed entra un cane enorme mi viene da sorridere e da corrergli incontro, non riesco nemmeno a dare la giusta importanza ad ogni momento che ho vissuto insieme a Poldo, nonostante i ricordi siano talmente tanti che mi viene da piangere solo a pensarci.

Poldo mi ha insegnato come fare a non avere paura. Per quel che mi riguarda, non esiste dono più grande.

 

Siamo qui perché lo vogliamo noi – La sindrome di Smaila.

“E’ tutto un attimo”. Si chiamava così. Era una canzone di Anna Oxa in non so quale edizione di Sanremo. Ricordo che pensai che di quell’edizione lì era una delle poche canzoni che si salvava e anche oggi, al netto di qualche suono di tastiera anni ottanta che risveglia il Torquemada che è in me, la ritengo una bella canzone. Ricordo che lessi il nome di Umberto Smaila tra gli autori. Umberto Smaila per me era uno dei “Gatti di Vicolo Miracoli”, che facevano del cabaret veramente avanguardistico e da piccolo mi piacevano un sacco. Jerry Calà era diventato un poco la star del quartetto (gli altri erano Smaila, Franco Oppini che poi sposò Alba Parietti, Nini Salerno che era quello che faceva ridere soltanto a guardarlo in faccia) ed era uscito dal gruppo per tentare la carriera solista. Il gruppo poi si sfaldò a metà degli anni ottanta e Smaila era uno che oltre a condurre programmi, fare il comico eccetera, scriveva anche canzoni. Ricordo che ci rimasi stranito quando lessi il suo nome su una canzone così, ma tant’è.

Smaila, tra i quattro gatti di Vicolo Miracoli, fu poi quello che ebbe la carriera solista più strana. Di lì a poco infatti venne chiamato su “Italia 7”, un canale diciamo così “minore”, a condurre un programma che fu una vera e propria rivoluzione. Si chiamava “Colpo Grosso” e per spiegarlo a quei tre che non lo sanno diciamo che con quel programma comparvero le tette in tv. Si trattava di un quiz dove i concorrenti si spogliavano quando perdevano una manche, dove c’erano delle vallette che si spogliavano e facevano vedere le tette ad ogni occasione buona, del tipo che se bisognava fare testa o croce si prendeva una valletta, le si metteva su un capezzolo “testa” o “croce” e poi, una volta scelte le facce della moneta, si tirava via il reggiseno e vedevi chi aveva vinto. Una cosa molto antifemminista, insomma.

Certo oggi che c’è internet e chiunque può sfondarsi di seghe con le cose più zozze dell’universo che basta un clic, una cosa come “Colpo grosso” può fare sorridere, esattamente come quando i miei nonni mi parlavano delle foto dell’enciclopedia con gli indigeni dell’Africa che giravano nudi. Però vi assicuro che all’epoca fu una cosa che fece epoca, scusate la ripetizione.

Per darvi un’idea, le vallette del programma, che erano uno stuolo di belle gnocche assortite, si chiamavano “Ragazze Portafortuna” e poi in seguito vennero ribattezzate “Ragazze cin cin”. Forse l’ordine del battesimo fu l’inverso, ora non ricordo, in ogni caso le ragazze suddette cantavano una canzoncina con la quale entravano in scena e alla fine della canzoncina, tutte insieme facevano vedere le tette tutte insieme e il regista ne beccava una ogni volta diversa per il primo piano di rito. Il momento era talmente atteso che ci sono migliaia di maschi italiani tra i 35 e i 55 che oggi, a vent’anni di distanza, vi sanno cantare a memoria (o quasi) gemme sonore come “Po po portafortunaaaa” oppure tutto il testo di “Cin cin cin cin, assaggia e poi mi dici…”.

Non so come fu, forse che a fare la maitresse il buon Umbertone Smaila si sentisse intellettualmente inferiore oppure per una bieca ragione di diritti d’autore, fatto sta che non si sa bene come ad un certo punto spuntarono anche, di tanto in tanto, dei momenti musicali veri e propri. Smaila si metteva al piano e, rigorosamente in playback con la base, suonava una canzone mentre attorno al piano si radunavano le signorine che ammiccavano alla telecamera. Una sera, ricordo perfettamente, Umberto Smaila ci concesse una versione di “E’ tutto un attimo”, la sua canzone cantata da Anna Oxa a Sanremo. La cantò in lingua inglese e nel ritornello, dove la Oxa cantava “Voi, solo voi” l’Umberto invece cantava “Goodbye, Yesterday”. on chiedetemi perché, ma mi sembra un particolare rilevante.

Ora, la cosa potrà pure farvi ridere, ma io che mi trovavo davanti allo schermo in quel momento provai una compassione solidale della quale non mi credevo capace.

Si vedeva quest’uomo in sovrappeso, infilato in una giacca brutta come solo le giacche di quegli anni sanno essere, che urlava tutta la sua disperazione in un microfono spento sopra ad una base con suoni sintetici terrificanti, attorniato da una decina di ragazze che ammiccavano alle telecamere sorridendo nella maniera più finta che possiate immaginare. E dietro quelle telecamere, nelle case, migliaia di maschi che con i pantaloni semiabbassati e il volume bassissimo si stavano soltanto chiedendo “Ma quando cazzo finisci di cantare, ciccione di merda?”.

Un uomo solo, circondato da un mondo che non lo potrà mai capire. Gliela leggevi in faccia la tristezza, a Smaila. Gli leggevi in faccia il fatto di capire di non poter farci nulla ma di dovere comunque andare avanti, se non altro per onor di firma. Per combattere fino in fondo e poter dire “Io ce l’ho messa tutta”. Lo vedevi cantare ad occhi chiusi, per cercare di estraniarsi da quel contesto grottesco che stonava più di un semitono eccedente. E in quell’attimo in cui poi tornava alla conduzione dopo l’applauso finto che in realtà era registrato e mandato dal regista alzando un cursore, gli leggevi tutto il peso della sconfitta e del mestiere che si era scelto lui, tutto sommato. Anche oggi, che Smaila ha una catena di locali dove fa il piacione e dove non mi augurerei di entrare nemmeno se costretto, ricordo essenzialmente quell’attimo lì, quella sua espressione del viso. “E’ tutto un attimo”, appunto.

Fu una scena tristissima, una di quelle che ti si piantano nella memoria anche se non vorresti, ché vorresti che la tua memoria e la tua scala di valori passasse per Verga, Flaubert, Tolstoj, i Velvet Underground e Igor Stravinskji e invece ti tocca avere come chiodo fisso Umberto Smaila e il “Raddoppio Panto” (qualcuno sa di cosa sto parlando, scusate il linguaggio da iniziati).

Oggi, quando (per fortuna sempre più raramente, l’ultima volta che mi sono sentito così è stato il 19 Aprile di quest’anno al Red Mosquito di Mazzalasino, vicino casa mia. La penultima manco lo ricordo, per fortuna) mi capita di andare a suonare in un posto e di dannarmi l’anima per un’ora e mezza nell’indifferenza generale davanti ad un pubblico che è venuto lì per farsi i sacrosanti cazzi propri, mi sento come Umberto Smaila quella sera lì. E quando, dopo aver cantato con gli occhi chiusi, li riapro a fine pezzo, a volte mi stupisco di non vederli tutti con il telecomando di fianco e i pantaloni giù, ma la cosa non mi consola per niente.

Cinque.

Era un lunedì. Non avevamo detto niente a nessuno o quasi. Io mi sono alzato e sono andato in pigiama dal fioraio, a piedi. Ho attraversato il centro di Rubiera a piedi in pigiama con un bouquet in mano, mentre tutti quelli che andavano a scuola e a lavorare mi guardavano come si guarda un alieno. Ho anche incontrato la Mara, che qui a Rubiera è Mara Lucchetta, all’epoca “quella della videoteca” che mi ha visto con il pigiama e il bouquet e mi ha detto “Ma vi sposate?”.

Poi son tornato a casa e mi sono fatto la barba, mentre lei in negozio tagliava i capelli a sua madre, che li tagliava alla sua socia, che li tagliava a lei, in un giro da catena di montaggio iperveloce. Ricordo che mentre mi facevo la barba ho ascoltato “CASA” di Roger Dean Young, un cantautore sfigatissimo che poi gli ho anche mandato un messaggio su myspace dove gli raccontavo questa cosa qui che sto scrivendo adesso e lui mi ha detto che lo avrebbe conservato per sempre.

Poi mi sono vestito, mettendomi il vestito che avevo la sera che ci siamo conosciuti perché avevo detto che avrei fatto così. Lei invece aveva un vestito che non era il tipico abito nuziale, che lo siamo andati a comprare insieme e ricordo ancora le facce delle commesse che “Ma come? Ma lo sposo non deve vedere la sposa e blah blah blah”

Poi sono arrivati i miei e i suoi, i testimoni più la socia di mia moglie e il suo ragazzo e un’amica di mia moglie che dice lei che anche se non erano sorelle era come se lo fossero e quindi non potevano mancare, anche se subito avevamo detto che facevamo solo i genitori, fratelli, sorelle e relativi compagni. Per me andava benissimo, che comunque son persone simpatiche e quindi che problema c’è?

A me lei chiese se non volevo proprio che neanche un mio amico venisse. Io risposi che no, non volevo nessuno a parte il mio testimone (e relativo compagno), così non facevo torto a nessuno e poi per me andava bene, i miei amici avrebbero capito. Se qualcuno non capiva allora era un amico da poco, di quelli che non avrei voluto al mio matrimonio. Infatti nessuno mi ha mai detto qualcosa per non averlo chiamato, che è poi anche normale.

Siamo partiti verso Scandiano, ci siamo fermati un secondo a suonare a casa di una signora che io non so manco chi sia, ma mia moglie le aveva detto “Quando mi vado a sposare ti vengo a suonare a casa” e abbiamo riso molto.

Poi in comune abbiamo aspettato un poco. Siamo andati a Scandiano, perché di lunedì a Scandiano c’è il mercato e così mentre tornavamo alla macchina se avevamo voglia potevamo fermarci a guardare un poco le bancarelle, che a mia moglie piace.

Mentre aspettavamo è passato un mio collega che aveva anche lui preso un giorno di ferie come me. Mi ha visto vestito elegante davanti al comune ed è venuto lì convinto di fare una battuta, dicendomi “Ue, ti sposi?” e rideva. Ci è rimasto di sasso quando gli ho detto “SI”. Gliel’ho dovuto ripetere tre o quattro volte, non ci credeva.

Poi siamo andati dentro tutti e 18 (eravamo in 18, forse in 16, ora non ricordo esattamente, ci dovrei pensare, comprese le bambine di mio fratello), abbiamo cambiato sala mettendoci in una più grande così stavamo più comodi. Abbiamo fatto la formuletta di rito ed eravamo marito e moglie.

Ci siamo fermati nel primo bar che abbiamo trovato e abbiamo fatto l’aperitivo tutti insieme. Poi siamo andati al CAVERN, che non è quello di Liverpool, ma (era) una birreria a Mazzalasino gestita da due amici, che avevano aperto apposta per noi con i loro genitori che avevano provveduto a fare un menu che comprendeva un antipasto, due primi e poi gnocco e tigelle fino allo sfinimento. Al nostro matrimonio volevamo birra buona, sapete com’è.

Quando siamo tornati a casa abbiamo dato ai cani un pezzetto della torta nuziale, che era una Saint Honoré perché io avevo detto che “per me la torta del matrimonio è la Saint-Honoré, poi se vuoi cambiamo ma per me io sceglierei quella”.

Alla fine della giornata, che eravamo tornati a casa, ci siamo guardati un film preso in videoteca, che la Mara ha detto “Oggi offro io” ed è stato il suo regalo di nozze, che sembra poco e invece a noi ci è piaciuto un sacco, anche se oggi non ricordo che film abbiamo visto.

Il momento che ricordo con più personale soddisfazione è stato quando mio nonno, che all’epoca aveva novant’anni e ora non c’è più, che in vita sua ne ha viste di tutti i colori, che ha disertato dalla seconda guerra mondiale tornando a casa a piedi da Verona nascosto rischiando di venire fucilato un paio di volte, mi ha guardato e ha detto “E così questa è una birreria. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non ne avevo mai vista una. Bella però.”

E poi ha detto “Grazie Giancarlo, prima di morire mi hai fatto vedere una cosa nuova. Non si finisce mica mai, eh?” e ha riso, mentre “a me mi rideva anche il buco del culo”, come diciamo noi in Emilia quando vogliamo dire “Ero al settimo cielo dalla soddisfazione”.

Il giorno dopo eravamo a lavorare.

Quel giorno lì io me lo ricordo come davvero il più bello della mia vita o quasi, visto che un’affermazione del genere dovrebbe richiedere ore e ore a pensarci bene. Però mi ricordo che fu tutto perfetto. O meglio, non fu per niente perfetto, fu semplicemente tutto COME VOLEVAMO NOI.

Perché quando vedo che ai matrimoni ci sono gli sposi che stanno due ore in pose fintissime che sembrano uscite da un catalogo e arrivano tardissimo perché “DEVONO andare a far le foto” e poi lo sposo arriva e agli amici, sussurrando dice “che due maroni, le foto” e ride… Quando vedo che ci sono quelli che le foto le vanno a fare il giorno prima in uno scenario diverso da quello del matrimonio perché “Le foto del matrimonio DEVONO essere fatte a Venezia” (o a Capri, o quelle robe lì), quando vedo che gli sposi devono stare un’ora a togliere dei soldi facendo una fatica della madonna perché “DEVONO fare gli scherzi” (Gli scherzi ai matrimoni sono un capitolo a parte, personalmente passati i 25 anni ci vorrebbe una legge che ti sbattono dentro per direttissima senza neanche il processo), quando vedo che gli sposi DEVONO camminare in un certo modo, vestirsi mettendosi una cosa rossa, una blu, una verde, una nuova, una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù…

Perché poi mi capita di raccontare com’è stato il mio, di matrimonio. A quel punto vedo spesso le facce che partono con espressioni incredule ma incredibilmente felici, come se avessimo fatto una cosa coraggiosissima visto che la frase più ricorrente poi è “Mi piacerebbe, ma noi NON POSSIAMO fare una cosa del genere”.

Beh, quel giorno lì per noi le parole “Non possiamo” e la parola “Dovere” non esistevano (articoli del codice civile a parte).

Sono passati cinque anni oggi e se ci penso mi si stampa ancora un sorriso ebete sulla faccia.

Grazie di aver detto sì, Cri.