Informazioni su Giancarlo Frigieri

uno che suona la chitarra e canta

Faccia blu, una pozza di vomito, legato alla barella.

L’ho amato alla follia. Roba che ad un certo punto compravo tutti i dischi buttati fuori da Alan Douglas e compagnia bella, quelli dove registravano anche i cazzeggi e lui che parlava e interrompeva a metà le canzoni per spiegare a Mitch Mitchell come doveva suonare la batteria. Ho comprato 6 o 7 libri sulla sua vita e regolarmente li prestavo e non mi tornavano più indietro, ma non era un problema. Li prestavo perché pensavo che fosse giusto che qualcun altro potesse condividere questa passione incredibile. Nel 1990, il 18 settembre, l’allora alternativa alla Mtv americana presente in Italia, che era Videomusic, fece addirittura un “Jimi Hendrix Day” dove si parlò di “24 ore dedicate a Jimi Hendrix” e che partiva alle 9 di mattina. Il giorno dopo sarei tornato a scuola e mi ricordo che mi svegliai per guardarmelo TUTTO. Poi si capì ben presto che era una boutade, quando alle 9 cominciò un video di “All along the watchtower” registrata dal vivo e poi si susseguirono video di altre band che non c’entravano assolutamente nulla, con il commento di Wolfango Tedeschi che dopo 25 minuti introduceva “Bella signora” di Gianni Morandi provando a legarla a Hendrix per il fatto che il video cominciava con l’immagine di uno che suonava una chitarra.

L’ho amato alla follia, tanto che ascoltavo i suoi dischi decine e decine di volte e ogni volta che ho poi sentito le chitarre sferragliare e giocare con il feedback mi è sempre parso che più che tutti i Sonic Youth potessero stare più o meno nella sezione centrale della versione di “Foxy Lady” all’Isola di Wight.

Non ho mai sopportato una cosa, anche se per qualche momento anche io avevo anche io messo quel disco incantato lì. Il fatto che, anno dopo anno, si dicesse sempre “Chissà cosa avrebbe fatto oggi, se fosse ancora vivo” con toni da “Chissà cosa ci siamo persi”. Un discorso che personalmente trovo potesse essere valido nel 1975, ma dai 90 fin qui mi suona veramente patetico. Credo che se fosse sopravvissuto Hendrix avrebbe suonato, suonato e risuonato ancora, magari non avrebbe manco più registrato. Non credo comunque che avrebbe innovato la musica (o meglio, IL SUONO, che è faccenda completamente diversa) nella maniera in cui lo ha fatto in quei 3 anni nei quali è comparso sulla terra come “un filo elettrico attraversato da troppa corrente” (Non ricordo chi la disse, è la definizione perfetta per Hendrix).

Probabilmente ce lo ritroveremmo bollito a suonare dei vecchi blues per sbarcare il lunario, costretto a tournée nei bar di quint’ordine dove gli chiederebbero ancora di suonare con i denti a 71 anni, tanti ne avrebbe oggi che è il 43esimo anniversario della morte.

Lasciatelo stare, Hendrix. Lasciatelo là, legato alla barella soffocato dal suo vomito con un aspetto terribile, in fotografie che mostrano un ventisettenne che dimostra almeno 15 anni di più. Lasciatelo stare e lasciate stare le dietrologie, le frasi di circostanza di Carlo Verdone che tutti gli anni viene interpellato non si sa in base a cosa, la storia di Red Ronnie che si è ipotecato la casa per comprarsi la Stratocaster bianca di Woodstock.

Lasciate tutto là e godetevi la musica. E’ vecchia e si sente, oggi. Ma suona ancora da paura.

Il Giardino dell’Eden.

Sabato 21 settembre aprirò per The Youngs al GIARDINO di Lugagano di Sona (VR). Il giardino è un posto dove si comincia in orario precisi e si finisce alle 24.

Dove il posto è piccolo ma una band amplifica tutto.

Dove il pubblico che ti sta davanti ti guarda tutto il concerto SEMPRE senza fiatare mentre suoni: al massimo (ma per fortuna me lo hanno soltanto raccontato) dove il pubblico abbandona la sala educatamente in silenzio.

Dove se uno fa casino e chiacchiera impedendo agli altri di sentire bene, beh, è l’ultima cosa che fa lì dentro.

Dove c’è un juke-box della Wurlitzer con i 7′ originali dei ’60 e ’70.

Dove quando suoni come gruppo principale si fanno due set con un quarto d’ora di pausa.

Dove suoni almeno due ore, altrimenti si chiedono come mai gli hai dato soltanto l’antipasto.

Dove il gestore fa un cazziatone al fonico se lascia la cordiera del rullante della batteria mollata quando prima c’è un chitarrista acustico.

Dove il fonico, vuoi per il cazziatone di cui sopra, è un ragazzo giovane e bravissimo che ti tira fuori un suono sul palco e fuori che ti chiedi come fa.

Dove c’è una parete intera con la foto di copertina di Sgt. Pepper dei Beatles.

Dove le luci per il palco partono da una chitarra gigante che capeggia sul soffitto.

Dove il pubblico ti compra i dischi e ti chiede sempre come mai non hai fatto anche il vinile.

Insomma, è un paradiso. Il fatto che sia in un garage di una abitazione, che vi si parli prevalentemente dialetto veneto, che nonostante io ci abbia suonato 4 o 5 volte sbaglino ancora a scrivere il mio cognome :-) probabilmente ha un significato profondo, ma ancora non riesco a coglierlo. E francamente chi se ne frega. Io sabato 21 suonerò una quarantina di minuti prima della miglior tribute band di Neil Young d’Italia. Venite in paradiso con noi?

 

Alessandro Arianti. Uno di quelli giusti.

Il nome non vi dirà nulla, probabilmente.

Questa sera l’ho visto mettersi in fila allo stand “Tigelleria LA KUNZA” della Festa Democratica di Modena poco dietro di noi e comprarsi una piadina e una coca cola, che poi si è bevuto prima di andare a fare il suo lavoro.

Alessandro Arianti è un ragazzo giovane che suona il pianoforte e le tastiere. Suona con Francesco De Gregori.

Quando l’ho visto in fila con tutti gli altri, che si pagava la sua piadina e la sua coca senza andare a chiedere o a dire nulla, mi è venuto da pensare a tutti quei gruppi che imbucano dodici persone cercando di scroccare cene quando vanno a suonare, che vedono chi li chiama a suonare come un nemico, che pensano soltanto a tirare sul prezzo e che poi quando alla 450esima birra che bevono, dopo aver suonato svogliati perché magari il pubblico “non è adatto alla nostra musica” e poi scrivono e sottoscrivono catene sui socialcosi scrivendo “Caro gestore di locale…” come se fosse un diritto divino per loro occupare un palco.

Questi qui continuano a suonare in buchi sempre più di merda (perché una volta che vengono chiamati non li richiamano, fateci caso quando guardate le date del vivo delle band, perché è un buon metodo per capire chi sa fare il suo mestiere).

Il Signor Arianti invece si paga una piada e una cosa, ma quando attacca “La donna cannone” o “La storia” ci sono migliaia di persone alle quali esplode il cuore ad ogni tocco sulla tastiera.

Gli altri sono buoni solo sulla tastiera del computer di casa, perché dal vivo non suonano mai.

Chiedetevi il perché, ogni tanto.

DISTACCO.

La presente per comunicare che questo autunno inverno cercherò di centellinare un poco le uscite dal vivo.  Il fatto è che a fine mese entrerò in studio per realizzare quello che sarà il mio nuovo album. Il disco si chiamerà “DISTACCO”, conterrà 10 canzoni nuove e uscirà, se tutto va come deve andare, ai primi di Marzo 2014. Lo registrerò all’Igloo di Correggio (RE) e dietro al mixer in cabina di regia ci sarà Andrea Sologni, bassista dei Gazebo Penguins.

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Canta che ti passa (e che te lo passo)

In un vecchio articolo di non mi ricordo che giornale, Brian Eno diceva una cosa secondo me giustissima. Brian Eno, per chi non lo sapesse, è uno che ha suonato con i Roxy Music, che ha prodotto i dischi migliori di gente come David Bowie, U2, Talking Heads e chi più ne ha più ne metta. Non è il primo coglione su questa terra, insomma, quando si parla di musica. E proprio di quello parlava il buon Eno. Anzi, di CANTO. Dell’importanza del canto.

Non era una colta digressione sulla qualità del canto di chicchessia, non era nemmeno un saggio sul canto di non so quale popolazione che veniva ripreso da chissà quale artista. Il succo dell’articolo era che cantare fa sentire meglio. Eno diceva che con i suoi vicini di casa aveva fatto un gruppo di canto. Si trovavano ogni (mettete voi il giorno) in casa di qualcuno. Ognuno portava qualche vettovaglia e poi, tutti insieme, cantavano. Il patto era che si sarebbe cantato a cappella, senza l’ausilio di nessuno strumento. E soprattutto che non si sarebbe registrato nulla. Ciò che veniva cantato rimaneva in quel momento in quella stanza e poi l’aria che le corde vocali dei presenti avevano fatto vibrare si sarebbe mescolata al resto dell’universo disperdendosi. Non c’erano secondi fini, si cantava e basta. Non importava nemmeno essere particolarmente intonati. Diceva che la cosa era profondamente divertente e che tutti, dopo la sessione, si sentivano molto meglio.

Ci credo. Cantare è bellissimo.

E’ liberatorio come poche cose al mondo. E possiamo farlo ovunque. Sul lavoro, sotto la doccia, in un centro commerciale. Se cominciamo a cantare tra gli scaffali del supermercato (io lo faccio spessissimo, magari andando dietro alla canzone che passa in filodiffusione) ci sarà sicuramente qualcuno che ci guarderà un poco male (accade spessissimo anche questo), ma se ci pensate bene quasi subito distoglierà l’attenzione da noi e tornerà ad occuparsi dei fagiolini in scatola scontati prendi 3 paghi 2. In fondo tante volte in un luogo pubblico sentiamo qualcuno canticchiare e suvvia, pensateci: difficilmente la cosa ci mette di cattivo umore.

Insomma, cantare rende il mondo un posto migliore.

Ricevere telefonate invece ci dà quasi sempre fastidio. Il telefono piomba con il suo suono sgraziato e taglia il silenzio come un coltello taglia una fetta di pane. Anche se abbiamo provato ad addolcirne il suono (inserendo motivetti o canzoni vere e proprie, a dimostrazione del paragrafo precedente) il ricevere una telefonata comporta sempre un piccolo (a volte infinitesimale) carico di ansia.
Le telefonate ricevute si sono moltiplicate con l’avvento della telefonia mobile. Una cosa alla quale ci siamo abituati e oggi abbiamo, non a caso, qualche piccola ansia compulsiva da ricevimento messaggi, da controllo di e-mail e cose così.

La cosa che è più fastidiosa però sono le telefonate promozionali. Quelle che ti arrivano da gente che non conosci e che non conoscerai mai che ti “offre” qualcosa che tu non hai chiesto e si permettono pure di insistere. Generalmente ti arrivano nei momenti in cui vorresti essere lasciato in pace. La pausa pranzo, spesso. Non hai tutto questo tempo e questi “DRIIIINNN” e poi “Pronto volevamo chiederle se il canone del….” e a quel punto tu ti metti lì e non vuoi essere scortese perché di là c’è uno con uno stipendio da fame che fa un lavoro di merda, perché rompere i coglioni alle persone per mestiere è veramente brutto (anche se farseli rompere a gratis è ancora più fastidioso).

Insomma, vuoi mandarli a quel paese, ma non vuoi essere brusco e scortese. Come fare? Personalmente ho “brevettato” un metodo che consiglio sempre a tutti e che oggi vorrei suggerire tramite questo sito. L’idea è molto semplice: CANTATE!!!

Se voi cominciate a cantare questi non avranno nemmeno il tempo di parlare, magari canteranno un poco con voi ma poi la smetteranno perché stanno lavorando e devono lavorare seriamente, altrimenti qualche loro superiore li prenderà per pazzi.

Non riusciranno a chiedervi nulla. Non c’è niente di più fastidioso di uno che canta mentre tu vuoi spiegargli qualche cosa, quindi dopo poco metteranno giù.

Difficilmente vi richiameranno e comunque diminuirà la frequenza (almeno con me è così). Infatti se tu chiami uno e questo canta sempre automaticamente pensi che quel tale deve essere picchiato nel cervello, il che comporta che non lo cerchi per fare affari. Nessuno vuole fare affari con un matto, visto che poi magari ti arriva un certificato.

Non dovete cantare per forza una canzone intera, potete anche fare dei piccoli pezzetti di ogni canzone che vi viene in mente. Non è necessario che siate intonati. Anzi, il contrario potrebbe far desistere prima il vostro interlocutore. Solo una cosa è importante: NON FERMARSI MAI, continuare a cantare. SEMPRE. Poi magari mettete giù di nuovo voi, se proprio loro non mettono giù, ma molto raramente succede.

A fine telefonata scoprirete di sentirvi meglio. Cantare fa sentire meglio. Funziona, davvero. Io in genere comincio con “Mi han detto che ti piacciono i ragazzi col ciuffo” e quasi sempre dopo una trentina di secondi canto pure “Chimera” di Gianni Morandi. In genere cose molto liriche, dove ci si sfoga per benino. In ogni caso, fate voi.

Vedrete, avrete una fila di rompicoglioni in meno nelle orecchie e voi vi sentirete molto ma molto meglio.

Parola di Brian Eno.

 

Poi dicono le tribute band…

Sabato sera 24 agosto, Festa del PD di Reggio Emilia, Area Sputnik.

Andiamo io e la mia signora a mangiare qualcosa e fare un giro. Ci sono i BIG BAMBOO, che sono un gruppo delle mie parti che fa un tributo a Bob Marley stupefacente da quanto assomiglino agli Wailers di “Babylon by Bus”. Quando entri nello spazio dell’Arena Concerti c’è una specie di muro fatto con dei pannelli che giorno per giorno illustrano tutti i concerti fino ad avere il programma completo, ogni concerto (o quasi) con la sua bella locandina appesa.

C’è anche la locandina dei Big Bamboo che hanno messo una foto gigante di Marley con la scritta “Big Bamboo” e “Bob Marley Tribute”. Non che la scritta non si veda, come fanno certe cover band che scrivono “DEPECHE MODE LIVE” a caratteri cubitali su una foto gigante di Dave Gahan e la parola “tribute” con il nome vero della band è scritta in Arial 7 che ci vuole il microscopio del Gran Sasso quando il tempo è sereno.

Ovviamente però la foto di Marley è messa in modo da catalizzare l’attenzione.

Una coppia cammina tranquillamente. Lei vede la foto di Marley sotto la scritta SABATO 24 AGOSTO e grida “NOO, DAI” poi si avvicina di corsa alla foto, legge la locandina e dice:

“AAAAHHHH ECCO (pausa) E’ UNA TRIBUTE BAND!”

(Se non l’avete capita subito non è grave. Occhio che quando arriva poi c’è da schiantarsi dal ridere. Tutto vero.)

TEMA: La volta che ho mangiato peggio in vita mia.

Svolgimento:

La volta che ho mangiato peggio in vita mia è stato il 22 agosto del 2013. Ero a Marina di Cecina, in provincia di Livorno, con mia moglie. Siamo arrivati e abbiamo parcheggiato lontano dal lungomare, che a Marina di Cecina di sera in agosto c’è traffico. Dopo che abbiamo parcheggiato ci siamo incamminati verso il lungomare e ci siamo detti che potevamo entrare in un ristorante qualsiasi che dai in fondo uno vale l’altro e che così magari non facevamo la fila come sul lungomare. Allora siamo entrati in un ristorante chiamato “DA FIAMMETTA” dove mia moglie ha deciso di prendere la pizza e io di mangiare del pesce.

Abbiamo ordinato e visto che avevamo letto “Birre artigianali” abbiamo chiesto cosa avessero. Ci hanno risposto che di birre artigianali avevano la MENABREA. Pessimo inizio, ma in fondo può capitare, ci siamo abituati, niente di grave.

Un indizio sospetto mentre aspettavamo, poi. Abbiamo visto due motorini di quelli che consegnano le pizze fermarsi davanti alle due case vicinissime al ristorante. Mi ricordo che io ho detto con mia moglie che dovevano essere proprio due cretini quelli che avevano ordinato le pizze pagando il supplemento del motorino e che magari te la consegnano anche fredda quando hai una pizzeria davanti a casa.

Poi è arrivata la pizza. Era grande come un 45 giri o poco più ed era peggio di quelle surgelate che trovi nei supermarket, sia come grado di croccantezza o sofficità, sia come sapore. A me invece è stato portato un antipasto che si chiamava “Il mare di fiammetta” che doveva essere una specie di gran trionfo dell’antipasto misto di mare e che vedeva qualche cozza e vongola secca, una fettina di una roba che credo dovesse essere carpaccio di tonno con una pisciata di maionese sopra e poi due crostini fatti con il pan carré. Avete presente quando comprate il pan carré e poi vi rimane aperto in frigo e prendete due giorni dopo una fetta in mano che si è un poco raggrinzita? Ecco, così. Manco tostato, giuro. Poi, visto che avevo preso anche un secondo di pesce avevo avuto con un tipo del ristorante un dialogo dove gli chiedevo tra lo sgombro e la palamita cosa avesse di fresco e lui ha risposto “La palamita!”. A quel punto io avevo confessato che “Io poi di pesce non capisco nulla, per carità” e lui aveva chiosato dicendo “Ma noi si, a noi con il pesce non ci fregano”.

Un quadratino grande come la “O” di quando fate “OK” con la mano, secco e raggrinzito servito su un alluminio circondato da verdure secche (l’olio non deve essere contemplato, nella cucina di Fiammetta) che rimanevano attaccate al cartoccio oppure venivano via ma ti dovevi mangiare anche la bauxite.

Ad un certo punto io ho perso la pazienza e ho proprio detto che dovevano andare a fare in culo a farmi spendere intorno ai 25 europei per quella merda. Ho detto proprio così e l’ho detto forte, tanto che mia moglie mi ha detto che dovevo stare attento che c’era il tipo dietro. Io ho ribattuto che oramai poteva soltanto sputarmi nel caffé, cosa che per un attimo ho temuto che abbia fatto visto che anche questo era talmente lungo che ho cercato il cartello “attenzione: acqua alta” con l’omino che annega.

Io sono di bocca buona, non mi lamento praticamente mai di un ristorante, figuriamoci pubblicamente. Quando vado al ristorante cerco sempre anche di raggruppare i piatti se fa comodo al cameriere e cerco di essere sempre gentile con tutti e portare pazienza qualora i tempi siano lunghi, specialmente quando sono in vacanza che invece loro stanno lavorando e servendomi da mangiare, ma come dice il mio amico Marco Paderni detto “Blasters” da Scandiano:

“Dio****, spendere dei soldi magari anche tanti per della roba che mentre la mandi giù fa schifo e la cosa migliore che ti può capitare è di far poca fatica a doverla anche cagare…”

“Da Fiammetta” a Marina di Cecina. Nel locale c’erano anche delle copertine di vinile, una era dei “That Petrol Emotion”. Dovevo aspettarmi qualcosa di terribile.

(Domani siamo al MEETING PEOPLE IS EASY, Festa del PD di Reggio Emilia, con il banchetto dei vinili del canile di Arceto. Ne abbiamo anche uno dei “That Petrol Emotion” che si chiama “Babble”. Chi lo compra vince del pan carrè raggrinzito)

Vaibrescions

Ieri sera io e la mia signora andiamo alla “Festa della libertà” di Zocca. E’ una consuetudine che abbiamo, ormai. Visto che in genere c’è un casino allucinante ci fermiamo a mangiare a Guiglia, dove in un albergo ristorante chiamato “Tre Lune” mangiamo due cotolette grandi come Piazza del Popolo buonissime, un piattone di verdure a buffet a testa, una San Miguel da 66 cl a cranio. Ci prendiamo anche il caffé. 30 euro in tutto, che in Emilia Romagna è un successone. Il tutto in compagnia di alcune simpatiche pensionate che svernano lì per l’estate e che scommettono tra loro se finiremo o meno la cotoletta. Da segnalare la pensionata che chiede alla cameriera se quella che è avanzata a lei “domani me la può fare in umido, con un poco di pomodoro che mi piace tanto…”.
Poi andiamo su, parcheggiamo lontanissimo e facciamo la solita passeggiatona a piedi. Ci facciamo largo tra l’odore acre della Marijuana in ogni angolo (a proposito: premio Oscar della comicità a chi ha postato su Facebook l’avviso “Attenzione che quest’anno ci sono anche i cani con la Digos”) e ascoltiamo distrattamente qualche gruppo, poi facciamo una passeggiata per le bancarelle del mercato.

C’è un tavolo dove un tipo legge i tarocchi. Io non ne posso più di questi qui. Del “pensiero magico”, intendo. Una di queste volte mi presenterò con una cassa di arance tarocco e poi l’appoggio sul tavolo dicendo “Non è che pretendo che le legga tutte. Mi dica, a grandi linee, di cosa parlano”.

Il truffatore che legge i tarocchi attira inevitabilmente qualche gonzo che si ferma a sentire cosa i tarocchi hanno da dire per lui. Mentre siamo lì allo stand a fianco arrivano tre ragazze. Tre ragazze che se ne parlassero due uomini tra loro al bar senza nessun freno politicamente corretto, probabilmente inserirebbero nella categoria delle “BELLE FIGHE”, se capite cosa intendo.

Una si siede, è tutta in solluchero perché “Ho proprio un sacco di domande e ho bisogno di risposte”. Il tipo fa la radiografia a tutte e tre e poi dice “Avverto delle buone vibrazioni”.

(Racconto della mia signora, Cristina Malagoli)

VU.

Era il 4 luglio del 1989, avevo quasi 17 anni. Stavamo andando a sentire “Piastrella Rock”, che era un festival con gruppi locali che suonavano a Fiorano. Lo presentava Stefano Covili di Radio Antenna Uno, detto il Cocco. Siamo saliti sulla macchina (non mia, non potevo) e abbiamo messo sui 104.7, la frequenza di Antenna Uno Rock Station. C’era la nastroteca ed è partita una canzone con un pianoforte che picchiava come un martello e una batteria ancora più ossessiva, delle chitarre che friggevano, poi una voce secca e impietosa attacava dicendo “I’m waiting for my maaaaaaaannnnnn”. Mi andò il cervello in pappa, un suono così non lo avevo mai sentito. Nicola Caleffi, che all’epoca di anni non ne aveva ancora 16 ma già trasmetteva ad Antenna Uno e che era il mio “compagno di dischi” dell’adolescenza mi disse che quelli erano i Velvet Underground. Mi disse che erano fighissimi, che i pezzi erano tutti così, andavano avanti secchi e dritti al punto. Niente assoli inutili, niente virtuosismi particolari o numeri da circo. Mi disse che il testo del pezzo parlava di uno che aspetta il suo spacciatore e che nello stesso disco c’era una canzone che si chiamava “Heroin”. No, dico. EROINA, punto e basta. Se mia madre mi avesse chiesto “Come si intitola questa canzone?” avrei avuto il coraggio di risponderle? Il giorno dopo Nicola trasmetteva in radio e quindi lo passai a trovare e mi feci tirare fuori il disco. Aveva in copertina UNA BANANA e sotto c’era scritto ANDY WARHOL. Non avevo mai visto niente del genere, a parte forse la copertina di “In the court of the Crimson King”. Ma qui la musica era allucinante. E chi cacchio era NICO, che veniva citata in copertina? “Una cantante tedesca”. Ricordai che ne avevo sentito parlare per il fatto che era stata con Morrison. Qui di Morrison ce n’era un altro, si chiamava Sterling ed era chitarrista e bassista. Poi c’era uno che suonava la viola e si chiamava JOHN CALE. Io conoscevo solo J.J. Cale e per un microsecondo mi chiesi se c’entrasse qualcosa. Poi alla batteria c’era scritto un nome. MAUREEN TUCKER. Una donna. Strano anche questo. Partì il primo brano. Nico cantava in tre pezzi, mi aveva detto Nicola. Credetti che il primo fosse “Sunday Morning”, un errore che fanno tutti visto che poi mi dissero che “No, quella è la voce di Lou Reed”. Cosa? Io Lou Reed lo avevo sentito, era quello che cantava “Walk on the wild side”, che faceva “DU DU DU DU DU” nel ritornello. Non poteva essere quello. E invece si. Poi arrivò “I’m waiting for THE man” che io credevo si chiamasse “I’m waiting for MY man” visto che nel testo lo diceva. Strano anche questo, soprattutto perché la voce era sempre quella di Reed, ma stavolta la riconoscevo come tale. Poi arrivò “Femme Fatale” e Nico fece la sua comparsa. Non ci stavo capendo niente ma era tutto bellissimo. Quando attaccò “Venus in furs” il mio cervello andò definitivamente in frantumi. Io una cosa così non l’avevo veramente mai sentita. MAI. C?era una viola distorta che faceva il diavolo a quattro e intanto un tamburello marziale, con questa voce gelida che cantava “Shiny shiny, shiny boots of leather…”

Nessuno ha un suono del genere. Nessuno.

Non ricordo se arrivai a “All tomorrow’s parties” o a “Heroin”. Ricordo che uscito dalla radio andai in un negozio di dischi e comprai “The Velvet Underground & Nico”. Chiesi “Quello con la banana” per essere chiaro, poi scoprii che quel disco è per tutti “La banana”. Quel disco rimase sul piatto fino a settembre. Prima un lato e poi l’altro. Senza soluzione di continuità. Non riuscivo ad ascoltare altro. Ogni tanto pensavo “Adesso cambio disco”, ma poi finivo per mettere SOLO QUELLO. A settembre comprai “Velvet Underground Live With Lou Reed VOl 1” e feci la conoscenza di “Pale Blue eyes” e di un altro aspetto dei Velvet. Quella era una canzone dolcissima e il loro terzo disco, il “disco nero”, ne era pieno. Lo comprai. Lo consumai (quasi) quanto la banana. Poi comprai ogni disco dove trovavo scritto “Heroin”. Comprai “Rock’nRoll animal” di Lou Reed e anche se era pieno di chitarroni roboanti supertecnici mi piacque molto. C’erano alcune canzoni stupende, come “White Light White Heat” e “Lady Day”. Scoprii che la prima era nel secondo album dei Velvet Underground, che però all’epoca non si trovava in vinile neanche a pagarlo oro e quindi me lo feci registrare su cassetta. Era RUMOROSISSIMO. C’era una canzone di 17 minuti che si chiamava “Sister Ray” e scoprii che non era dei Joy Division, visto che l’avevo sentita su “Still” e non mi aveva detto niente, ma mi ricordavo il titolo. C’era “Lady Godiva’s Operation” che era una cosa incredibile. C’era un racconto chiamato “A GIFT” di uno che si fa spedire dentro ad un pacco postale alla sua ragazza per farle una sorpresa e lei nell’aprirlo con due cesoie gli apre la testa in due. Ormai avevo un libro dei testi, di Lou Reed e i Velvet Undeground. Feci la conoscenza con i testi di “Berlin” e lo comprai fiducioso visto che lessi che era prodotto da Bob Ezrin, che aveva messo le mani dentro a “The Wall” dei Pink Floyd. Era un disco bellissimo, di una tristezza cruda e cupa che avrebbe scandito il tempo di parecchie serate dei miei lunghi inverni. Un disco di quelli che quando hai finito di ascoltarlo la tua vita non è più la stessa. Di quelli che esci con i tuoi amici in bar e tutti ti chiedono “Cos’hai?” e allora che gli rispondi? Che hai ascoltato un disco e che ci stai ancora pensando? Poi toccò ad altri album. A “Street Hassle”, che aveva il pezzo che intitolava tutto che durava l’ira di Dio e parlava di uno stupro e di storiacce di strada su un tappeto di archi talmente soave che il contrasto rischiava di annichilirti. Poi “Loaded”, che ora lo salutano tutti come un classico, ma all’epoca ne parlavano tutti male ed in effetti suonava troppo normale, per essere un disco dei Velvet (ma avercene, sia chiaro). Da lì in avanti arrivarono pure “Songs for Drella”, comprato il giorno stesso dell’uscita così come “Magic and Loss”, la cui tournèe mi vide in seconda fila al teatro Storchi di Modena per uno dei concerti più belli della mia vita. Poi ci fu la reunion, che non mi piacque per niente perché quando metti qualcosa su un piedistallo e lo idealizzi poi non dovresti mai farlo scendere sulla terra. Ma la soddisfazione di vedere dal vivo Moe Tucker che suonava in quel modo folle oggi mi rende contento di essere stato là, contro la transenna al centro ovviamente. Arrivai persino a comprare i tributi ai Velvet Underground su Imaginary, dove i Nirvana facevano “Here she comes now” ma la parte del leone erano la versione IMMENSA di “All tomorrow’s parties” dei Buffalo Tom e “What goes on” degli Screaming Trees. Ogni band che faceva una canzone dei Velvet per me era dalla parte giusta (e quante erano, madonna mia). E poi ogni volta che si finiva a suonare con qualcuno e non si sapeva cosa suonare bastava che uno dicesse il titolo di un pezzo dei Velvet Underground oppure di Lou Reed che si poteva suonare alla grande, senza bisogno di essere dei mostri dello strumento.

Non riuscirò mai a spiegare cosa sono stati per me i Velvet Underground. Di sicuro mi hanno cambiato la vita. La vita e la concezione stessa di cosa potesse essere una canzone.

Però, mercoledì 31 Luglio (cioè stasera, per tanti che stanno leggendo) al SUN AGOSTINO di Modena ci saremo proprio io, Nicola Caleffi e i ragazzi di Radio Antenna Uno. Proveremo a parlarvene e a suonarvene, sicuramente tralasceremo qualcosa e argomenteremo in maniera scomposta, sconnessa e inopportuna. Però, con un poco di fortuna, magari potremmo anche cambiarvi la vita. Venite a provare.

JJ

Il 26 Luglio, giorno del mio 41esimo compleanno, è morto JJ Cale.

Aveva 74 anni ed ha sempre avuto uno stile assolutamente inconfondibile, che quando possibile ho cercato di copiare.

Non sono stato mica l’unico.

Senza JJ Cale, Eric Clapton oggi farebbe probabilmente il casaro (e viceversa, visto i soldi di royalties di “Cocaine” e di “After Midnight”). Inoltre, tutti quelli che ascoltano i Dire Straits e amano lo stile di Mark Knopfler spesso non sanno che viene tutto da lì, in maniera quasi imbarazzante. Con la differenza che a Cale bastava suonare 3 note dove gli altri ne devono fare 300 per dimostrare di essere dei chitarristi.

La voce di JJ Cale era roca e suadente, come una carezza ruvida, velluto e carta vetrata. L’indolenza del suo suono particolarissimo e inconfondibile è stata fonte di ispirazione anche di insospettabili come gli Spiritualized, che rubarono la sua “Call me the breeze” rivisitandola in un brano chiamato “Run” dal loro primo album, “Lazer Guided Melodies”.

Se dovete cominciare da un disco, cominciate da “Naturally”. Compratelo, se possibile, in vinile. Ha una di quelle copertine dove ci si perde a guardare i dettagli, mentre intanto sul piatto scorre la musica più intima e avvolgente che abbiate mai sentito. Musica raccolta in canzoni che raramente passano i 3 minuti netti di durata, musica che non indulge in assoli e orpelli inutili, musica dove ogni nota è al suo posto e sembra esserci stata da sempre. Musica che ad ascoltarla distrattamente non sembra niente di speciale, ma della quale sentirete sempre il bisogno di tanto in tanto. Musica dove si sentono anche le note che non vengono suonate, se capite cosa intendo. E se capite cosa intendo e non conoscete JJ Cale allora vi invidio molto, perché state per cominciare un’esperienza incredibile.

Addio JJ, il tuo stile inconfondibile durerà nel tempo. Ogni chitarrista e ogni scrittore di canzoni ti deve qualcosa.