Informazioni su Giancarlo Frigieri

uno che suona la chitarra e canta

E’ solo un gioco. (Drogati, dipendenze, quelle cose lì).

La giornata di oggi, domenica 21 Luglio 2013, inizia con me che mi sveglio dopo un doppio concerto a Livigno. Mi alzo, vado a fare colazione con Matteo, che è quello che mi ha chiamato a suonare. Ci facciamo due risate, poi vado a comprare della bresaola in un posto che mi consiglia lui, faccio il pieno di gasolio che a Livigno costa 1,1 € al litro. Parto verso casa, il che significa passare dalla Svizzera, fare il “Pass dal Fuorn” e attraversare il “Parc Naziunal Svizzer” ascoltando RADIO RUMANCIA, dove parlano soltanto in romancio. Rido tantissimo, soprattutto quando il DJ mette una cover di “A hard day’s night” dei Beatles cantata in romancio. Poi arrivo in dogana in Italia. O meglio, in Sud-Tirolo, a Tubre. Il doganiere mi ferma, mi chiede la carta d’identità, mi chiede da dove arrivo e io rispondo “Livigno”. Allora mi chiede se ho comprato sigarette, alcool e robe varie. Mi fa aprire il baule della macchina e vedendo la chitarra mi dice “E questa?” e io gli spiego che sono andato a Livigno a suonare. Lui allora mi dice “Ah, lei suona, eh?” con quel tono da chi vuol intendere che se tu suoni sei un drogato, un poco di buono, un mezzo barbone sbandato. Io a quel punto rispondo solo “SI”. Lui non dice più nulla.

Mi è sempre stato mortalmente sul cazzo questo modo di vedere noi che suoniamo come dei mezzi barboni, straccioni, drogati, parassiti della società: Mi è sempre stato sul cazzo perché io ho un lavoro, una casa di proprietà, faccio una vita normale e perfettamente borghese, tutto sommato. Solo che per hobby mi piace girare l’Italia (anche passando per la Svizzera) cantando le mie canzoni. Forse al doganiere e a tutte queste persone per bene, piace andare allo stadio, oppure fare bricolage, magari fanno la collezione di “Tex” e spendono centinaia di euri per la prima stampa di “Uno contro venti” (Il numero 2 di Tex). Eppure a loro nessuno rompe le palle con quel tono che lascia intendere chissà quale modo di vivere.

Mi sta mortalmente sul cazzo ancora di più quando poi queste brave persone vanno in vacanza e magari se ne stanno in piazzetta a mangiarsi un gelato e c’è qualcuno che suona e allora sono contenti, che in centro c’è un poco di musica e “che bella voce ha quella ragazza lì, che faceva le canzoni di Elisa che era proprio uguale” che allora a quel punto lì non sei più un brutto parassita perdigiorno, solo perché ti fa comodo.

Entro in Sud Tirolo, mi sparo tutta la statale fino a Merano ascoltando le radio di Blasmusik,l’equivalente del liscio in lingua tedesca, una mia passione insana. Adoro sentire queste canzoni melense con testi un poco sempliciotti e adoro vedere come fanno le rime in lingua tedesca. In genere al terzo ritornello sto cantando la canzone da solo in macchina, come un imbecille e rido. Chi mi vede pensa che io sia pazzo e stavolta forse ha ragione.

Poi prendo l’autostrada a Bolzano e vado verso casa. Mi fermo a mangiare qualcosa, poi riparto e ad un certo punto, visto che sono stanco, mi fermo di nuovo in un’area di servizio a prendere qualcosa di rinfrescante e a fare un’ultima pausa.

Sono all’area di servizio MAGLIONE SRL POVEGLIANO OVEST, al Km. 240 dell’A22. Il telefono è 045/7925360. Sono le ore 14, almeno questo dice il mio scontrino, che ho prontamente conservato.

Mentre sono in fila alla cassa, vedo che ogni persona davanti a me che compra qualcosa si sente dire “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?” dalla cassiera. Non so se sia legale, mi dico, incitare al gioco d’azzardo.
Ogni persona, qualsiasi cosa compri, prima ancora di sentirsi dire l’importo, si sente dire “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?”.

Arriva il mio turno. La tipa mi dice “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?”.

“Mi può togliere una curiosità?”
“Dica”
“Lo fate anche con le sigarette?”
“In che senso?”
“Vuole anche una stecca di Marlboro? Vuole cominciare a fumare?”
“AHAHAHA” (la tipa ride)
“No, perché volevo capire se lo facevate anche con il fumo o solo con il gioco d’azzardo”
(La tipa smette di ridere)
“Guardi, io lo so che non è colpa sua e che a lei danno degli ordini, lo so che se lei non esegue gli ordini probabilmente finisce anche nei guai. Però mi piacerebbe vederlo in faccia l’imbecille che le dà questi ordini”

La tipa di colpo dice “3,94. Grazie e buon viaggio anche a lei, salve”. La tipa a fianco a lei le chiede “Cos’ha detto?” ma intanto la ragazza che mi ha servito è già uscita dalla cassa (la fila c’è ancora, notare) e parte spedita verso un punto dell’area di servizio, entra in un punto che non so cosa sia, ma immagino sia andata a segnalare l’accaduto.

Ecco, io in un posto dove una chitarra fa pensare a qualcosa di illegale e dove invece si incita a giocare d’azzardo chiunque ti capiti davanti senza che nessuno protesti o dica niente, penso che ci vorrebbero più chitarre. E penso che le dogane dovremmo tenerle nel nostro cervello, non necessariamente dove dice una cartina geografica.

777

Quelli che mi hanno visto dal vivo lo sanno. Se c’è una cosa che non mi piace dei concerti definiti “indipendenti” (di noi poveri) è la faccenda del bis.

Nei concerti fighi uno esce, il pubblico chiede automaticamente il bis, torna fuori e via.

Noi no. Quando abbiamo finito accade che ci mettiamo di lato, nessuno ci richiama fuori se non un piccolo e sparuto gruppo che in genere organizza il concerto, tu te ne stai lì come un pirla fino a quando quello che organizza ti viene proprio a stanare. Allora tu torni fuori, quelli che sono lì ti guardano come uno sfigato e tu fai un paio di canzoni ancora in un’atmosfera patetica.

Per ovviare a questa cosa veramente squallida, ho inventato “la buffonata del bis”. In pratica mi metto d’accordo prima con il pubblico. La cosa è nata in maniera spontanea fino a ripetersi talmente tante volte che ormai è proprio un momento del concerto a parte, con tutta una serie di gag che ripeto con un’aria da vecchio mestierante, come un cabarettista fa con i numeri del repertorio che sa che funzionano.

In genere lascio al pubblico 3 opzioni. La “A” prevede che faccio un brano e poi fine. La “B” prevede che faccio un pezzo e poi esco, vado in bagno e torno a farne un paio. La “C” prevede che esco, tutto il pubblico grida “fuori, fuori” e io torno fuori facendo finta che mi abbiano chiamato per davvero.

Manco a dirlo, 95 volte su 100 il pubblico sceglie la “C”, perché trova la cosa divertente e perché al pubblico piace partecipare agli scherzi. Ragion per cui l’esposizione delle tre opzioni è una faccenda che occupa quei dieci minuti, nei quali in genere si ride parecchio. Per alcuni il momento da ricordare del concerto rimane quello, mica quando canto.

Solitamente, per far capire che se dicono “Fuori, fuori”, lo devono fare proprio bene ma bene, una roba che sembri vera, tipo stadio, individuo un tavolo che fino a quel momento si è fatto completamente i cavoli suoi e dico una cosa del tipo “Dovete farlo talmente forte che quei 3 lì al tavolo che è tutta la sera che si fanno i cazzi loro devono pensare di essersi persi un concerto della madonna”, il tutto magari condito con qualche battuta sui malcapitati che, in genere, nel frattempo continuano comunque a farsi i cavoli loro, salvo poi risvegliarsi al “fuori, fuori”. Insomma, una cosa da vecchio mestierante, come dicevo.

Ieri sera ero all’80° Miglio, un locale di Modena molto carino sulla Via Emilia. Arrivo al punto della buffonata del bis, espongo le 3 opzioni, quando parlo della “C” dico “Ma così bene che quei 4 beoni lì al tavolo di fianco che è tutta sera che non ascoltano e si fanno i cazzi loro si danno una svegliata”. Vedo che le facce del resto del pubblico, che in genere a questa frase ridono apertamente, hanno uno strano stupore. I tipi intanto continuano bellamente a farsi i cavoli loro, non sono nemmeno gli unici, a dirla tutta. Ma ormai ho scelto quelli, sono vicini al palco, li vedo bene, eccetera.

Visto che i tipi continuano, continuo anche io “Vedi, guardali lì. Anche adesso proprio non ci cagano pari. Quindi adesso li svegliamo in modo che pensino “GUARDA CHE CONCERTO MI SONO PERSO” e cose così”.

Le facce del resto del pubblico ridono, ora. Alcune ridono TANTISSIMO. I tipi continuano a parlare tra loro, in maniera molto animata, penso io. Infatti, come i classici italiani, muovono tantissimo le braccia quando parlano. C’è un detto di non so che paese che dice “Se vuoi far tacere un italiano, legagli i polsi”.

Io continuo e rincaro la dose, ironizzo pesantemente. Poi ad un certo punto, è una frazione di secondo, realizzo. Proprio mentre uno del pubblico mi fa un segno inequivocabile.

Ho scelto un tavolo di sordomuti e, manco a dirlo, io sono nel mezzo della “madre di tutte le figure di merda”, per dirla con il generale Schwarzkopf.

A quel punto comincio a ridere, in maniera quasi isterica. Io e il resto del pubblico ridiamo tanto, ma tanto, della cosa. Loro quattro ovviamente tirano dritto, non si sono accorti di nulla.

Per fortuna non hanno sentito…

Figure di Mare.

L’anno scorso ho suonato al Bagno SOLOSOLE di Cervia (RA), in spiaggia. Suonare d’estate in riviera in uno stabilimento balneare implica che chi si trova lì non presti troppa attenzione ad un concerto. Sta lì, si gode la vacanza, si ascolta qualcosa mentre beve qualcos’altro. E’ giusto così.

Quest’anno ci sono andato in vacanza per una settimana, al bagno Solosole. Conosco i proprietari, si sta bene, nonostante il tempo inclemente ma questo non è colpa di nessuno.

Sono lì che mi godo la vacanza quando un signore sulla sessantina inoltrata (direi) viene lì e parliamo del più e del meno mentre intanto accendiamo il televisore per vedere Uruguay-Brasile, confederations cup.

Mi dà in mano i telecomandi dicendomi di pensarci io che son più esperto. Poi, vedendo che ci salto fuori ma prima arranco un poco tra telecomandi e robe varie mi dice che forse non sono così esperto come credeva.

Gli rispondo che io a casa non ho il televisore e quindi sono rimasto ai tempi in cui il telecomando era uno solo.

Lui sgrana gli occhi e da quel momento lì per due giorni mi chiede come faccio a stare senza tv. Tutti quelli che entrano vengono a imparare che io a casa non guardo la tv, perché lui glielo dice subito.

Mi è venuta in mente una scena de “La grande bellezza” dove una tipa dice “Te lo avevo detto che non ho la televisione?” e un’altra gli risponde che sta facendo i coglioni così al mondo sull’argomento. Noto che ogni tanto c’è anche sui vari socialcosi (copyright Marco Manicardi) questa critica alla presunta “ostentazione del fatto di non avere la tv”.

Ebbene, non ho nemmeno la lavastoviglie. Soltanto che quando lo dico nessuno si stupisce. E dire che ce l’hanno tutti. In genere però può scappare un “Che due maroni, lavare i piatti a mano” e poi finisce lì.

Se invece dici che non hai la tv vieni tempestato di domande sul “E come fai?”. La cosa ti fa sempre sembrare molto intelligente, quando in realtà tra passare una serata davanti a una puntata de “Il grande fratello” e una davanti alle bacheche di Facebook non è che ci sia tutta questa differenza, almeno secondo me.

In ogni caso, il tipo va avanti così tutto il tempo. Da lì per il resto dei giorni mi dirà sempre cose del tipo “Ah, però in vacanza guardi la partita, sei l’italiano medio”. Oppure “Ah, però in vacanza, gelatino, pennichella sulla spiaggia, sei l’italiano medio” e sempre avanti in questo modo. Io ogni volta sorrido e rispondo “Chiaro, sono in vacanza in riviera, mica sono andato alle Grotte di Lascaux ad ammirare le pitture rupestri”.

Poi ad un certo punto, il tipo dice “Oh, sabato sera quelli del bagno fanno una serata all’Hotel Vienna”. Io sabato sera sarò già a casa mia, purtroppo.

Il tipo dice “Ci saranno le birre artigianali e poi c’è anche uno che suona. Ma uno bravo, mica quel pelato di merda che è venuto l’anno scorso, che ha fatto venire due maroni…”

Al che realizzo che in effetti, vuoi per il sole, vuoi per non so cosa, finora davanti a lui non mi sono ancora levato il cappello.

 

Ti dico solo una cosa (Lo sport in televisione e la socialità secondo casa Frigieri)

Sarà capitato anche a voi, come diceva Sylvie Vartan. Non di avere una musica in testa, ma di vedere un avvenimento sportivo in differita. Spesso per ragioni dovute al fuso orario e al fatto che non potete stare svegli tutta la notte. Il giorno dopo dovete andare a lavorare e quindi decidete che ve lo guardate la sera dopo o quando riuscite. Accade spesso con gli sport americani.

Oggi, soprattutto con i socialcosi (Copyright Marco Manicardi), capita che nessuno resista dal guardarsi una partita di (riempite voi lo spazio) e poi comunicare al mondo il risultato.

Ci sono quelli più accorti che il giorno dopo ti dicono “Hai visto stanotte la finale degli US Open?” e al tuo “NO, NON MI DIRE NIENTE CHE LA GUARDO STASERA” non ti dicono niente e ti evitano. Non per cattiveria, anzi… Spesso ti concedono un tempo limite (tre giorni, una settimana al massimo in genere) e poi tornano sull’argomento. Hanno la fregola di dirti che il tale ha vinto con quella meravigliosa volèe che gli ha regalato la palla break decisiva al quarto set. Proprio perché ne hanno goduto così tanto, vogliono che anche tu ne goda e allora si ritirano e ti aspettano.

Ci sono quelli maleducati che ti dicono “HAI VISTO I PITTSBURGH STEELERS CHE HANNO MASSACRATO I MIAMI DOLPHINS? Oh, cazzo. 27-9, alla fine del secondo quarto praticamente partita finita. E poi nell’intervallo hai visto che c’erano gli Stones? Hanno fatto tutto “Let it bleed” e a “Midnight Rambler” è montato su anche Paul Mc Cartney a suonare il basso!!!” e a quel punto vorresti spaccar loro la faccia e invece rispondi solo “No, non l’ho visto. L’ho registrata, la prossima volta registro un porno. Almeno se me lo racconti non mi cambia granché”

Poi ci sono quelli che “TI DICO SOLO UNA COSA”.

Questa ultima categoria è composta dalle vere teste di cazzo. Non so esattamente cosa passi per il loro cervello quando “ti dicono solo una cosa”. Di sicuro non granchè, visto che a sentir loro la singola cosa che ti dicono non influirà minimamente sulle possibilità di goderti l’evento sportivo. Insomma, è “come se non ti dicessi niente”. E allora perché non tacere?

Invece questi bastardi decerebrati ti devono dire una cosetta, fare la battutina, spesso senza pensare che davanti a loro hanno qualcuno al quale l’evento sportivo in questione interessa DAVVERO e non soltanto come una scusa per stare tutti insieme davanti al televisore a parlare dei cazzi loro con in sottofondo Juve-Barcellona (per dire).

“LA COSA” che ti devono dire in genere parte da questo bisogno di rischio. Il rischio loro di rovinare A TE una serata. Un poco come se tu andassi a giocare alla roulette con i loro soldi e poi dicessi loro “E capirai, per 400 Euro…”.

I “Tidicosolounacosa” si dividono in diversi sottogruppi. Eccone qui alcuni tra i più comuni:

a) L’Idiota del 12esimo grado della scala Mercalli.
Distruzione totale. Quello che non arriva al minimo procedimento logico e ti dice “Lo guardi stasera il campionato mondiale dei pesi medi? Non ti dico chi ha vinto, ma ti dico solo una cosa. ATTENTO AL QUINTO ROUND, NON ANDARE IN BAGNO” e poi ridacchia, non si sa se compiaciuto per averti rovinato la festa o se perché convinto di averti fatto un favore (Non esistono studi di laboratorio sufficienti per avere dati attendibili). Interessante la variante “GUARDALA FINO ALLA FINE” in caso di partita di calcio con gol al novantesimo.

b) L’ignorante in matematica

State guardando le serie di uno sport americano. Io guardo il baseball, ma con il basket NBA il discorso è analogo. La formula è che le squadre si affrontano al meglio delle 7 partite. Chi ne vince prima 4 ha vinto. Mettiamo che nella serie stiano 3-1 per i Vattelapesca Crickets contro i Casamia Vandals e stasera vi guardate gara 5 che avete registrato. Loro vi dicono “Domani sera, che è venerdi, vieni a casa mia a vedere gara 6 e facciamo la notte?” A quel punto gara 5 sapete già che l’hanno vinta i Casamia Vandals. Che la guardate a fare?

c) L’entusiasta

E’ quello che sa della vostra passione per il baseball e dopo una settimana nella quale voi evitate di avere una vita sociale per guardarvi le gare che un vostro amico vi sta registrando, vi vede per caso in un bar e vi urla fortissimo “Oh, vecchio!!! Stanotte vieni a casa mia a vedere gara 7?” e a quel punto voi vi siete giocati tutta la serie. (Questa mi è successa davvero)

d) Il fallo di mano involontario (In genere  è il proprio partner, vostra madre, un parente stretto)
Quello che ti dice “Passi un attimo in negozio?” e nel secondo in cui tu passi in negozio mentre intanto riavvolgi la cassetta che ti ha appena registrato la marcia 50 km dell’olimpiade di Pechino, c’è la radio a tutto volume che dice “Ho tenuto il loro ritmo e poi li ho staccati”. Tu cominci ad urlare “LALALALALALALALALALA” ma ormai capisci benissimo che Radio Bruno, che è una radio iper generalista, non direbbe mai una cosa del genere nel notiziario se avesse vinto un messicano, un léttone, un samoano o un finlandese. Un italiano invece, probabilmente, si. A quel punto il tuo partner ti dice il perché ti ha fatto passare subito in negozio. “Mia madre mi ha lasciato una borsa con delle zucchine. Le puoi portare a casa? Sono nel retro”. Ovviamente quelle zucchine non potevano aspettare 3 ore e 50 in un frigo. Dovevano assolutamente venire prelevate subito. A quel punto in genere l’amore dà il colpo di grazia, nel senso che il partner si accorge di aver fatto una cazzata e invece di tacere dice “Scusa” con aria imbarazzata. Che tradotto significa più o meno “Si, nel caso avessi il dubbio, hai capito bene. Alex Schwatzer medaglia d’oro 2004. Ora vatti pure a vedere 3 ore e 50 di marcia sapendo già com’è finita. Pensa che coglione, ti sei anche alzato apposta!” (Autobiografica anche questa, come avete fatto a indovinare?)

e) Il malizioso (Variante fine del sottogruppo “a”)
Il tipo peggiore o quantomeno il più pericoloso. Quello che non capisce nulla dello sport che segui tu. In genere segue il calcio e quindi per lui lo sport si ferma lì. E’ quello che non capisce come tu possa guardarti delle partite di baseball e quindi ti prende per il sedere a intervalli regolari durante le chiacchierate sul lavoro alla macchina del caffé. Poi, un bel giorno, vede che te ne vai mentre tutti sfogliano la “Gazzetta dello sport” e tu commetti l’errore di pensarlo tuo amico e allora dici “Sto guardando le World Series americane, le registro alla notte, mi sono informato su tutti gli orari e ho programmato tutto, non voglio rischiare di rovinarmi la cosa. Non mi dire niente, ti prego”.

Lui allora che fa? Intanto VA A VEDERE SE C’E’ SCRITTO QUALCOSA SUL BASEBALL, cosa che non avrebbe MAI fatto. Poi legge, memorizza una singola informazione (il suo cervello non è in grado di tenerne di più) e poi viene lì da te stuzzicandoti tutta mattina, ma senza dire niente. Tu sai benissimo che arriverà il momento in cui rovinerà tutto e preghi che lo chiamino per un problema in produzione, perché ha lasciato il figlio in macchina, perché la casa gli si è allagata. Invece no, lui continua a punzecchiarti.

Fin quando… “TI DICO SOLO UNA COSA…”

E poi ti dice il nome di un giocatore che ha letto sul giornale. Solo un nome. Per lui è solo un nome, quindi non farà una grande differenza. Solo che cara la mia testa di cazzo, mi hai detto il nome di un terzabase. Non di un lanciatore, non del più grande fuoricampista che ci sia in campo, ma di un terzabase. E guarda caso è quello della squadra che si trova in vantaggio nella serie. Infatti con ogni probabilità tu hai letto quel nome perché scritto un poco più grosso degli altri. Questo può solo significare che il giocatore in questione abbia fatto qualcosa come il fuoricampo decisivo della partita, facendo vincere la stessa alla sua squadra che li è laureata campione del mondo e grazie a questa giocata il singor terzabase venga dichiarato MVP (Most Valuable Player). Infatti succede poi che la sera sei lì che guardi la partita con tuo fratello e quasi ti sei scordato di quel cretino che lavora con te. Ma all’ottavo inning si presenta in battuta con due uomini sulle basi il “Signor terzabase” e a te di colpo torna in mente tutto. Infatti: fuoricampo, MVP, fine partita, fine serie.

Ma come? Solo da un nome? Si. Era solo un’ipotesi, è chiaro. Ma hai visto che c’è qualcuno che fa girare le rotelline del cervello e IMMAGINA? Immagina anche dalla faccia che hai fatto quando non appena mi hai detto il nome ti ho spiegato tutta questa pappardella. La tua era una faccia incredula, una specie di “Ma come ha fatto a capirlo?” che è più o meno la stessa dei bambini quando un prestigiatore tira fuori un coniglio dal cilindro. Insomma, una faccia da idiota.

Morale della favola: SE SAPETE IL RISULTATO STATE ZITTI, STRONZI.

 

Nota: Per evitare di sapere i risultati delle World Series di Baseball, visto che non ho la tv e se scarico io finisce che poi conosco i risultati durante la ricerca, abbiamo messo a punto un sistema io e il dottor Manicardi che un giorno brevetteremo. Se rispettato in ogni sua regola è praticamente infallibile, a parte il rischio di incontrare stronzi durante la giornata. Da qualche parte ci devono essere delle mail che lo spiegano, poi un giorno ve ne parla lui se ha voglia.

Rocchi

E’ morto Claudio Rocchi, due o tre giorni fa. Ho sempre mal sopportato l’alone mistico che ne circondava le gesta e le sue uscite sul vegetarianesimo, non ero assolutamente d’accordo con quanto diceva sul Crowdfunding, ho trovato alcuni suoi dischi mortalmente noiosi. Però mi dispiace davvero tanto, soprattutto perché vedevo in lui un uomo davvero incredibilmente sereno e fiducioso verso il futuro, anche nelle condizioni più avverse e questa speranza eterna che lo accompagnava l’ho sempre ammirata tanto, così come “Volo Magico Nr.1” che è un disco incredibile. Oltre all’uomo, per il quale dispiace sempre, e ne va un personaggio con una personalità decisamente forte. Questo è davvero un peccato.

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Di lavoro (Le parole, la batteria, i batteristi).

C’è una specie di monologo, che in realtà non è un monologo perché non è che io poi stia lì a scrivermi le cose che dico tra una canzone e l’altra quando vado a suonare dal vivo. Non ne ho la capacità, di fare l’attore di teatro. Al massimo mi improvviso un poco cabarettista-cazzone, che quello mi riesce bene e ormai ci sono persone che vengono ai miei concerti solo per sentire le cazzate che sparo tra una canzone e l’altra. Ma sto divagando, come al solito.

Dicevo, c’è una specie di monologo dove dico che secondo me le parole hanno una loro carica naturale che funziona più o meno come la batteria di un cellulare e quindi ogni volta che noi usiamo una parola, questa perde un poco della sua carica originaria. Poi ad un certo punto finisce che dobbiamo lasciare riposare la parola in questione perchè è scarica quasi completamente. A quel punto spesso, come con i cellulari, ci capita di dover utilizzare la parola di nuovo prima che la ricarica sia completa e quindi la carica della parola dura sempre meno, fino a quando la parola è bella che andata e a noi non rimane che non usarla più, perché a quel punto che noi la si usi o meno ormai il suo significato (la sua carica) è andato in vacca.

In genere, dopo aver fatto questo pistolotto introduttivo, suono “La gente”. Che è una parola che secondo me dovrebbe essere lasciata a ricaricarsi per un bel po’.

Ma ce ne sono altre, di parole che dovrebbero ricaricarsi. Una che mi viene in mente al volo è la parola “EVENTO”, che credo spieghi bene l’analogia con la batteria del telefono. Una volta un evento era un cataclisma, un’inondazione, la nascita del proprio figlio. Poi è diventato una roba tipo una visita del Presidente della Repubblica, poi è diventato il passaggio del Giro d’Italia, poi la festa del patrono, poi un concerto in uno stadio, poi un concerto in un pub, poi un dj set e oggi “UN EVENTO” significa più o meno “tre spritz, due ciotole di arachidi e di patatine, un Ipod in funzione Shuffle attaccato a due casse”.

C’è un’altra parola che mi sembra stia subendo una involuzione simile. La parola LAVORO. Già questa è una parola equivoca. Il lavoro cambia il suo significato a seconda dell’ambito. In fisica ha un significato diverso dal linguaggio comune, dove può essere ad esempio usato come sinonimo della parola “COSA” o addirittura della parola “evento”, come in Emilia facciamo spesso. Oppure c’è il significato che le si attribuisce nel senso di “lavoro salariato” o comunque “occupazione”. In pratica, quello che fai per vivere, “quella cosa che ti dà un reddito”.

Avendo scritto qualche canzone sull’argomento, anche io ho probabilmente partecipato allo svilimento collettivo che stiamo attribuendo a questa parola. Mi dispiace e molto, soprattutto perché ritengo di essere arrivato a dare colpi ferali ad un corpo che ormai si rannicchia esanime in cerca di protezione.

Credo infatti che tutti quei politicanti e sindacalisti che dicono che “la priorità è IL LAVORO” abbiano creato la maggior parte del cortocircuito. La priorità non è IL LAVORO. La priorità è IL REDDITO. Visto che difficilmente quest’ultimo si raggiunge non lavorando, a meno di non intraprendere azioni criminali, per la “proprietà transitiva del farsi il culo come una capanna” il lavoro è diventato la priorità di molti di noi. Ma è uno scambiare il mezzo con il fine. Di questo, ad esempio, parlo in “Criceti” (uno dei pezzi del mio ultimo album) attraverso alcuni esempi di vita vissuta che vanno ad indicare quella che secondo me è la funzione del “lavoro”.

In tanti, ad esempio, mi dicono che uno dei loro pezzi preferiti quando suono dal vivo è “Colleghi” (Tanti tra i pochi che mi vengono a vedere suonare, sia chiaro. Non voglio mica esagerare che questo post è già talmente autoreferenziale che “Rattle and hum” degli U2 a confronto sembra davvero un documentario su una tournée).

“Colleghi” parla della mia intolleranza alle cene aziendali, le cosiddette “CENE DI LAVORO”. Le cene di lavoro sono cene dove si mangia tra colleghi di lavoro e in genere paga la ditta, altrimenti nessuno ci va.

Ebbene, ho dovuto purtroppo constatare che la canzone in questione (che eseguo ancora oggi con sommo piacere) è stata inesorabilmente sorpassata dall’usura del tempo, nonostante a me sembrasse di sferzante attualità e diversi apprezzamenti da parte degli spettatori ad ogni sua esecuzione avvalorassero tale ipotesi.

Infatti siamo arrivati alle locandine fuori dai ristoranti che propagandano il “menù fisso a mezzogiorno” come si diceva una volta, chiamandolo PRANZO DI LAVORO. Ora, la cena di lavoro nell’immaginario collettivo è una roba con una bella tavolata grande, parecchie portate, roba sontuosa, scrocconi che prendono il vino che non berrebbero mai se dovessero tirare fuori la grana, discorsoni dei capi che ringraziano tutti i presenti in formule retoriche che in realtà servono ad autoincensarsi e cose così.

Il pranzo di lavoro invece è una roba “Menu fisso 1 primo + 1 contorno + acqua o bibita piccola + caffè = 10 euro”. Una cosa del genere. Infatti è una roba dove si va in quattro al massimo. In una mensa non lo pubblicizzano neppure. E’ la regola. Diciamo che è una formula usata dai ristoratori che significa più o meno

“Questa non è mica una cazzo di mensa, questo è un posto di classe. Però, cari i miei straccioni, se volete venire a mangiare qui nel mezzogiorno sono disposto ad arrivare a questo compromesso, anche perché altrimenti mi tocca chiudere”.

Oppure, se letta nei bar, significa più o meno:

“Si, lo so che c’è scritto BAR. Però guardate che abbiamo un forno a microonde, non vi siete rotti le palle di farvi pelare per mangiare ai tremila chilometri all’ora, che tanto dovete tornare SUBITO al lavoro e manco ve la godete? Arrendetevi”
(Infatti ogni tanto i bar scrivono PRANZI VELOCI, come se fosse obbligatorio andare al bagno a lavarsi le mani di corsa. Alcuni bar un giorno vi noleggeranno anche la tuta e le scarpette)

Io e l’uomo che suona la batteria nei miei dischi, CESARE ANCESCHI detto CICO, che è un uomo che incarna i valori del surrealismo più o meno in ogni azione che compie durante il giorno, abbiamo avuto un’idea che non era male, ormai diversi anni fa.

Ci siamo vestiti di tutto punto, con un completo figo, abbiamo preso delle valigette “giuste” con dentro dei grafici e dei fogli che non volevano assolutamente dire nulla, abbiamo comprato “IL SOLE 24 ORE” e poi ci siamo recati in un ristorante a fare un “pranzo di lavoro”. Un sabato, che in genere il sabato la formula “pranzo di lavoro” non c’è, che anche questa è bella.

Abbiamo pranzato mostrandoci i rispettivi grafici sul nulla (io avevo anche stampato gli accessi a questo blog e le chiavi di ricerca, giusto per fare qualcosa), dopodiché abbiamo iniziato a progettare il futuro dell’iniziativa. Ci siamo detti che avremmo dovuto riprendere l’usanza ogni anno, ogni volta invitando una persona la quale l’anno successivo avrebbe dovuto invitarne un’altra e così via, in una costruzione piramidale che nei nostri sogni più rosei mirava, nel giro di quindici anni, ad aver bisogno di un hotel con centro congressi, dove noi due che eravamo i fondatori avremmo tenuto una relazione sul brillante successo di una iniziativa deliberatamente inutile che aveva come unica caratteristica base la totale stupidità da parte dei partecipanti.

Purtroppo non abbiamo mantenuto la promessa e dopo quella prima edizione, nella quale eravamo gli unici due partecipanti, abbiamo lasciato cadere la cosa pur ripromettendoci ogni volta che avremo dovuto ricominciare facendola diventare una consuetudine.

Nessuno, all’interno del ristorante, ci ha chiesto che lavoro facessimo. Nessuno ci ha chiesto la partita Iva. Ci siamo chiesti allora che pranzo di lavoro fosse, dal momento che veniva applicata la formula esclusivamente sulla fiducia. Tant’è che il mio commensale, in quel periodo, era disoccupato. Eppure alla cassa chiesero “Vuole la fattura o basta la ricevuta?” solo perché eravamo vestiti bene e avevamo dei fogli in mano per tutto il pranzo, che ci passavamo dicendo frasi a caso tra gli sguardi interessati dei tavoli a fianco, conquistati grazie alle espressioni serissime che avevamo mentre pianificavamo i nostri deliri Post-Marxisti (nel senso di Groucho).

Non so perché vi abbia raccontato questa cosa, forse solo perché a noi faceva ridere molto. Ma credo anche perché, se incominciamo a chiamare le cose con il loro nome, probabilmente sarà meno facile per i primi due imbecilli che passano, fingersi quello che non sono.

O forse cercavo solo adesioni :-)

 

No me moleste mosquito. Il mestiere di essere Ray Manzarek.

La prima volta che ho ascoltato i Doors è stata intorno al 1982/1983. C’erano dei video che giravano su “Mister Fantasy” di Carlo Massarini con questa musica allucinante e mio fratello portò in casa un disco dei Doors chiamato “Greatest Hits”. Io non lo sapevo che voleva dire “I grandi successi”, che avevo dieci anni e infatti mi stupivo che c’erano in tanti che avevano fatto un disco con quel titolo lì. Poi iniziai ad imparare l’inglese proprio con i Doors, ma di questo ho già scritto in un post molto vecchio e a quello vi rimando. In quel disco lì c’era una canzone che era la seconda del lato A del vinile e che si chiamava “Light my fire”. Partiva con una introduzione di tastiera e poi dopo una parte cantata partiva una roba lunghissima dove non cantava nessuno e questi suonavano come invasati. “Ma quanto cazzo dura? Ma non cantano più?” e poi ripartiva a cantare e il pezzo finiva. La cosa mi mandava nei matti, con il tempo avrei imparato che la cosa più bella del pezzo era proprio quella parte di mezzo. Poi da lì vennero i dischi ufficiali, che mio fratello comprava uno dopo l’altro. I Doors erano fighissimi e poi avevano canzoni LUNGHE. La mia preferita era e rimane ancora oggi senza dubbio “When the music’s over”. 11 minuti che mi mandarono fuori di testa. C’era tutto quello che potevo desiderare.

Ma non voglio parlare di quanto fossero fighi i Doors e di quanto fosse importante quella tastiera (io le tastiere le odio, ma Ray Manzarek e i Doors rappresentano l’eccezione) nell’economia del suono dei quattro. Non lo voglio fare perchè ritengo che i Doors fossero uno di quei rari casi dove se ne togli uno salta tutto o quasi. Non avrebbero avuto senso con un altro cantante, con un altro tastierista, con un altro chitarrista (No, dico… tutta la musica folk araba, indiana, zingara della chitarra di Krieger?) e con un altro batterista (Densmore era drammaturgia pura. Suonava la batteria spesso seguendo la voce di Morrison e sottolineandone la recitazione o il canto con momenti che ricordano quelli di un circo o di un cabaret. Non è una cosa così usuale. E funzionava).

Dicevo, voglio parlare del mestiere di essere Manzarek. Perchè essere Ray Manzarek è un mestiere a tempo pienissimo. Mi spiego meglio.

I Doors durarono dal 1967 al 1971, poi Morrison se ne andò e ci lasciò le penne subito. Il suo stile di vita rock’n’roll gli consegnò 27 anni di vita in un corpo che ne dimostrava 56 portati male. A quel punto i tre superstiti ci provarono. Fecero il colpaccio. Incisero un disco senza Morrison, cantando loro (Manzarek, spesso). Si chiamava “OTHER VOICES”, altre voci. Il disco fu un flop. Ne fecero pure un altro, si chiamava “FULL CIRCLE” e il cerchio si chiuse davvero qui. I Doors senza Morrison NON SE LI CAGAVA NESSUNO.

Infatti, se andate a vedere nella discografia dei Doors quei dischi lì non figurano neanche. In molti non sanno neanche che esistono.

Poi, visto che bisogna campare, decisero di tirare fuori dei vecchi nastri con il morto che recitava poesie e ci suonarono sopra. Funzionò, il pubblico se la bevve, trovò spazio anche una versione dell’Adagio di Albinoni schitarrata da Krieger su base recitante che ancora oggi grida vendetta.

Ma il vertice assoluto di questo scempio fu toccato in “Full Circle”. Lì c’era un brano chiamato “MOSQUITO” che era una filastrocca che diceva “No me moleste Mosquito, Leat me eat my Burrito, No moleste Mosquito, Why don’t you go home”. Andatevela a sentire su Youtube.
Roba che a confronto lo zecchino d’oro sembra Immanuel Kant.

Fatto? Bene. A questo punto per i Doors superstiti cominciava, grazie ad “An american prayer” e al culto del cantante scomparso, una fitta sequenza di impegni. I ragazzi ricominciavano a suonare dal vivo insieme, senza il cantante. Vennero arruolati cantanti occasionali più o meno noti e quando ad un certo punto diversi anni fa John Densmore decise che aveva fatto abbastanza soldi, venne preso addirittura un nuovo batterista. Senza pietà, più o meno come fanno gli Who (che si chiamano così perchè non sai più CHI suoni).
Il tutto condito da reincisioni di album, VHS che poi diventano DVD che poi escono di nuovo con qualche extra, un film incentrato soprattutto sulla vita dell’amico morto, poi altri documentari, poi interviste continue e il tutto SEMPRE A PARLARE DI QUEI 4 ANNI (scarsi) LI’, dal 1967 al 1971.

Perché appena snoccioli un aneddoto o suoni un accordo sono tutti lì in adorazione. Ma non appena accenni a qualcosa di altro che potresti aver fatto a nessuno frega niente di niente di niente. MAI.

Visto che molti che leggono questo blog sono persone che suonano, prego a lorsignori di provare ad immaginare la loro vita secondo l’applicazione del “Metodo Manzarek”.

Vi ricordate la roba che suonavate (a seconda dell’età che avete) 10, 15, 20 anni fa? Bene, ora immaginatevi che abbia avuto un successo notevole e immaginatevi costretti a suonarla SEMPRE. A parlarne sempre. A parlare di continuo del cantante (o bassista) del vostro gruppo di quanto avevate 18 anni (o 27, a seconda di quel che vi è capitato). Si, proprio di quel tizio che oggi non vedete più e che non sapete manco se ha famiglia, figli… Immaginatevi a parlarne tutti i giorni, tutti vi chiedono qualcosa a riguardo, sempre le stesse cose. E poi la musica. Sempre le stesse canzoni, sempre le stesse. Folle in delirio non appena accennate l’incipit di (mettete il titolo di un vostro pezzo che suonavate quindici anni fa, del quale non vi ricordate manco gli accordi). Visto che probabilmente suonate ancora, immaginate che tutto quello che avete fatto dopo sia TABULA RASA, tanto è vero che avete dovuto rinunciare a pubblicarlo e financo a suonarlo, se volevate campare.

Non è una vita così idilliaca, vero? Una timbratura di cartellino per svolgere sempre la stessa identica mansione. Una specie di “giorno della marmotta” in versione rock’n’roll. Anche perché lo dovrete fare fin quando campate. Sempre, sapendo che ogni canzone che vi andrà di scrivere non troverà mai spazio. Tutti vorranno sempre e solo sentire (e sentire parlare) di quei quattro anni lì. Quattro anni che per voi sono sempre più lontani, tanto che oggi manco ve li ricordate più così bene.

Immaginatevi poi che quando tirate le cuoia per un poco giri la voce che la vostra morte sia una bufala, che parta un mistero simile a quello dell’amico di cui sopra. Insomma, anche nel momento del trapasso vivere nell’ombra.

Ho letto su diversi socialcosi (copyright Marco Manicardi) di persone che, per tessere le lodi del Manzarek gli auguravano di “Ritrovarsi con Jim per suonare insieme (mettete il titolo di un pezzo dei Doors famosissimo).

Personalmente ho voluto troppo bene alla musica dei Doors e quindi a Manzarek per augurargli una punizione da girone dantesco come questa. Ray, se dovesse esistere l’aldilà, ti auguro di poter finalmente cominciare a suonare quel cazzo che ti pare. E se Jimbo dovesse proprio farsi vivo, ti auguro che ti chieda “No me moleste mosquito?” e poi ti dia l’attacco “Uno, dos, tres, quatros” e poi giù a ridere.

Turn off the lights.

Vi consiglio un libro per la festa della mamma.

Chiara Lalli è una donna che ha studiato e insegnato una disciplina chiamata LOGICA. Esiste proprio una disciplina scolastica chiamata LOGICA, come Matematica, Italiano, Francese, Stenografia, Estimo, Biologia e altre seimila cose che si insegnano (o si insegnavano) a scuola. Sembra una cosa da niente e invece non lo è, perché molte volte quando parliamo con un amico o in generale quando esprimiamo un’opinione su qualcosa e la motiviamo poi diciamo “E’ logico” e invece, se stessimo parlando con un insegnante di logica quest’ultimo ci farebbe capire come non lo è per niente.

Chiara Lalli qualche anno fa scrisse un libro chiamato “Buoni Genitori – Storie di mamme a papà gay”. Lo comprai e lo lessi. Mi ritrovai a ribaltare alcune mie convinzioni sull’argomento. A volte dovetti impegnarmi non poco per superare certi pregiudizi che onestamente manco credevo di avere, ma la spiegazione del perchè dovevo farlo era lì, nero su bianco, logica. E’ difficile combattere contro la logica, prima o poi ti arrendi oppure sei una persona ottusa e allora non c’è niente da fare.

Chiara Lalli ha scritto un altro libro, uscito di recente. Si chiama “A. – La verità, vi prego, sull’aborto”. L’ho comprato e l’ho letto. Io sono assolutamente a favore della possibilità di abortire per una donna, quindi mi pensavo che in questo caso mi sarei trovato a leggere un libro che non avrebbe scardinato nessuna delle mie convinzioni. Mi son detto, tra me e me, con quella faccia di chi si compiace e fa anche un poco il furbetto “Questo lo leggo che è una passeggiata, dai…”

Mi sbagliavo.

Non che io sia diventato uno di quelli che vanno alla marcia per la vita. Anzi, la mia convinzione che una donna debba poter scegliere tra abortire e affrontare una gravidanza si è rafforzata. Però si sono sgretolate alcune convinzioni che avevo sull’argomento e allo stesso tempo mi sono accorto di quanto fossi vittima di pregiudizi e luoghi comuni nell’affrontare la questione. Il tutto con la semplice arma della logica (e qualche statistica in soccorso, di tanto in tanto).

Ho dunque potuto notare come la maggioranza degli aborti non sia per donne alla prima gravidanza e quindi la mia convinzione (derivata principalmente dal cinema) che l’essere madre e abortire siano due concetti che faticano tanto a stare insieme è subito saltata. Credevo onestamente che la maggior parte degli aborti riguardassero ragazzine o donne giovani e comunque primìpare.

Ho capito che la scelta abortista o antiabortista non deve ammettere “l’eccezione dello stupro”. Per te l’embrione è come una vita umana? E allora anche se è frutto di uno stupro, non ripari allo stupro con un omicidio. Di uno che non c’entra niente. Se per te un embrione e un bambino di (N) anni sono la stessa cosa e poni l’eccezione dello stupro, allora perché punire una madre che magari lo uccide quando ha 3 anni? Sempre frutto di uno stupro era (Se poni l’eccezione dello stupro significa che sotto sotto per te un bambino ed un embrione sono due cose completamente diverse. Prima lo ammetti a te stesso, prima la pianti di fare casini sulla pelle delle persone).

Ho capito che il fatto di non parlare mai di aborto sia la più grande cazzata micidiale che si possa fare. Se, come viene sempre detto, l’aborto è un’esperienza traumatica, devastante, dolorosa… Perché non dovremmo parlarne, visto che la prima cosa che ti dicono quando hai un qualsiasi problema è di parlarne con qualcuno (Un amico, i genitori, uno psicologo, eccetera)?

Ho capito che l’aborto non è sempre un’esperienza traumatica. Dipende. Ci sono donne che lo affrontano come un trauma, altre che non si pentono neanche per un secondo e che non hanno nessun rimorso.

Ho capito che non tutte le donne vogliono diventare madri e questo non le rende assolutamente donne di serie B.

Buona festa della mamma. A tutti.

Back to Black, Back in Black, Black Block, insomma… Basta che sia nero.

Ieri, 4 Maggio 2013, c’è stata una memorabile edizione della Neil Young Convention. Ogni anno quel pazzo di Giampaolo Corradini organizza un raduno di fan di Neil Young e dintorni. Arrivano gruppi e persone da tutta Italia. Si fanno concerti al pomeriggio al Tabacchi Blues a Fontana di Rubiera e alla sera in un altro posto (negli ultimi tre anni al “Batard” di San Prospero). Quest’anno con mia moglie abbiamo portato il nostro banchetto per il Canile di Arceto, dove vendiamo vinili, Cd, libri, vestiti ecc…

C’è della bella roba. Molte persone comprano e tornano. E’ andata molto bene. Ma non volevo parlare di questo.

Ad un certo punto, ieri pomeriggio arriva un ragazzino di 8 anni, con una stampella si avvicina e con una decisione che non avevo mai visto in un ragazzino del genere chiede “Cos’hai di FUNKY?”.

Io do un’occhiata al banco dei CD e non è che abbia tantissimo, però trovo “I just can’t help myself” di Terry Callier a 3 euri e gli dico “Cavoli, questo è tosto.” Lui guarda, lo mette da parte. “E POI?” chiede, sempre con quel tono che nei telefilm di Starsky e Hutch hanno gli spacciatori portoricani.

E poi non mi ricordo, che ero un attimo stupefatto dalla situazione, ma qualcos’altro l’ho trovato, sempre a 3 euri. Poi guardando in giro vedo “PLAY” di Moby e gli dico “Anche questo potrebbe piacerti” e sono ancora intontito dal fatto che sto parlando con un bambino di 8 anni. Lui prende il disco di Moby, lo gira e poi dice “Nooo… è bianco, non mi interessa”.

Si volta verso sua madre e dice “Mamma, due cd di funky a 6 euro. E’ un buon investimento”. La mamma tira fuori i soldi e lui, tutto contento, si mette in saccoccia i due cd.

Son basito. Il prossimo anno mi porto un dischetto minore di Fela Kuti e glielo regalo, quasi quasi.

 

 

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Dispiaceri

Mi dispiace molto per Jannacci. L’unica cosa positiva è che si ritroveranno i suoi album originali invece che raccolte recenti risuonate con arrangiamenti decisamente discutibili. Il corpo muore, lo spirito si rinnova e dopo tanti anni passati a ritenerle speculazioni, oggi penso invece che sia comunque una buona occasione. Se l’opera di un uomo è valida, ogni occasione è buona per glorificarla. Anche la morte.

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