E’ sempre molto interessante osservare le reazioni che abbiamo di fronte alla morte, in qualsiasi salsa ci venga presentata. L’ultimo esempio che mi ha incuriosito è stato in questi giorni con la morte di Simoncelli. Non sono un amante del motociclismo, dei motori in genere. Ho una teoria fanta-politico-cospiratoria per le gare di formula uno. Ritengo che vengano tenute negli ospedali per essere usate come anestesia, quando ci si trovi a dover operare d’urgenza in caso non si abbiano medicinali adatti alla bisogna. Idem per il motociclismo, che trovo appena meno noioso. Aggiungete che non ho più la televisione da 3 anni e capirete che non conoscevo il malcapitato. Ritengo che facendo quel mestiere lì sia una cosa, quella di morire sul lavoro, che si metta anche un poco in conto. Ma non è questo il punto.
Il punto è che ci sono un paio di cose che non mi piacciono, in questo circo della morte.
La prima è il fatto che ormai basti essere celebri e si ha un funerale in diretta televisiva. Una volta questo accadeva per i presidenti, i dignitari e i reggenti. Oggi basta essere “qualcuno” che voilà… alla tua dipartita scatta la squadra esterna 3 di (riempite voi lo spazio) a filmare le immagini. Il funerale è ormai diventato un genere televisivo a parte, a fianco dei varietà, degli eventi sportivi, dei talk show e dei “reality” (ai quali probabilmente è appartenuto per un breve periodo prima di affermarsi come genere a sé). Capita di vedere persone che salutano la telecamera quando passa, striscioni e applausi (a questi ultimi due ci siamo abituati, agli stronzi che salutano con la manina e sorridono ci vorranno ancora una decina di decessi, a occhio e croce).
La seconda cosa che stona è lo stupore per il dolore collettivo. In genere questo stupore dal sapore vagamente acidulo si manifesta soppesando i morti legati ad un altro avvenimento. In questi giorni l’occasione d’oro (si fa per dire) è stata rappresentata dalla catastrofe in Lunigiana e zone limitrofe. Via dunque alle osservazioni in base alle quali ci si dovrebbe dolere maggiormente per i 16 morti dell’alluvione rispetto al campioncino che a quell’età era milionario e quindi comunque se l’è goduta (questo il messaggio implicito, espresso più o meno velatamente). Questo soppesare i morti è un giochino nel quale caschiamo un poco tutti, a seconda di quanto ci sta antipatico il “morto ricco e famoso” (chiedo scusa, si fa per capirsi) o il suo contesto.
Ebbene, proprio perché capita a tutti noi di averlo farlo, sarebbe ora che cominciassimo a dirci che mettere sulla bilancia qualche cadavere per vedere quanto debbano pesare i sentimenti altrui è, oltre che un gesto maledettamente volgare, anche un gesto piuttosto ignorante e inutile.
Inutile perché il giochino si potrebbe ripetere allargando sempre più le proporzioni, in genere finendo per “tutti quei milioni di bambini che muoiono di fame” (vi consiglio un “e allora gli adulti che muoiono di fame? Mica muoiono soltanto i bambini” per stupire il vostro interlocutore e vincere così la gara della pietà a parole).
Volgare per due motivi. In primis perché si sente un poco la puzza del voler farsi belli e intelligenti sulla pelle di qualcuno. In secondo luogo perché si pretende di imporre agli altri i propri sentimenti e la propria scala di valori. E’ morto il vostro cane? Non potete piangere, a meno che non abbiate pianto molto quando è morto un vostro amico. E ricordatevi che dovete piangere di più per un parente, anche se è uno zio di terzo grado che non avete mai visto, perché è comunque un parente. (Mio padre non ha pianto una lacrima alla morte dei suoi genitori e sei mesi fa ha seppellito il gatto piangendo come una fontana. Io non ho pianto una lacrima per i miei nonni, ma sembrava che avessi un temporale negli occhi quando è morto il mio cane. Mi sento in colpa? Francamente no. Mio padre nemmeno, credo. Mio nonno capirebbe, credo.)
E qui viene la stupidità. Nel senso che i nostri sentimenti di fronte alla morte sono, appunto, SENTIMENTI. Per natura sono soggettivi e spesso, istintivamente, vanno a toccare corde che nemmeno noi conosciamo con esattezza. Proprio di fronte al dolore scopriamo qualcosa di noi che non conoscevamo, se ci dice bene.
Insomma, l’amore, il dolore, la perdita, l’abbandono… sono cose davanti alle quali ritengo giusto e consigliato sentirsi egoisti. E davanti alla manifestazione altrui di un sentimento così, la reazione più composta sarebbe, in caso non si senta autentica solidarietà, il silenzio. Silenzio inteso come sottrazione al circo della morte, al genere di spettacolo che l’abbiamo fatta diventare.
Vi ricordate quando ci fu la strage in Norvegia, quest’estate? Chi si ricorda il nome dell’isola? Ma come, non eravate così sconvolti da non dimenticarvelo più? Non avevamo messo tutti una bella bandierina norvegese (qualcuno dell’Islanda o della Svezia, cacchio… le fanno tutte uguali) sul nostro profilo Facebook, pronti ad indignarci per quanto accaduto? Qualche giorno dopo morì Amy Winehouse e alcuni cambiarono la bandierina norvegese con la faccina della cantante. Alcuni qualche secondo dopo se ne sono pentiti e sono tornati alla bandiera… Mi immagino la difficile decisione: “Mi dispiace di più per lei oppure per i Norvegesi? Cavolo, i norvegesi erano 93…Però mica avevano scritto un pezzo come “Rehab” quelli…”
Davanti alla morte fidatevi di chi non teme di mostrarsi egoista. I più altruisti, generosi, intelligenti… teneteli alla larga. Altrimenti potrebbe capitarvi di sentire cose come questa (sentita con le mie orecchie) “Hai visto il funerale di Pavarotti?” “Si. Ti dirò, bello, eh… ma mi è piaciuto più quello del Papa”