Se non è stato il migliore, c’è mancato poco.
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Un bicchiere.
Sono morte centinaia di persone nell’affondamento di un barcone. Ci siamo indignati. Abbiamo fatto il lutto nazionale. Abbiamo litigato perché c’era chi diceva che non bisognava farlo, che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. Poi ne sono morte altre decine per un barcone, nove giorni dopo. Ci siamo indignati meno, non abbiamo fatto il lutto nazionale, abbiamo anche litigato meno con quelli che dicevano che bisogna buttarli fuori e tutte quelle robe lì. A dire il vero non ne abbiano nemmeno parlato, qualcuno ci ha provato ma poi ha pensato che non erano trecento ma solo una trentina oppure siamo rimasti in silenzio pensando “Ma che palle, adesso però. Mica posso sempre incarognirmi”.
A volte mi chiedo quale sia la nostra soglia, nella percezione delle cose.
Sembra un bicchiere da riempire al contrario.
All’inizio, sull’orlo, sta la tacca dello sgomento, dell’indignazione, della protesta. Ad un certo punto, che non so misurare, sta la tacca della normalità, dell’abitudine. Un pelo sotto sta la tacca dell’ineluttabilità, della rassegnazione. Sul fondo arriva il bicchiere colmo, la normalità.
Poi ci sono le fontanelle, dove l’acqua scorre sempre. Il bicchiere è sempre pieno, quindi. A quel punto ecco la “tradizione”, questa parola che oramai è diventata un falso amico, uno di quelli che (per dirla con “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese) ti ammazzano con il sorriso sulle labbra.
Poi un giorno arriva uno, gira il bicchiere e se lo beve in un attimo. E ci lamentiamo che manca l’acqua.
Lo abbiamo seppellito giovedì
“Mi sono stancato di avere paura in continuazione”.
Sono le parole di Brooks, un personaggio del film “Le ali della libertà”, prima di suicidarsi. Sono parole che spiegano bene la condanna che ci si porta in spalla ad avere paura di qualcosa che gli altri considerano normale. Ci si sente tanto male che alla lunga il logoramento può portarti ad impazzire.
Io avevo paura dei cani. Se in una stanza c’era un cane, io uscivo. Se ero in un parco e un cane gironzolava libero nel raggio di cinquanta metri, io non lo perdevo di vista nemmeno un secondo. Quando da piccolo si trattava di scegliere a casa di che amici andare a giocare, io andavo da quelli che non avevano un cane.
Mia madre ha avuto anche un paio di cagnolini, che non mi facevano paura ma dai quali stavo comunque bene a distanza. Ho avuto una ragazza che adorava i cani, ma quando i suoi due (che vivevano nell’officina del padre) me li trovavo intorno, restavo teso tutto il tempo. Paura.
Quando ho incontrato Poldo, tre giorni dopo aver conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, mi ha ringhiato e abbaiato contro. Cattivo, proprio. Voleva farmi paura. Ci riuscì benissimo.
Oggi che esistono foto mie dove metto la testa in faccia ad un alano brandenburghese, che quando vedo un cane in genere vado subito a fargli le coccole, che quando sono in un posto pubblico ed entra un cane enorme mi viene da sorridere e da corrergli incontro, non riesco nemmeno a dare la giusta importanza ad ogni momento che ho vissuto insieme a Poldo, nonostante i ricordi siano talmente tanti che mi viene da piangere solo a pensarci.
Poldo mi ha insegnato come fare a non avere paura. Per quel che mi riguarda, non esiste dono più grande.
Siamo qui perché lo vogliamo noi – La sindrome di Smaila.
“E’ tutto un attimo”. Si chiamava così. Era una canzone di Anna Oxa in non so quale edizione di Sanremo. Ricordo che pensai che di quell’edizione lì era una delle poche canzoni che si salvava e anche oggi, al netto di qualche suono di tastiera anni ottanta che risveglia il Torquemada che è in me, la ritengo una bella canzone. Ricordo che lessi il nome di Umberto Smaila tra gli autori. Umberto Smaila per me era uno dei “Gatti di Vicolo Miracoli”, che facevano del cabaret veramente avanguardistico e da piccolo mi piacevano un sacco. Jerry Calà era diventato un poco la star del quartetto (gli altri erano Smaila, Franco Oppini che poi sposò Alba Parietti, Nini Salerno che era quello che faceva ridere soltanto a guardarlo in faccia) ed era uscito dal gruppo per tentare la carriera solista. Il gruppo poi si sfaldò a metà degli anni ottanta e Smaila era uno che oltre a condurre programmi, fare il comico eccetera, scriveva anche canzoni. Ricordo che ci rimasi stranito quando lessi il suo nome su una canzone così, ma tant’è.
Smaila, tra i quattro gatti di Vicolo Miracoli, fu poi quello che ebbe la carriera solista più strana. Di lì a poco infatti venne chiamato su “Italia 7”, un canale diciamo così “minore”, a condurre un programma che fu una vera e propria rivoluzione. Si chiamava “Colpo Grosso” e per spiegarlo a quei tre che non lo sanno diciamo che con quel programma comparvero le tette in tv. Si trattava di un quiz dove i concorrenti si spogliavano quando perdevano una manche, dove c’erano delle vallette che si spogliavano e facevano vedere le tette ad ogni occasione buona, del tipo che se bisognava fare testa o croce si prendeva una valletta, le si metteva su un capezzolo “testa” o “croce” e poi, una volta scelte le facce della moneta, si tirava via il reggiseno e vedevi chi aveva vinto. Una cosa molto antifemminista, insomma.
Certo oggi che c’è internet e chiunque può sfondarsi di seghe con le cose più zozze dell’universo che basta un clic, una cosa come “Colpo grosso” può fare sorridere, esattamente come quando i miei nonni mi parlavano delle foto dell’enciclopedia con gli indigeni dell’Africa che giravano nudi. Però vi assicuro che all’epoca fu una cosa che fece epoca, scusate la ripetizione.
Per darvi un’idea, le vallette del programma, che erano uno stuolo di belle gnocche assortite, si chiamavano “Ragazze Portafortuna” e poi in seguito vennero ribattezzate “Ragazze cin cin”. Forse l’ordine del battesimo fu l’inverso, ora non ricordo, in ogni caso le ragazze suddette cantavano una canzoncina con la quale entravano in scena e alla fine della canzoncina, tutte insieme facevano vedere le tette tutte insieme e il regista ne beccava una ogni volta diversa per il primo piano di rito. Il momento era talmente atteso che ci sono migliaia di maschi italiani tra i 35 e i 55 che oggi, a vent’anni di distanza, vi sanno cantare a memoria (o quasi) gemme sonore come “Po po portafortunaaaa” oppure tutto il testo di “Cin cin cin cin, assaggia e poi mi dici…”.
Non so come fu, forse che a fare la maitresse il buon Umbertone Smaila si sentisse intellettualmente inferiore oppure per una bieca ragione di diritti d’autore, fatto sta che non si sa bene come ad un certo punto spuntarono anche, di tanto in tanto, dei momenti musicali veri e propri. Smaila si metteva al piano e, rigorosamente in playback con la base, suonava una canzone mentre attorno al piano si radunavano le signorine che ammiccavano alla telecamera. Una sera, ricordo perfettamente, Umberto Smaila ci concesse una versione di “E’ tutto un attimo”, la sua canzone cantata da Anna Oxa a Sanremo. La cantò in lingua inglese e nel ritornello, dove la Oxa cantava “Voi, solo voi” l’Umberto invece cantava “Goodbye, Yesterday”. on chiedetemi perché, ma mi sembra un particolare rilevante.
Ora, la cosa potrà pure farvi ridere, ma io che mi trovavo davanti allo schermo in quel momento provai una compassione solidale della quale non mi credevo capace.
Si vedeva quest’uomo in sovrappeso, infilato in una giacca brutta come solo le giacche di quegli anni sanno essere, che urlava tutta la sua disperazione in un microfono spento sopra ad una base con suoni sintetici terrificanti, attorniato da una decina di ragazze che ammiccavano alle telecamere sorridendo nella maniera più finta che possiate immaginare. E dietro quelle telecamere, nelle case, migliaia di maschi che con i pantaloni semiabbassati e il volume bassissimo si stavano soltanto chiedendo “Ma quando cazzo finisci di cantare, ciccione di merda?”.
Un uomo solo, circondato da un mondo che non lo potrà mai capire. Gliela leggevi in faccia la tristezza, a Smaila. Gli leggevi in faccia il fatto di capire di non poter farci nulla ma di dovere comunque andare avanti, se non altro per onor di firma. Per combattere fino in fondo e poter dire “Io ce l’ho messa tutta”. Lo vedevi cantare ad occhi chiusi, per cercare di estraniarsi da quel contesto grottesco che stonava più di un semitono eccedente. E in quell’attimo in cui poi tornava alla conduzione dopo l’applauso finto che in realtà era registrato e mandato dal regista alzando un cursore, gli leggevi tutto il peso della sconfitta e del mestiere che si era scelto lui, tutto sommato. Anche oggi, che Smaila ha una catena di locali dove fa il piacione e dove non mi augurerei di entrare nemmeno se costretto, ricordo essenzialmente quell’attimo lì, quella sua espressione del viso. “E’ tutto un attimo”, appunto.
Fu una scena tristissima, una di quelle che ti si piantano nella memoria anche se non vorresti, ché vorresti che la tua memoria e la tua scala di valori passasse per Verga, Flaubert, Tolstoj, i Velvet Underground e Igor Stravinskji e invece ti tocca avere come chiodo fisso Umberto Smaila e il “Raddoppio Panto” (qualcuno sa di cosa sto parlando, scusate il linguaggio da iniziati).
Oggi, quando (per fortuna sempre più raramente, l’ultima volta che mi sono sentito così è stato il 19 Aprile di quest’anno al Red Mosquito di Mazzalasino, vicino casa mia. La penultima manco lo ricordo, per fortuna) mi capita di andare a suonare in un posto e di dannarmi l’anima per un’ora e mezza nell’indifferenza generale davanti ad un pubblico che è venuto lì per farsi i sacrosanti cazzi propri, mi sento come Umberto Smaila quella sera lì. E quando, dopo aver cantato con gli occhi chiusi, li riapro a fine pezzo, a volte mi stupisco di non vederli tutti con il telecomando di fianco e i pantaloni giù, ma la cosa non mi consola per niente.
Cinque.
Era un lunedì. Non avevamo detto niente a nessuno o quasi. Io mi sono alzato e sono andato in pigiama dal fioraio, a piedi. Ho attraversato il centro di Rubiera a piedi in pigiama con un bouquet in mano, mentre tutti quelli che andavano a scuola e a lavorare mi guardavano come si guarda un alieno. Ho anche incontrato la Mara, che qui a Rubiera è Mara Lucchetta, all’epoca “quella della videoteca” che mi ha visto con il pigiama e il bouquet e mi ha detto “Ma vi sposate?”.
Poi son tornato a casa e mi sono fatto la barba, mentre lei in negozio tagliava i capelli a sua madre, che li tagliava alla sua socia, che li tagliava a lei, in un giro da catena di montaggio iperveloce. Ricordo che mentre mi facevo la barba ho ascoltato “CASA” di Roger Dean Young, un cantautore sfigatissimo che poi gli ho anche mandato un messaggio su myspace dove gli raccontavo questa cosa qui che sto scrivendo adesso e lui mi ha detto che lo avrebbe conservato per sempre.
Poi mi sono vestito, mettendomi il vestito che avevo la sera che ci siamo conosciuti perché avevo detto che avrei fatto così. Lei invece aveva un vestito che non era il tipico abito nuziale, che lo siamo andati a comprare insieme e ricordo ancora le facce delle commesse che “Ma come? Ma lo sposo non deve vedere la sposa e blah blah blah”
Poi sono arrivati i miei e i suoi, i testimoni più la socia di mia moglie e il suo ragazzo e un’amica di mia moglie che dice lei che anche se non erano sorelle era come se lo fossero e quindi non potevano mancare, anche se subito avevamo detto che facevamo solo i genitori, fratelli, sorelle e relativi compagni. Per me andava benissimo, che comunque son persone simpatiche e quindi che problema c’è?
A me lei chiese se non volevo proprio che neanche un mio amico venisse. Io risposi che no, non volevo nessuno a parte il mio testimone (e relativo compagno), così non facevo torto a nessuno e poi per me andava bene, i miei amici avrebbero capito. Se qualcuno non capiva allora era un amico da poco, di quelli che non avrei voluto al mio matrimonio. Infatti nessuno mi ha mai detto qualcosa per non averlo chiamato, che è poi anche normale.
Siamo partiti verso Scandiano, ci siamo fermati un secondo a suonare a casa di una signora che io non so manco chi sia, ma mia moglie le aveva detto “Quando mi vado a sposare ti vengo a suonare a casa” e abbiamo riso molto.
Poi in comune abbiamo aspettato un poco. Siamo andati a Scandiano, perché di lunedì a Scandiano c’è il mercato e così mentre tornavamo alla macchina se avevamo voglia potevamo fermarci a guardare un poco le bancarelle, che a mia moglie piace.
Mentre aspettavamo è passato un mio collega che aveva anche lui preso un giorno di ferie come me. Mi ha visto vestito elegante davanti al comune ed è venuto lì convinto di fare una battuta, dicendomi “Ue, ti sposi?” e rideva. Ci è rimasto di sasso quando gli ho detto “SI”. Gliel’ho dovuto ripetere tre o quattro volte, non ci credeva.
Poi siamo andati dentro tutti e 18 (eravamo in 18, forse in 16, ora non ricordo esattamente, ci dovrei pensare, comprese le bambine di mio fratello), abbiamo cambiato sala mettendoci in una più grande così stavamo più comodi. Abbiamo fatto la formuletta di rito ed eravamo marito e moglie.
Ci siamo fermati nel primo bar che abbiamo trovato e abbiamo fatto l’aperitivo tutti insieme. Poi siamo andati al CAVERN, che non è quello di Liverpool, ma (era) una birreria a Mazzalasino gestita da due amici, che avevano aperto apposta per noi con i loro genitori che avevano provveduto a fare un menu che comprendeva un antipasto, due primi e poi gnocco e tigelle fino allo sfinimento. Al nostro matrimonio volevamo birra buona, sapete com’è.
Quando siamo tornati a casa abbiamo dato ai cani un pezzetto della torta nuziale, che era una Saint Honoré perché io avevo detto che “per me la torta del matrimonio è la Saint-Honoré, poi se vuoi cambiamo ma per me io sceglierei quella”.
Alla fine della giornata, che eravamo tornati a casa, ci siamo guardati un film preso in videoteca, che la Mara ha detto “Oggi offro io” ed è stato il suo regalo di nozze, che sembra poco e invece a noi ci è piaciuto un sacco, anche se oggi non ricordo che film abbiamo visto.
Il momento che ricordo con più personale soddisfazione è stato quando mio nonno, che all’epoca aveva novant’anni e ora non c’è più, che in vita sua ne ha viste di tutti i colori, che ha disertato dalla seconda guerra mondiale tornando a casa a piedi da Verona nascosto rischiando di venire fucilato un paio di volte, mi ha guardato e ha detto “E così questa è una birreria. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non ne avevo mai vista una. Bella però.”
E poi ha detto “Grazie Giancarlo, prima di morire mi hai fatto vedere una cosa nuova. Non si finisce mica mai, eh?” e ha riso, mentre “a me mi rideva anche il buco del culo”, come diciamo noi in Emilia quando vogliamo dire “Ero al settimo cielo dalla soddisfazione”.
Il giorno dopo eravamo a lavorare.
Quel giorno lì io me lo ricordo come davvero il più bello della mia vita o quasi, visto che un’affermazione del genere dovrebbe richiedere ore e ore a pensarci bene. Però mi ricordo che fu tutto perfetto. O meglio, non fu per niente perfetto, fu semplicemente tutto COME VOLEVAMO NOI.
Perché quando vedo che ai matrimoni ci sono gli sposi che stanno due ore in pose fintissime che sembrano uscite da un catalogo e arrivano tardissimo perché “DEVONO andare a far le foto” e poi lo sposo arriva e agli amici, sussurrando dice “che due maroni, le foto” e ride… Quando vedo che ci sono quelli che le foto le vanno a fare il giorno prima in uno scenario diverso da quello del matrimonio perché “Le foto del matrimonio DEVONO essere fatte a Venezia” (o a Capri, o quelle robe lì), quando vedo che gli sposi devono stare un’ora a togliere dei soldi facendo una fatica della madonna perché “DEVONO fare gli scherzi” (Gli scherzi ai matrimoni sono un capitolo a parte, personalmente passati i 25 anni ci vorrebbe una legge che ti sbattono dentro per direttissima senza neanche il processo), quando vedo che gli sposi DEVONO camminare in un certo modo, vestirsi mettendosi una cosa rossa, una blu, una verde, una nuova, una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù…
Perché poi mi capita di raccontare com’è stato il mio, di matrimonio. A quel punto vedo spesso le facce che partono con espressioni incredule ma incredibilmente felici, come se avessimo fatto una cosa coraggiosissima visto che la frase più ricorrente poi è “Mi piacerebbe, ma noi NON POSSIAMO fare una cosa del genere”.
Beh, quel giorno lì per noi le parole “Non possiamo” e la parola “Dovere” non esistevano (articoli del codice civile a parte).
Sono passati cinque anni oggi e se ci penso mi si stampa ancora un sorriso ebete sulla faccia.
Grazie di aver detto sì, Cri.
Faccia blu, una pozza di vomito, legato alla barella.
L’ho amato alla follia. Roba che ad un certo punto compravo tutti i dischi buttati fuori da Alan Douglas e compagnia bella, quelli dove registravano anche i cazzeggi e lui che parlava e interrompeva a metà le canzoni per spiegare a Mitch Mitchell come doveva suonare la batteria. Ho comprato 6 o 7 libri sulla sua vita e regolarmente li prestavo e non mi tornavano più indietro, ma non era un problema. Li prestavo perché pensavo che fosse giusto che qualcun altro potesse condividere questa passione incredibile. Nel 1990, il 18 settembre, l’allora alternativa alla Mtv americana presente in Italia, che era Videomusic, fece addirittura un “Jimi Hendrix Day” dove si parlò di “24 ore dedicate a Jimi Hendrix” e che partiva alle 9 di mattina. Il giorno dopo sarei tornato a scuola e mi ricordo che mi svegliai per guardarmelo TUTTO. Poi si capì ben presto che era una boutade, quando alle 9 cominciò un video di “All along the watchtower” registrata dal vivo e poi si susseguirono video di altre band che non c’entravano assolutamente nulla, con il commento di Wolfango Tedeschi che dopo 25 minuti introduceva “Bella signora” di Gianni Morandi provando a legarla a Hendrix per il fatto che il video cominciava con l’immagine di uno che suonava una chitarra.
L’ho amato alla follia, tanto che ascoltavo i suoi dischi decine e decine di volte e ogni volta che ho poi sentito le chitarre sferragliare e giocare con il feedback mi è sempre parso che più che tutti i Sonic Youth potessero stare più o meno nella sezione centrale della versione di “Foxy Lady” all’Isola di Wight.
Non ho mai sopportato una cosa, anche se per qualche momento anche io avevo anche io messo quel disco incantato lì. Il fatto che, anno dopo anno, si dicesse sempre “Chissà cosa avrebbe fatto oggi, se fosse ancora vivo” con toni da “Chissà cosa ci siamo persi”. Un discorso che personalmente trovo potesse essere valido nel 1975, ma dai 90 fin qui mi suona veramente patetico. Credo che se fosse sopravvissuto Hendrix avrebbe suonato, suonato e risuonato ancora, magari non avrebbe manco più registrato. Non credo comunque che avrebbe innovato la musica (o meglio, IL SUONO, che è faccenda completamente diversa) nella maniera in cui lo ha fatto in quei 3 anni nei quali è comparso sulla terra come “un filo elettrico attraversato da troppa corrente” (Non ricordo chi la disse, è la definizione perfetta per Hendrix).
Probabilmente ce lo ritroveremmo bollito a suonare dei vecchi blues per sbarcare il lunario, costretto a tournée nei bar di quint’ordine dove gli chiederebbero ancora di suonare con i denti a 71 anni, tanti ne avrebbe oggi che è il 43esimo anniversario della morte.
Lasciatelo stare, Hendrix. Lasciatelo là, legato alla barella soffocato dal suo vomito con un aspetto terribile, in fotografie che mostrano un ventisettenne che dimostra almeno 15 anni di più. Lasciatelo stare e lasciate stare le dietrologie, le frasi di circostanza di Carlo Verdone che tutti gli anni viene interpellato non si sa in base a cosa, la storia di Red Ronnie che si è ipotecato la casa per comprarsi la Stratocaster bianca di Woodstock.
Lasciate tutto là e godetevi la musica. E’ vecchia e si sente, oggi. Ma suona ancora da paura.
Alessandro Arianti. Uno di quelli giusti.
Il nome non vi dirà nulla, probabilmente.
Questa sera l’ho visto mettersi in fila allo stand “Tigelleria LA KUNZA” della Festa Democratica di Modena poco dietro di noi e comprarsi una piadina e una coca cola, che poi si è bevuto prima di andare a fare il suo lavoro.
Alessandro Arianti è un ragazzo giovane che suona il pianoforte e le tastiere. Suona con Francesco De Gregori.
Quando l’ho visto in fila con tutti gli altri, che si pagava la sua piadina e la sua coca senza andare a chiedere o a dire nulla, mi è venuto da pensare a tutti quei gruppi che imbucano dodici persone cercando di scroccare cene quando vanno a suonare, che vedono chi li chiama a suonare come un nemico, che pensano soltanto a tirare sul prezzo e che poi quando alla 450esima birra che bevono, dopo aver suonato svogliati perché magari il pubblico “non è adatto alla nostra musica” e poi scrivono e sottoscrivono catene sui socialcosi scrivendo “Caro gestore di locale…” come se fosse un diritto divino per loro occupare un palco.
Questi qui continuano a suonare in buchi sempre più di merda (perché una volta che vengono chiamati non li richiamano, fateci caso quando guardate le date del vivo delle band, perché è un buon metodo per capire chi sa fare il suo mestiere).
Il Signor Arianti invece si paga una piada e una cosa, ma quando attacca “La donna cannone” o “La storia” ci sono migliaia di persone alle quali esplode il cuore ad ogni tocco sulla tastiera.
Gli altri sono buoni solo sulla tastiera del computer di casa, perché dal vivo non suonano mai.
Chiedetevi il perché, ogni tanto.
Canta che ti passa (e che te lo passo)
In un vecchio articolo di non mi ricordo che giornale, Brian Eno diceva una cosa secondo me giustissima. Brian Eno, per chi non lo sapesse, è uno che ha suonato con i Roxy Music, che ha prodotto i dischi migliori di gente come David Bowie, U2, Talking Heads e chi più ne ha più ne metta. Non è il primo coglione su questa terra, insomma, quando si parla di musica. E proprio di quello parlava il buon Eno. Anzi, di CANTO. Dell’importanza del canto.
Non era una colta digressione sulla qualità del canto di chicchessia, non era nemmeno un saggio sul canto di non so quale popolazione che veniva ripreso da chissà quale artista. Il succo dell’articolo era che cantare fa sentire meglio. Eno diceva che con i suoi vicini di casa aveva fatto un gruppo di canto. Si trovavano ogni (mettete voi il giorno) in casa di qualcuno. Ognuno portava qualche vettovaglia e poi, tutti insieme, cantavano. Il patto era che si sarebbe cantato a cappella, senza l’ausilio di nessuno strumento. E soprattutto che non si sarebbe registrato nulla. Ciò che veniva cantato rimaneva in quel momento in quella stanza e poi l’aria che le corde vocali dei presenti avevano fatto vibrare si sarebbe mescolata al resto dell’universo disperdendosi. Non c’erano secondi fini, si cantava e basta. Non importava nemmeno essere particolarmente intonati. Diceva che la cosa era profondamente divertente e che tutti, dopo la sessione, si sentivano molto meglio.
Ci credo. Cantare è bellissimo.
E’ liberatorio come poche cose al mondo. E possiamo farlo ovunque. Sul lavoro, sotto la doccia, in un centro commerciale. Se cominciamo a cantare tra gli scaffali del supermercato (io lo faccio spessissimo, magari andando dietro alla canzone che passa in filodiffusione) ci sarà sicuramente qualcuno che ci guarderà un poco male (accade spessissimo anche questo), ma se ci pensate bene quasi subito distoglierà l’attenzione da noi e tornerà ad occuparsi dei fagiolini in scatola scontati prendi 3 paghi 2. In fondo tante volte in un luogo pubblico sentiamo qualcuno canticchiare e suvvia, pensateci: difficilmente la cosa ci mette di cattivo umore.
Insomma, cantare rende il mondo un posto migliore.
Ricevere telefonate invece ci dà quasi sempre fastidio. Il telefono piomba con il suo suono sgraziato e taglia il silenzio come un coltello taglia una fetta di pane. Anche se abbiamo provato ad addolcirne il suono (inserendo motivetti o canzoni vere e proprie, a dimostrazione del paragrafo precedente) il ricevere una telefonata comporta sempre un piccolo (a volte infinitesimale) carico di ansia.
Le telefonate ricevute si sono moltiplicate con l’avvento della telefonia mobile. Una cosa alla quale ci siamo abituati e oggi abbiamo, non a caso, qualche piccola ansia compulsiva da ricevimento messaggi, da controllo di e-mail e cose così.
La cosa che è più fastidiosa però sono le telefonate promozionali. Quelle che ti arrivano da gente che non conosci e che non conoscerai mai che ti “offre” qualcosa che tu non hai chiesto e si permettono pure di insistere. Generalmente ti arrivano nei momenti in cui vorresti essere lasciato in pace. La pausa pranzo, spesso. Non hai tutto questo tempo e questi “DRIIIINNN” e poi “Pronto volevamo chiederle se il canone del….” e a quel punto tu ti metti lì e non vuoi essere scortese perché di là c’è uno con uno stipendio da fame che fa un lavoro di merda, perché rompere i coglioni alle persone per mestiere è veramente brutto (anche se farseli rompere a gratis è ancora più fastidioso).
Insomma, vuoi mandarli a quel paese, ma non vuoi essere brusco e scortese. Come fare? Personalmente ho “brevettato” un metodo che consiglio sempre a tutti e che oggi vorrei suggerire tramite questo sito. L’idea è molto semplice: CANTATE!!!
Se voi cominciate a cantare questi non avranno nemmeno il tempo di parlare, magari canteranno un poco con voi ma poi la smetteranno perché stanno lavorando e devono lavorare seriamente, altrimenti qualche loro superiore li prenderà per pazzi.
Non riusciranno a chiedervi nulla. Non c’è niente di più fastidioso di uno che canta mentre tu vuoi spiegargli qualche cosa, quindi dopo poco metteranno giù.
Difficilmente vi richiameranno e comunque diminuirà la frequenza (almeno con me è così). Infatti se tu chiami uno e questo canta sempre automaticamente pensi che quel tale deve essere picchiato nel cervello, il che comporta che non lo cerchi per fare affari. Nessuno vuole fare affari con un matto, visto che poi magari ti arriva un certificato.
Non dovete cantare per forza una canzone intera, potete anche fare dei piccoli pezzetti di ogni canzone che vi viene in mente. Non è necessario che siate intonati. Anzi, il contrario potrebbe far desistere prima il vostro interlocutore. Solo una cosa è importante: NON FERMARSI MAI, continuare a cantare. SEMPRE. Poi magari mettete giù di nuovo voi, se proprio loro non mettono giù, ma molto raramente succede.
A fine telefonata scoprirete di sentirvi meglio. Cantare fa sentire meglio. Funziona, davvero. Io in genere comincio con “Mi han detto che ti piacciono i ragazzi col ciuffo” e quasi sempre dopo una trentina di secondi canto pure “Chimera” di Gianni Morandi. In genere cose molto liriche, dove ci si sfoga per benino. In ogni caso, fate voi.
Vedrete, avrete una fila di rompicoglioni in meno nelle orecchie e voi vi sentirete molto ma molto meglio.
Parola di Brian Eno.
Poi dicono le tribute band…
Sabato sera 24 agosto, Festa del PD di Reggio Emilia, Area Sputnik.
Andiamo io e la mia signora a mangiare qualcosa e fare un giro. Ci sono i BIG BAMBOO, che sono un gruppo delle mie parti che fa un tributo a Bob Marley stupefacente da quanto assomiglino agli Wailers di “Babylon by Bus”. Quando entri nello spazio dell’Arena Concerti c’è una specie di muro fatto con dei pannelli che giorno per giorno illustrano tutti i concerti fino ad avere il programma completo, ogni concerto (o quasi) con la sua bella locandina appesa.
C’è anche la locandina dei Big Bamboo che hanno messo una foto gigante di Marley con la scritta “Big Bamboo” e “Bob Marley Tribute”. Non che la scritta non si veda, come fanno certe cover band che scrivono “DEPECHE MODE LIVE” a caratteri cubitali su una foto gigante di Dave Gahan e la parola “tribute” con il nome vero della band è scritta in Arial 7 che ci vuole il microscopio del Gran Sasso quando il tempo è sereno.
Ovviamente però la foto di Marley è messa in modo da catalizzare l’attenzione.
Una coppia cammina tranquillamente. Lei vede la foto di Marley sotto la scritta SABATO 24 AGOSTO e grida “NOO, DAI” poi si avvicina di corsa alla foto, legge la locandina e dice:
“AAAAHHHH ECCO (pausa) E’ UNA TRIBUTE BAND!”
…
…
…
…
…
…
(Se non l’avete capita subito non è grave. Occhio che quando arriva poi c’è da schiantarsi dal ridere. Tutto vero.)
TEMA: La volta che ho mangiato peggio in vita mia.
Svolgimento:
La volta che ho mangiato peggio in vita mia è stato il 22 agosto del 2013. Ero a Marina di Cecina, in provincia di Livorno, con mia moglie. Siamo arrivati e abbiamo parcheggiato lontano dal lungomare, che a Marina di Cecina di sera in agosto c’è traffico. Dopo che abbiamo parcheggiato ci siamo incamminati verso il lungomare e ci siamo detti che potevamo entrare in un ristorante qualsiasi che dai in fondo uno vale l’altro e che così magari non facevamo la fila come sul lungomare. Allora siamo entrati in un ristorante chiamato “DA FIAMMETTA” dove mia moglie ha deciso di prendere la pizza e io di mangiare del pesce.
Abbiamo ordinato e visto che avevamo letto “Birre artigianali” abbiamo chiesto cosa avessero. Ci hanno risposto che di birre artigianali avevano la MENABREA. Pessimo inizio, ma in fondo può capitare, ci siamo abituati, niente di grave.
Un indizio sospetto mentre aspettavamo, poi. Abbiamo visto due motorini di quelli che consegnano le pizze fermarsi davanti alle due case vicinissime al ristorante. Mi ricordo che io ho detto con mia moglie che dovevano essere proprio due cretini quelli che avevano ordinato le pizze pagando il supplemento del motorino e che magari te la consegnano anche fredda quando hai una pizzeria davanti a casa.
Poi è arrivata la pizza. Era grande come un 45 giri o poco più ed era peggio di quelle surgelate che trovi nei supermarket, sia come grado di croccantezza o sofficità, sia come sapore. A me invece è stato portato un antipasto che si chiamava “Il mare di fiammetta” che doveva essere una specie di gran trionfo dell’antipasto misto di mare e che vedeva qualche cozza e vongola secca, una fettina di una roba che credo dovesse essere carpaccio di tonno con una pisciata di maionese sopra e poi due crostini fatti con il pan carré. Avete presente quando comprate il pan carré e poi vi rimane aperto in frigo e prendete due giorni dopo una fetta in mano che si è un poco raggrinzita? Ecco, così. Manco tostato, giuro. Poi, visto che avevo preso anche un secondo di pesce avevo avuto con un tipo del ristorante un dialogo dove gli chiedevo tra lo sgombro e la palamita cosa avesse di fresco e lui ha risposto “La palamita!”. A quel punto io avevo confessato che “Io poi di pesce non capisco nulla, per carità” e lui aveva chiosato dicendo “Ma noi si, a noi con il pesce non ci fregano”.
Un quadratino grande come la “O” di quando fate “OK” con la mano, secco e raggrinzito servito su un alluminio circondato da verdure secche (l’olio non deve essere contemplato, nella cucina di Fiammetta) che rimanevano attaccate al cartoccio oppure venivano via ma ti dovevi mangiare anche la bauxite.
Ad un certo punto io ho perso la pazienza e ho proprio detto che dovevano andare a fare in culo a farmi spendere intorno ai 25 europei per quella merda. Ho detto proprio così e l’ho detto forte, tanto che mia moglie mi ha detto che dovevo stare attento che c’era il tipo dietro. Io ho ribattuto che oramai poteva soltanto sputarmi nel caffé, cosa che per un attimo ho temuto che abbia fatto visto che anche questo era talmente lungo che ho cercato il cartello “attenzione: acqua alta” con l’omino che annega.
Io sono di bocca buona, non mi lamento praticamente mai di un ristorante, figuriamoci pubblicamente. Quando vado al ristorante cerco sempre anche di raggruppare i piatti se fa comodo al cameriere e cerco di essere sempre gentile con tutti e portare pazienza qualora i tempi siano lunghi, specialmente quando sono in vacanza che invece loro stanno lavorando e servendomi da mangiare, ma come dice il mio amico Marco Paderni detto “Blasters” da Scandiano:
“Dio****, spendere dei soldi magari anche tanti per della roba che mentre la mandi giù fa schifo e la cosa migliore che ti può capitare è di far poca fatica a doverla anche cagare…”
“Da Fiammetta” a Marina di Cecina. Nel locale c’erano anche delle copertine di vinile, una era dei “That Petrol Emotion”. Dovevo aspettarmi qualcosa di terribile.
(Domani siamo al MEETING PEOPLE IS EASY, Festa del PD di Reggio Emilia, con il banchetto dei vinili del canile di Arceto. Ne abbiamo anche uno dei “That Petrol Emotion” che si chiama “Babble”. Chi lo compra vince del pan carrè raggrinzito)