Vaibrescions

Ieri sera io e la mia signora andiamo alla “Festa della libertà” di Zocca. E’ una consuetudine che abbiamo, ormai. Visto che in genere c’è un casino allucinante ci fermiamo a mangiare a Guiglia, dove in un albergo ristorante chiamato “Tre Lune” mangiamo due cotolette grandi come Piazza del Popolo buonissime, un piattone di verdure a buffet a testa, una San Miguel da 66 cl a cranio. Ci prendiamo anche il caffé. 30 euro in tutto, che in Emilia Romagna è un successone. Il tutto in compagnia di alcune simpatiche pensionate che svernano lì per l’estate e che scommettono tra loro se finiremo o meno la cotoletta. Da segnalare la pensionata che chiede alla cameriera se quella che è avanzata a lei “domani me la può fare in umido, con un poco di pomodoro che mi piace tanto…”.
Poi andiamo su, parcheggiamo lontanissimo e facciamo la solita passeggiatona a piedi. Ci facciamo largo tra l’odore acre della Marijuana in ogni angolo (a proposito: premio Oscar della comicità a chi ha postato su Facebook l’avviso “Attenzione che quest’anno ci sono anche i cani con la Digos”) e ascoltiamo distrattamente qualche gruppo, poi facciamo una passeggiata per le bancarelle del mercato.

C’è un tavolo dove un tipo legge i tarocchi. Io non ne posso più di questi qui. Del “pensiero magico”, intendo. Una di queste volte mi presenterò con una cassa di arance tarocco e poi l’appoggio sul tavolo dicendo “Non è che pretendo che le legga tutte. Mi dica, a grandi linee, di cosa parlano”.

Il truffatore che legge i tarocchi attira inevitabilmente qualche gonzo che si ferma a sentire cosa i tarocchi hanno da dire per lui. Mentre siamo lì allo stand a fianco arrivano tre ragazze. Tre ragazze che se ne parlassero due uomini tra loro al bar senza nessun freno politicamente corretto, probabilmente inserirebbero nella categoria delle “BELLE FIGHE”, se capite cosa intendo.

Una si siede, è tutta in solluchero perché “Ho proprio un sacco di domande e ho bisogno di risposte”. Il tipo fa la radiografia a tutte e tre e poi dice “Avverto delle buone vibrazioni”.

(Racconto della mia signora, Cristina Malagoli)

JJ

Il 26 Luglio, giorno del mio 41esimo compleanno, è morto JJ Cale.

Aveva 74 anni ed ha sempre avuto uno stile assolutamente inconfondibile, che quando possibile ho cercato di copiare.

Non sono stato mica l’unico.

Senza JJ Cale, Eric Clapton oggi farebbe probabilmente il casaro (e viceversa, visto i soldi di royalties di “Cocaine” e di “After Midnight”). Inoltre, tutti quelli che ascoltano i Dire Straits e amano lo stile di Mark Knopfler spesso non sanno che viene tutto da lì, in maniera quasi imbarazzante. Con la differenza che a Cale bastava suonare 3 note dove gli altri ne devono fare 300 per dimostrare di essere dei chitarristi.

La voce di JJ Cale era roca e suadente, come una carezza ruvida, velluto e carta vetrata. L’indolenza del suo suono particolarissimo e inconfondibile è stata fonte di ispirazione anche di insospettabili come gli Spiritualized, che rubarono la sua “Call me the breeze” rivisitandola in un brano chiamato “Run” dal loro primo album, “Lazer Guided Melodies”.

Se dovete cominciare da un disco, cominciate da “Naturally”. Compratelo, se possibile, in vinile. Ha una di quelle copertine dove ci si perde a guardare i dettagli, mentre intanto sul piatto scorre la musica più intima e avvolgente che abbiate mai sentito. Musica raccolta in canzoni che raramente passano i 3 minuti netti di durata, musica che non indulge in assoli e orpelli inutili, musica dove ogni nota è al suo posto e sembra esserci stata da sempre. Musica che ad ascoltarla distrattamente non sembra niente di speciale, ma della quale sentirete sempre il bisogno di tanto in tanto. Musica dove si sentono anche le note che non vengono suonate, se capite cosa intendo. E se capite cosa intendo e non conoscete JJ Cale allora vi invidio molto, perché state per cominciare un’esperienza incredibile.

Addio JJ, il tuo stile inconfondibile durerà nel tempo. Ogni chitarrista e ogni scrittore di canzoni ti deve qualcosa.

Figure di Mare.

L’anno scorso ho suonato al Bagno SOLOSOLE di Cervia (RA), in spiaggia. Suonare d’estate in riviera in uno stabilimento balneare implica che chi si trova lì non presti troppa attenzione ad un concerto. Sta lì, si gode la vacanza, si ascolta qualcosa mentre beve qualcos’altro. E’ giusto così.

Quest’anno ci sono andato in vacanza per una settimana, al bagno Solosole. Conosco i proprietari, si sta bene, nonostante il tempo inclemente ma questo non è colpa di nessuno.

Sono lì che mi godo la vacanza quando un signore sulla sessantina inoltrata (direi) viene lì e parliamo del più e del meno mentre intanto accendiamo il televisore per vedere Uruguay-Brasile, confederations cup.

Mi dà in mano i telecomandi dicendomi di pensarci io che son più esperto. Poi, vedendo che ci salto fuori ma prima arranco un poco tra telecomandi e robe varie mi dice che forse non sono così esperto come credeva.

Gli rispondo che io a casa non ho il televisore e quindi sono rimasto ai tempi in cui il telecomando era uno solo.

Lui sgrana gli occhi e da quel momento lì per due giorni mi chiede come faccio a stare senza tv. Tutti quelli che entrano vengono a imparare che io a casa non guardo la tv, perché lui glielo dice subito.

Mi è venuta in mente una scena de “La grande bellezza” dove una tipa dice “Te lo avevo detto che non ho la televisione?” e un’altra gli risponde che sta facendo i coglioni così al mondo sull’argomento. Noto che ogni tanto c’è anche sui vari socialcosi (copyright Marco Manicardi) questa critica alla presunta “ostentazione del fatto di non avere la tv”.

Ebbene, non ho nemmeno la lavastoviglie. Soltanto che quando lo dico nessuno si stupisce. E dire che ce l’hanno tutti. In genere però può scappare un “Che due maroni, lavare i piatti a mano” e poi finisce lì.

Se invece dici che non hai la tv vieni tempestato di domande sul “E come fai?”. La cosa ti fa sempre sembrare molto intelligente, quando in realtà tra passare una serata davanti a una puntata de “Il grande fratello” e una davanti alle bacheche di Facebook non è che ci sia tutta questa differenza, almeno secondo me.

In ogni caso, il tipo va avanti così tutto il tempo. Da lì per il resto dei giorni mi dirà sempre cose del tipo “Ah, però in vacanza guardi la partita, sei l’italiano medio”. Oppure “Ah, però in vacanza, gelatino, pennichella sulla spiaggia, sei l’italiano medio” e sempre avanti in questo modo. Io ogni volta sorrido e rispondo “Chiaro, sono in vacanza in riviera, mica sono andato alle Grotte di Lascaux ad ammirare le pitture rupestri”.

Poi ad un certo punto, il tipo dice “Oh, sabato sera quelli del bagno fanno una serata all’Hotel Vienna”. Io sabato sera sarò già a casa mia, purtroppo.

Il tipo dice “Ci saranno le birre artigianali e poi c’è anche uno che suona. Ma uno bravo, mica quel pelato di merda che è venuto l’anno scorso, che ha fatto venire due maroni…”

Al che realizzo che in effetti, vuoi per il sole, vuoi per non so cosa, finora davanti a lui non mi sono ancora levato il cappello.

 

Ti dico solo una cosa (Lo sport in televisione e la socialità secondo casa Frigieri)

Sarà capitato anche a voi, come diceva Sylvie Vartan. Non di avere una musica in testa, ma di vedere un avvenimento sportivo in differita. Spesso per ragioni dovute al fuso orario e al fatto che non potete stare svegli tutta la notte. Il giorno dopo dovete andare a lavorare e quindi decidete che ve lo guardate la sera dopo o quando riuscite. Accade spesso con gli sport americani.

Oggi, soprattutto con i socialcosi (Copyright Marco Manicardi), capita che nessuno resista dal guardarsi una partita di (riempite voi lo spazio) e poi comunicare al mondo il risultato.

Ci sono quelli più accorti che il giorno dopo ti dicono “Hai visto stanotte la finale degli US Open?” e al tuo “NO, NON MI DIRE NIENTE CHE LA GUARDO STASERA” non ti dicono niente e ti evitano. Non per cattiveria, anzi… Spesso ti concedono un tempo limite (tre giorni, una settimana al massimo in genere) e poi tornano sull’argomento. Hanno la fregola di dirti che il tale ha vinto con quella meravigliosa volèe che gli ha regalato la palla break decisiva al quarto set. Proprio perché ne hanno goduto così tanto, vogliono che anche tu ne goda e allora si ritirano e ti aspettano.

Ci sono quelli maleducati che ti dicono “HAI VISTO I PITTSBURGH STEELERS CHE HANNO MASSACRATO I MIAMI DOLPHINS? Oh, cazzo. 27-9, alla fine del secondo quarto praticamente partita finita. E poi nell’intervallo hai visto che c’erano gli Stones? Hanno fatto tutto “Let it bleed” e a “Midnight Rambler” è montato su anche Paul Mc Cartney a suonare il basso!!!” e a quel punto vorresti spaccar loro la faccia e invece rispondi solo “No, non l’ho visto. L’ho registrata, la prossima volta registro un porno. Almeno se me lo racconti non mi cambia granché”

Poi ci sono quelli che “TI DICO SOLO UNA COSA”.

Questa ultima categoria è composta dalle vere teste di cazzo. Non so esattamente cosa passi per il loro cervello quando “ti dicono solo una cosa”. Di sicuro non granchè, visto che a sentir loro la singola cosa che ti dicono non influirà minimamente sulle possibilità di goderti l’evento sportivo. Insomma, è “come se non ti dicessi niente”. E allora perché non tacere?

Invece questi bastardi decerebrati ti devono dire una cosetta, fare la battutina, spesso senza pensare che davanti a loro hanno qualcuno al quale l’evento sportivo in questione interessa DAVVERO e non soltanto come una scusa per stare tutti insieme davanti al televisore a parlare dei cazzi loro con in sottofondo Juve-Barcellona (per dire).

“LA COSA” che ti devono dire in genere parte da questo bisogno di rischio. Il rischio loro di rovinare A TE una serata. Un poco come se tu andassi a giocare alla roulette con i loro soldi e poi dicessi loro “E capirai, per 400 Euro…”.

I “Tidicosolounacosa” si dividono in diversi sottogruppi. Eccone qui alcuni tra i più comuni:

a) L’Idiota del 12esimo grado della scala Mercalli.
Distruzione totale. Quello che non arriva al minimo procedimento logico e ti dice “Lo guardi stasera il campionato mondiale dei pesi medi? Non ti dico chi ha vinto, ma ti dico solo una cosa. ATTENTO AL QUINTO ROUND, NON ANDARE IN BAGNO” e poi ridacchia, non si sa se compiaciuto per averti rovinato la festa o se perché convinto di averti fatto un favore (Non esistono studi di laboratorio sufficienti per avere dati attendibili). Interessante la variante “GUARDALA FINO ALLA FINE” in caso di partita di calcio con gol al novantesimo.

b) L’ignorante in matematica

State guardando le serie di uno sport americano. Io guardo il baseball, ma con il basket NBA il discorso è analogo. La formula è che le squadre si affrontano al meglio delle 7 partite. Chi ne vince prima 4 ha vinto. Mettiamo che nella serie stiano 3-1 per i Vattelapesca Crickets contro i Casamia Vandals e stasera vi guardate gara 5 che avete registrato. Loro vi dicono “Domani sera, che è venerdi, vieni a casa mia a vedere gara 6 e facciamo la notte?” A quel punto gara 5 sapete già che l’hanno vinta i Casamia Vandals. Che la guardate a fare?

c) L’entusiasta

E’ quello che sa della vostra passione per il baseball e dopo una settimana nella quale voi evitate di avere una vita sociale per guardarvi le gare che un vostro amico vi sta registrando, vi vede per caso in un bar e vi urla fortissimo “Oh, vecchio!!! Stanotte vieni a casa mia a vedere gara 7?” e a quel punto voi vi siete giocati tutta la serie. (Questa mi è successa davvero)

d) Il fallo di mano involontario (In genere  è il proprio partner, vostra madre, un parente stretto)
Quello che ti dice “Passi un attimo in negozio?” e nel secondo in cui tu passi in negozio mentre intanto riavvolgi la cassetta che ti ha appena registrato la marcia 50 km dell’olimpiade di Pechino, c’è la radio a tutto volume che dice “Ho tenuto il loro ritmo e poi li ho staccati”. Tu cominci ad urlare “LALALALALALALALALALA” ma ormai capisci benissimo che Radio Bruno, che è una radio iper generalista, non direbbe mai una cosa del genere nel notiziario se avesse vinto un messicano, un léttone, un samoano o un finlandese. Un italiano invece, probabilmente, si. A quel punto il tuo partner ti dice il perché ti ha fatto passare subito in negozio. “Mia madre mi ha lasciato una borsa con delle zucchine. Le puoi portare a casa? Sono nel retro”. Ovviamente quelle zucchine non potevano aspettare 3 ore e 50 in un frigo. Dovevano assolutamente venire prelevate subito. A quel punto in genere l’amore dà il colpo di grazia, nel senso che il partner si accorge di aver fatto una cazzata e invece di tacere dice “Scusa” con aria imbarazzata. Che tradotto significa più o meno “Si, nel caso avessi il dubbio, hai capito bene. Alex Schwatzer medaglia d’oro 2004. Ora vatti pure a vedere 3 ore e 50 di marcia sapendo già com’è finita. Pensa che coglione, ti sei anche alzato apposta!” (Autobiografica anche questa, come avete fatto a indovinare?)

e) Il malizioso (Variante fine del sottogruppo “a”)
Il tipo peggiore o quantomeno il più pericoloso. Quello che non capisce nulla dello sport che segui tu. In genere segue il calcio e quindi per lui lo sport si ferma lì. E’ quello che non capisce come tu possa guardarti delle partite di baseball e quindi ti prende per il sedere a intervalli regolari durante le chiacchierate sul lavoro alla macchina del caffé. Poi, un bel giorno, vede che te ne vai mentre tutti sfogliano la “Gazzetta dello sport” e tu commetti l’errore di pensarlo tuo amico e allora dici “Sto guardando le World Series americane, le registro alla notte, mi sono informato su tutti gli orari e ho programmato tutto, non voglio rischiare di rovinarmi la cosa. Non mi dire niente, ti prego”.

Lui allora che fa? Intanto VA A VEDERE SE C’E’ SCRITTO QUALCOSA SUL BASEBALL, cosa che non avrebbe MAI fatto. Poi legge, memorizza una singola informazione (il suo cervello non è in grado di tenerne di più) e poi viene lì da te stuzzicandoti tutta mattina, ma senza dire niente. Tu sai benissimo che arriverà il momento in cui rovinerà tutto e preghi che lo chiamino per un problema in produzione, perché ha lasciato il figlio in macchina, perché la casa gli si è allagata. Invece no, lui continua a punzecchiarti.

Fin quando… “TI DICO SOLO UNA COSA…”

E poi ti dice il nome di un giocatore che ha letto sul giornale. Solo un nome. Per lui è solo un nome, quindi non farà una grande differenza. Solo che cara la mia testa di cazzo, mi hai detto il nome di un terzabase. Non di un lanciatore, non del più grande fuoricampista che ci sia in campo, ma di un terzabase. E guarda caso è quello della squadra che si trova in vantaggio nella serie. Infatti con ogni probabilità tu hai letto quel nome perché scritto un poco più grosso degli altri. Questo può solo significare che il giocatore in questione abbia fatto qualcosa come il fuoricampo decisivo della partita, facendo vincere la stessa alla sua squadra che li è laureata campione del mondo e grazie a questa giocata il singor terzabase venga dichiarato MVP (Most Valuable Player). Infatti succede poi che la sera sei lì che guardi la partita con tuo fratello e quasi ti sei scordato di quel cretino che lavora con te. Ma all’ottavo inning si presenta in battuta con due uomini sulle basi il “Signor terzabase” e a te di colpo torna in mente tutto. Infatti: fuoricampo, MVP, fine partita, fine serie.

Ma come? Solo da un nome? Si. Era solo un’ipotesi, è chiaro. Ma hai visto che c’è qualcuno che fa girare le rotelline del cervello e IMMAGINA? Immagina anche dalla faccia che hai fatto quando non appena mi hai detto il nome ti ho spiegato tutta questa pappardella. La tua era una faccia incredula, una specie di “Ma come ha fatto a capirlo?” che è più o meno la stessa dei bambini quando un prestigiatore tira fuori un coniglio dal cilindro. Insomma, una faccia da idiota.

Morale della favola: SE SAPETE IL RISULTATO STATE ZITTI, STRONZI.

 

Nota: Per evitare di sapere i risultati delle World Series di Baseball, visto che non ho la tv e se scarico io finisce che poi conosco i risultati durante la ricerca, abbiamo messo a punto un sistema io e il dottor Manicardi che un giorno brevetteremo. Se rispettato in ogni sua regola è praticamente infallibile, a parte il rischio di incontrare stronzi durante la giornata. Da qualche parte ci devono essere delle mail che lo spiegano, poi un giorno ve ne parla lui se ha voglia.

Di lavoro (Le parole, la batteria, i batteristi).

C’è una specie di monologo, che in realtà non è un monologo perché non è che io poi stia lì a scrivermi le cose che dico tra una canzone e l’altra quando vado a suonare dal vivo. Non ne ho la capacità, di fare l’attore di teatro. Al massimo mi improvviso un poco cabarettista-cazzone, che quello mi riesce bene e ormai ci sono persone che vengono ai miei concerti solo per sentire le cazzate che sparo tra una canzone e l’altra. Ma sto divagando, come al solito.

Dicevo, c’è una specie di monologo dove dico che secondo me le parole hanno una loro carica naturale che funziona più o meno come la batteria di un cellulare e quindi ogni volta che noi usiamo una parola, questa perde un poco della sua carica originaria. Poi ad un certo punto finisce che dobbiamo lasciare riposare la parola in questione perchè è scarica quasi completamente. A quel punto spesso, come con i cellulari, ci capita di dover utilizzare la parola di nuovo prima che la ricarica sia completa e quindi la carica della parola dura sempre meno, fino a quando la parola è bella che andata e a noi non rimane che non usarla più, perché a quel punto che noi la si usi o meno ormai il suo significato (la sua carica) è andato in vacca.

In genere, dopo aver fatto questo pistolotto introduttivo, suono “La gente”. Che è una parola che secondo me dovrebbe essere lasciata a ricaricarsi per un bel po’.

Ma ce ne sono altre, di parole che dovrebbero ricaricarsi. Una che mi viene in mente al volo è la parola “EVENTO”, che credo spieghi bene l’analogia con la batteria del telefono. Una volta un evento era un cataclisma, un’inondazione, la nascita del proprio figlio. Poi è diventato una roba tipo una visita del Presidente della Repubblica, poi è diventato il passaggio del Giro d’Italia, poi la festa del patrono, poi un concerto in uno stadio, poi un concerto in un pub, poi un dj set e oggi “UN EVENTO” significa più o meno “tre spritz, due ciotole di arachidi e di patatine, un Ipod in funzione Shuffle attaccato a due casse”.

C’è un’altra parola che mi sembra stia subendo una involuzione simile. La parola LAVORO. Già questa è una parola equivoca. Il lavoro cambia il suo significato a seconda dell’ambito. In fisica ha un significato diverso dal linguaggio comune, dove può essere ad esempio usato come sinonimo della parola “COSA” o addirittura della parola “evento”, come in Emilia facciamo spesso. Oppure c’è il significato che le si attribuisce nel senso di “lavoro salariato” o comunque “occupazione”. In pratica, quello che fai per vivere, “quella cosa che ti dà un reddito”.

Avendo scritto qualche canzone sull’argomento, anche io ho probabilmente partecipato allo svilimento collettivo che stiamo attribuendo a questa parola. Mi dispiace e molto, soprattutto perché ritengo di essere arrivato a dare colpi ferali ad un corpo che ormai si rannicchia esanime in cerca di protezione.

Credo infatti che tutti quei politicanti e sindacalisti che dicono che “la priorità è IL LAVORO” abbiano creato la maggior parte del cortocircuito. La priorità non è IL LAVORO. La priorità è IL REDDITO. Visto che difficilmente quest’ultimo si raggiunge non lavorando, a meno di non intraprendere azioni criminali, per la “proprietà transitiva del farsi il culo come una capanna” il lavoro è diventato la priorità di molti di noi. Ma è uno scambiare il mezzo con il fine. Di questo, ad esempio, parlo in “Criceti” (uno dei pezzi del mio ultimo album) attraverso alcuni esempi di vita vissuta che vanno ad indicare quella che secondo me è la funzione del “lavoro”.

In tanti, ad esempio, mi dicono che uno dei loro pezzi preferiti quando suono dal vivo è “Colleghi” (Tanti tra i pochi che mi vengono a vedere suonare, sia chiaro. Non voglio mica esagerare che questo post è già talmente autoreferenziale che “Rattle and hum” degli U2 a confronto sembra davvero un documentario su una tournée).

“Colleghi” parla della mia intolleranza alle cene aziendali, le cosiddette “CENE DI LAVORO”. Le cene di lavoro sono cene dove si mangia tra colleghi di lavoro e in genere paga la ditta, altrimenti nessuno ci va.

Ebbene, ho dovuto purtroppo constatare che la canzone in questione (che eseguo ancora oggi con sommo piacere) è stata inesorabilmente sorpassata dall’usura del tempo, nonostante a me sembrasse di sferzante attualità e diversi apprezzamenti da parte degli spettatori ad ogni sua esecuzione avvalorassero tale ipotesi.

Infatti siamo arrivati alle locandine fuori dai ristoranti che propagandano il “menù fisso a mezzogiorno” come si diceva una volta, chiamandolo PRANZO DI LAVORO. Ora, la cena di lavoro nell’immaginario collettivo è una roba con una bella tavolata grande, parecchie portate, roba sontuosa, scrocconi che prendono il vino che non berrebbero mai se dovessero tirare fuori la grana, discorsoni dei capi che ringraziano tutti i presenti in formule retoriche che in realtà servono ad autoincensarsi e cose così.

Il pranzo di lavoro invece è una roba “Menu fisso 1 primo + 1 contorno + acqua o bibita piccola + caffè = 10 euro”. Una cosa del genere. Infatti è una roba dove si va in quattro al massimo. In una mensa non lo pubblicizzano neppure. E’ la regola. Diciamo che è una formula usata dai ristoratori che significa più o meno

“Questa non è mica una cazzo di mensa, questo è un posto di classe. Però, cari i miei straccioni, se volete venire a mangiare qui nel mezzogiorno sono disposto ad arrivare a questo compromesso, anche perché altrimenti mi tocca chiudere”.

Oppure, se letta nei bar, significa più o meno:

“Si, lo so che c’è scritto BAR. Però guardate che abbiamo un forno a microonde, non vi siete rotti le palle di farvi pelare per mangiare ai tremila chilometri all’ora, che tanto dovete tornare SUBITO al lavoro e manco ve la godete? Arrendetevi”
(Infatti ogni tanto i bar scrivono PRANZI VELOCI, come se fosse obbligatorio andare al bagno a lavarsi le mani di corsa. Alcuni bar un giorno vi noleggeranno anche la tuta e le scarpette)

Io e l’uomo che suona la batteria nei miei dischi, CESARE ANCESCHI detto CICO, che è un uomo che incarna i valori del surrealismo più o meno in ogni azione che compie durante il giorno, abbiamo avuto un’idea che non era male, ormai diversi anni fa.

Ci siamo vestiti di tutto punto, con un completo figo, abbiamo preso delle valigette “giuste” con dentro dei grafici e dei fogli che non volevano assolutamente dire nulla, abbiamo comprato “IL SOLE 24 ORE” e poi ci siamo recati in un ristorante a fare un “pranzo di lavoro”. Un sabato, che in genere il sabato la formula “pranzo di lavoro” non c’è, che anche questa è bella.

Abbiamo pranzato mostrandoci i rispettivi grafici sul nulla (io avevo anche stampato gli accessi a questo blog e le chiavi di ricerca, giusto per fare qualcosa), dopodiché abbiamo iniziato a progettare il futuro dell’iniziativa. Ci siamo detti che avremmo dovuto riprendere l’usanza ogni anno, ogni volta invitando una persona la quale l’anno successivo avrebbe dovuto invitarne un’altra e così via, in una costruzione piramidale che nei nostri sogni più rosei mirava, nel giro di quindici anni, ad aver bisogno di un hotel con centro congressi, dove noi due che eravamo i fondatori avremmo tenuto una relazione sul brillante successo di una iniziativa deliberatamente inutile che aveva come unica caratteristica base la totale stupidità da parte dei partecipanti.

Purtroppo non abbiamo mantenuto la promessa e dopo quella prima edizione, nella quale eravamo gli unici due partecipanti, abbiamo lasciato cadere la cosa pur ripromettendoci ogni volta che avremo dovuto ricominciare facendola diventare una consuetudine.

Nessuno, all’interno del ristorante, ci ha chiesto che lavoro facessimo. Nessuno ci ha chiesto la partita Iva. Ci siamo chiesti allora che pranzo di lavoro fosse, dal momento che veniva applicata la formula esclusivamente sulla fiducia. Tant’è che il mio commensale, in quel periodo, era disoccupato. Eppure alla cassa chiesero “Vuole la fattura o basta la ricevuta?” solo perché eravamo vestiti bene e avevamo dei fogli in mano per tutto il pranzo, che ci passavamo dicendo frasi a caso tra gli sguardi interessati dei tavoli a fianco, conquistati grazie alle espressioni serissime che avevamo mentre pianificavamo i nostri deliri Post-Marxisti (nel senso di Groucho).

Non so perché vi abbia raccontato questa cosa, forse solo perché a noi faceva ridere molto. Ma credo anche perché, se incominciamo a chiamare le cose con il loro nome, probabilmente sarà meno facile per i primi due imbecilli che passano, fingersi quello che non sono.

O forse cercavo solo adesioni :-)

 

No me moleste mosquito. Il mestiere di essere Ray Manzarek.

La prima volta che ho ascoltato i Doors è stata intorno al 1982/1983. C’erano dei video che giravano su “Mister Fantasy” di Carlo Massarini con questa musica allucinante e mio fratello portò in casa un disco dei Doors chiamato “Greatest Hits”. Io non lo sapevo che voleva dire “I grandi successi”, che avevo dieci anni e infatti mi stupivo che c’erano in tanti che avevano fatto un disco con quel titolo lì. Poi iniziai ad imparare l’inglese proprio con i Doors, ma di questo ho già scritto in un post molto vecchio e a quello vi rimando. In quel disco lì c’era una canzone che era la seconda del lato A del vinile e che si chiamava “Light my fire”. Partiva con una introduzione di tastiera e poi dopo una parte cantata partiva una roba lunghissima dove non cantava nessuno e questi suonavano come invasati. “Ma quanto cazzo dura? Ma non cantano più?” e poi ripartiva a cantare e il pezzo finiva. La cosa mi mandava nei matti, con il tempo avrei imparato che la cosa più bella del pezzo era proprio quella parte di mezzo. Poi da lì vennero i dischi ufficiali, che mio fratello comprava uno dopo l’altro. I Doors erano fighissimi e poi avevano canzoni LUNGHE. La mia preferita era e rimane ancora oggi senza dubbio “When the music’s over”. 11 minuti che mi mandarono fuori di testa. C’era tutto quello che potevo desiderare.

Ma non voglio parlare di quanto fossero fighi i Doors e di quanto fosse importante quella tastiera (io le tastiere le odio, ma Ray Manzarek e i Doors rappresentano l’eccezione) nell’economia del suono dei quattro. Non lo voglio fare perchè ritengo che i Doors fossero uno di quei rari casi dove se ne togli uno salta tutto o quasi. Non avrebbero avuto senso con un altro cantante, con un altro tastierista, con un altro chitarrista (No, dico… tutta la musica folk araba, indiana, zingara della chitarra di Krieger?) e con un altro batterista (Densmore era drammaturgia pura. Suonava la batteria spesso seguendo la voce di Morrison e sottolineandone la recitazione o il canto con momenti che ricordano quelli di un circo o di un cabaret. Non è una cosa così usuale. E funzionava).

Dicevo, voglio parlare del mestiere di essere Manzarek. Perchè essere Ray Manzarek è un mestiere a tempo pienissimo. Mi spiego meglio.

I Doors durarono dal 1967 al 1971, poi Morrison se ne andò e ci lasciò le penne subito. Il suo stile di vita rock’n’roll gli consegnò 27 anni di vita in un corpo che ne dimostrava 56 portati male. A quel punto i tre superstiti ci provarono. Fecero il colpaccio. Incisero un disco senza Morrison, cantando loro (Manzarek, spesso). Si chiamava “OTHER VOICES”, altre voci. Il disco fu un flop. Ne fecero pure un altro, si chiamava “FULL CIRCLE” e il cerchio si chiuse davvero qui. I Doors senza Morrison NON SE LI CAGAVA NESSUNO.

Infatti, se andate a vedere nella discografia dei Doors quei dischi lì non figurano neanche. In molti non sanno neanche che esistono.

Poi, visto che bisogna campare, decisero di tirare fuori dei vecchi nastri con il morto che recitava poesie e ci suonarono sopra. Funzionò, il pubblico se la bevve, trovò spazio anche una versione dell’Adagio di Albinoni schitarrata da Krieger su base recitante che ancora oggi grida vendetta.

Ma il vertice assoluto di questo scempio fu toccato in “Full Circle”. Lì c’era un brano chiamato “MOSQUITO” che era una filastrocca che diceva “No me moleste Mosquito, Leat me eat my Burrito, No moleste Mosquito, Why don’t you go home”. Andatevela a sentire su Youtube.
Roba che a confronto lo zecchino d’oro sembra Immanuel Kant.

Fatto? Bene. A questo punto per i Doors superstiti cominciava, grazie ad “An american prayer” e al culto del cantante scomparso, una fitta sequenza di impegni. I ragazzi ricominciavano a suonare dal vivo insieme, senza il cantante. Vennero arruolati cantanti occasionali più o meno noti e quando ad un certo punto diversi anni fa John Densmore decise che aveva fatto abbastanza soldi, venne preso addirittura un nuovo batterista. Senza pietà, più o meno come fanno gli Who (che si chiamano così perchè non sai più CHI suoni).
Il tutto condito da reincisioni di album, VHS che poi diventano DVD che poi escono di nuovo con qualche extra, un film incentrato soprattutto sulla vita dell’amico morto, poi altri documentari, poi interviste continue e il tutto SEMPRE A PARLARE DI QUEI 4 ANNI (scarsi) LI’, dal 1967 al 1971.

Perché appena snoccioli un aneddoto o suoni un accordo sono tutti lì in adorazione. Ma non appena accenni a qualcosa di altro che potresti aver fatto a nessuno frega niente di niente di niente. MAI.

Visto che molti che leggono questo blog sono persone che suonano, prego a lorsignori di provare ad immaginare la loro vita secondo l’applicazione del “Metodo Manzarek”.

Vi ricordate la roba che suonavate (a seconda dell’età che avete) 10, 15, 20 anni fa? Bene, ora immaginatevi che abbia avuto un successo notevole e immaginatevi costretti a suonarla SEMPRE. A parlarne sempre. A parlare di continuo del cantante (o bassista) del vostro gruppo di quanto avevate 18 anni (o 27, a seconda di quel che vi è capitato). Si, proprio di quel tizio che oggi non vedete più e che non sapete manco se ha famiglia, figli… Immaginatevi a parlarne tutti i giorni, tutti vi chiedono qualcosa a riguardo, sempre le stesse cose. E poi la musica. Sempre le stesse canzoni, sempre le stesse. Folle in delirio non appena accennate l’incipit di (mettete il titolo di un vostro pezzo che suonavate quindici anni fa, del quale non vi ricordate manco gli accordi). Visto che probabilmente suonate ancora, immaginate che tutto quello che avete fatto dopo sia TABULA RASA, tanto è vero che avete dovuto rinunciare a pubblicarlo e financo a suonarlo, se volevate campare.

Non è una vita così idilliaca, vero? Una timbratura di cartellino per svolgere sempre la stessa identica mansione. Una specie di “giorno della marmotta” in versione rock’n’roll. Anche perché lo dovrete fare fin quando campate. Sempre, sapendo che ogni canzone che vi andrà di scrivere non troverà mai spazio. Tutti vorranno sempre e solo sentire (e sentire parlare) di quei quattro anni lì. Quattro anni che per voi sono sempre più lontani, tanto che oggi manco ve li ricordate più così bene.

Immaginatevi poi che quando tirate le cuoia per un poco giri la voce che la vostra morte sia una bufala, che parta un mistero simile a quello dell’amico di cui sopra. Insomma, anche nel momento del trapasso vivere nell’ombra.

Ho letto su diversi socialcosi (copyright Marco Manicardi) di persone che, per tessere le lodi del Manzarek gli auguravano di “Ritrovarsi con Jim per suonare insieme (mettete il titolo di un pezzo dei Doors famosissimo).

Personalmente ho voluto troppo bene alla musica dei Doors e quindi a Manzarek per augurargli una punizione da girone dantesco come questa. Ray, se dovesse esistere l’aldilà, ti auguro di poter finalmente cominciare a suonare quel cazzo che ti pare. E se Jimbo dovesse proprio farsi vivo, ti auguro che ti chieda “No me moleste mosquito?” e poi ti dia l’attacco “Uno, dos, tres, quatros” e poi giù a ridere.

Turn off the lights.

Vi consiglio un libro per la festa della mamma.

Chiara Lalli è una donna che ha studiato e insegnato una disciplina chiamata LOGICA. Esiste proprio una disciplina scolastica chiamata LOGICA, come Matematica, Italiano, Francese, Stenografia, Estimo, Biologia e altre seimila cose che si insegnano (o si insegnavano) a scuola. Sembra una cosa da niente e invece non lo è, perché molte volte quando parliamo con un amico o in generale quando esprimiamo un’opinione su qualcosa e la motiviamo poi diciamo “E’ logico” e invece, se stessimo parlando con un insegnante di logica quest’ultimo ci farebbe capire come non lo è per niente.

Chiara Lalli qualche anno fa scrisse un libro chiamato “Buoni Genitori – Storie di mamme a papà gay”. Lo comprai e lo lessi. Mi ritrovai a ribaltare alcune mie convinzioni sull’argomento. A volte dovetti impegnarmi non poco per superare certi pregiudizi che onestamente manco credevo di avere, ma la spiegazione del perchè dovevo farlo era lì, nero su bianco, logica. E’ difficile combattere contro la logica, prima o poi ti arrendi oppure sei una persona ottusa e allora non c’è niente da fare.

Chiara Lalli ha scritto un altro libro, uscito di recente. Si chiama “A. – La verità, vi prego, sull’aborto”. L’ho comprato e l’ho letto. Io sono assolutamente a favore della possibilità di abortire per una donna, quindi mi pensavo che in questo caso mi sarei trovato a leggere un libro che non avrebbe scardinato nessuna delle mie convinzioni. Mi son detto, tra me e me, con quella faccia di chi si compiace e fa anche un poco il furbetto “Questo lo leggo che è una passeggiata, dai…”

Mi sbagliavo.

Non che io sia diventato uno di quelli che vanno alla marcia per la vita. Anzi, la mia convinzione che una donna debba poter scegliere tra abortire e affrontare una gravidanza si è rafforzata. Però si sono sgretolate alcune convinzioni che avevo sull’argomento e allo stesso tempo mi sono accorto di quanto fossi vittima di pregiudizi e luoghi comuni nell’affrontare la questione. Il tutto con la semplice arma della logica (e qualche statistica in soccorso, di tanto in tanto).

Ho dunque potuto notare come la maggioranza degli aborti non sia per donne alla prima gravidanza e quindi la mia convinzione (derivata principalmente dal cinema) che l’essere madre e abortire siano due concetti che faticano tanto a stare insieme è subito saltata. Credevo onestamente che la maggior parte degli aborti riguardassero ragazzine o donne giovani e comunque primìpare.

Ho capito che la scelta abortista o antiabortista non deve ammettere “l’eccezione dello stupro”. Per te l’embrione è come una vita umana? E allora anche se è frutto di uno stupro, non ripari allo stupro con un omicidio. Di uno che non c’entra niente. Se per te un embrione e un bambino di (N) anni sono la stessa cosa e poni l’eccezione dello stupro, allora perché punire una madre che magari lo uccide quando ha 3 anni? Sempre frutto di uno stupro era (Se poni l’eccezione dello stupro significa che sotto sotto per te un bambino ed un embrione sono due cose completamente diverse. Prima lo ammetti a te stesso, prima la pianti di fare casini sulla pelle delle persone).

Ho capito che il fatto di non parlare mai di aborto sia la più grande cazzata micidiale che si possa fare. Se, come viene sempre detto, l’aborto è un’esperienza traumatica, devastante, dolorosa… Perché non dovremmo parlarne, visto che la prima cosa che ti dicono quando hai un qualsiasi problema è di parlarne con qualcuno (Un amico, i genitori, uno psicologo, eccetera)?

Ho capito che l’aborto non è sempre un’esperienza traumatica. Dipende. Ci sono donne che lo affrontano come un trauma, altre che non si pentono neanche per un secondo e che non hanno nessun rimorso.

Ho capito che non tutte le donne vogliono diventare madri e questo non le rende assolutamente donne di serie B.

Buona festa della mamma. A tutti.

Vendetta?

Ieri sera io e mia moglie abbiamo visto “V for Vendetta”. Avevamo provato a vederlo qualche anno fa, dopo dieci minuti avevamo spento perché parlavano troppo freneticamente e quella sera lì non ne avevamo voglia. Peccato, che ne parlan tutti bene, avevo pensato.

Ieri sera dopo dieci minuti mi sono ricordato perché avevamo spento e mi son detto che avevamo fatto bene. Però lo abbiamo finito di guardare lo stesso.

Il prossimo che mi prende in giro perché mi piace l’Opera e che mi dice che “Nabucco” di Verdi ha una trama poco plausibile si becca una roncolata.

Parla come mangi (E’ tutto un parla parla)

1. Si sente che è registrato in analogico, il suono è più caldo = Si sente che mi hai appena detto che è registrato in analogico. Non me ne sarei mai accorto.

2. E’ un’occasione per te per farti conoscere = Non ti pago un cazzo di niente, sappilo.

3. In ogni caso la cena per te è gratis, naturalmente = Non ti pago un cazzo di niente, ringraziami.

4. Tu sei iscritto SIAE? = Ma lo dobbiamo proprio fare, ‘sto borderò?

5. Ho visto che suoni un sacco = Noi non suoniamo mai, porca troia.

6. Ho visto che suoni un sacco. Ma hai un’agenzia di booking? = Mi rompe mettermi lì a cercare le date.

7. Ho visto che suoni un sacco e fai tutto da solo. Ma perché non metti su un’agenzia di booking? = Mi rompe mettermi lì a cercare le date, non è che ci penseresti tu?

8. Ho visto che suoni un sacco. Pensavo che vivessi di musica. = Stai dicendo che mi toccherà lavorare PER SEMPRE?

9. Sono venuto via perché il resto del gruppo aveva visioni musicali diverse = Mi hanno buttato fuori.

10. Tecnicamente sono bravissimi = Fanno cagare.

11. Tecnicamente sono bravissimi = Non ci capisco nulla nel casino che fanno.

12. I nostri testi sono fatti seguendo il principio del “Cut-up”, hai presente William Borroughs? = Cantiamo parole a caso, non siamo mica capaci di fare testi con un senso.

13. Per noi i testi sono molto importanti = Suoniamo sempre quei tre accordi. E allora?

14. Ormai le riviste musicali sono morte = Non mi recensiscono mai, e dire che li ho intasati di buste.

15. Ormai le riviste musicali sono morte = Non mi fanno scrivere, tocca inventarsi una web-zine.

16. Mi piace molto l’ultimo pezzo = Quello che hai fatto per ultimo, è l’unico che ricordo ancora. Tra dieci minuti nemmeno quello.

17. Ci hanno fatto i complimenti in tanti = Uno ha detto che siamo bravi.

18. Ci saranno state circa (“N”) persone = Ci saranno state circa (“N:1,98765432”) persone. *

19. Noi di solito usciamo a (“N”) Euro, ma per te possiamo fare anche meno = Adesso vediamo se sei sveglio o se riusciamo proprio a mettertelo in quel posto così facilmente.

20. Si, si. Una spia c’è, al limite la troviamo. = Col cazzo che ti vado a trovare un monitor, ti arrangi. E lo scoprirai soltanto quando sarai qui e sarà troppo tardi.

* 1,98765432 è un numero fisso per il quale si divide mentalmente il numero sentito dall’interlocutore e prende il nome di “Coefficiente di ritorno alla realtà” o anche “Numero di Hoffmann” dall’inventore dell’LSD. La divisione non da MAI resto se chi esegue il calcolo mette pubblicamente in dubbio il numero N, cosa che non accade mai. Di solito infatti il calcolo necessita di movimenti con la testa che ricordano molto da vicino quelli dell’assenso ed espressioni che rasentano stupore e stima.

Entry poll (Sensazioni di voto)

Non so come dire… sarà anche militanza, sarà anche fede politica, sarà anche partecipazione… ma quanto mi sento chiedere “Sei stato a votare?”, specialmente se poi seguono domandine che cercano di carpirti qualcosa sul simbolo dove avresti potuto tracciare la croce, ma anche solo “Allora, sei stato a votare?”… Mi sembra un poco come quando si chiede a qualcuno se ha fatto qualcosa che hai fatto anche tu, ma se trovi qualcuno che l’ha fatta anche lui ti senti meglio, che non sei mica sicuro di aver fatto un bel lavoro e allora fare una cosa un poco così da solo è da stupidi e invece farla in due ti fa sentire meno scemo o comunque meno solo. Non so come dire.