Cose che racconterò ai figli che non avrò, di questi cazzo di anni dieci.

In Italia, negli anni 70, tirarono le bombe a Lou Reed, tirarono le bombe a Santana dicendo che era un “Servo della C.I.A.”. Il pubblico dei concerti inizio a contare numerosi gruppi di “autoriduttori”, che vuol dire che vuoi entrare senza pagare perché ti tira il culo e mascheri tutto con ragioni politiche, facendo casino e rovinando la festa a chi ha pagato il biglietto.

Gli inglesi, gli americani, gli stranieri in genere e i grossi nomi, che di tempo da perdere con una masnada di imbecilli non ne hanno mica tanto, decisero che in Italia potevano anche non passarci, che in fondo la Svizzera applica tassi di interesse migliori.

Non essendoci più nessuno che veniva in Italia e visto che prendere un aereo era ancora un lusso, fare un viaggio in macchina di 1200 km con una 127 non era esattamente una passeggiata, chi andava a vedere la musica dal vivo andava a vedere gli italiani. Non si stava in casa con internet, non c’era. C’erano DUE canali della televisione e la radio era solo la RAI, poi cominciarono le radio libere. Se volevi ascoltare la musica dovevi comprarti dei grossi cerchi di vinile e leggerli con una puntina. Non potevi metterti le cuffiette e andare a sentire la musica mentre correvi. La puntina sarebbe saltata. Al limite, in macchina, tenevi una cassetta. Una roba con dentro un nastro magnetico che girava. Se non ti piaceva il pezzo dovevi mandare avanti tenendo spinto il bottone e non sapevi a che punto sarebbe finita la cassetta. Dovevi andare a tentativi. Quindi spesso lasciavi correre e qualche volta scoprivi che a furia di ascoltarlo il pezzo che faceva schifo poi diventava bello. Comunque l’ascolto di musica era una roba scomoda, come avrai capito. Infatti, quando ascoltavi musica fuori casa la ascoltavi insieme agli altri, spesso dalla radio. E quel che mettevano in radio era legge, non è che cliccavi un tasto e partiva la musica che volevi tu. Una roba scomoda, insomma.

Quindi gli italiani che cantavano (ammesso che tenessero duro a contrastare gli imbecilli di cui sopra) suonavano parecchio. La parola DJ SET non esisteva, nei primi anni 70. Quando ha cominciato ad esistere vi lascio immaginare la qualità del Dj Set. Nei paesi si facevano con le cassette (vedi sopra) che si registravano tramite i rotondoni di vinile. La scaletta era quella, non è che vedevi che il pezzo vuotava la pistina e dicevi “adesso lo cambio”. Insomma, una roba scomoda.

Poi i Dj si sono impadroniti del mercato, sono arrivate le discoteche grandi. Chi glielo faceva fare di pagare una band? Ballo, divertimento, spensieratezza. Dei cantautori (e delle band) non gliene fregava più nulla a nessuno. Le band medio-piccole si rifugiarono in locali piccoli, circoli Arci e cose così. I locali da ballo erano sempre pieni, facevi la selezione all’ingresso anche per entrare a Cernusco sul Naviglio o a Formigine come se fossi a New York.

Poi i locali cominciarono a vuotarsi. Qualcuno si era stancato di pagare 12mila lire per un gin tonic fatto con roba comprata al discount.

I locali medio piccoli che nel frattempo avevano continuato a far suonare dal vivo ebbero per un breve momento la loro rivincita. I locali grandi cominciarono ad aggiungere la formula “concerto in apertura” alla serata danzante, sperando che il gruppo richiamasse qualche appassionato. Noi musicisti sprememmo la gallina dalle uova d’oro, chiedendo cachet che eravamo sicuri di non valere. La spremitura dell’agrume durò per la seconda metà degli anni 90, poi i nodi vennero al pettine.

Molti locali chiusero. Rimanevano più che altro locali molto piccoli e si cominciò a cercar di suonare di nuovo anche nelle birrerie e nei locali con qualche tavolino davanti al palco. Subito si faceva gli schizzinosi, che eravamo cresciuti con il mito del “concerto rock”, ma ben presto si capì che a far finta di essere rockstar si era patetici. Inoltre i locali chiamavano una volta e poi non ti chiamavano più, perché facevi troppo rumore. La domanda “Fate anche l’acustico?” diventò come un mantra, te la sentivi ripetere ad ogni telefonata. In tanti cominciarono a fare anche l’acustico.

Poi successe che anche i locali piccoli (soprattutto quelli dove a fine anno non viene una associazione a iniettarti il denaro liquido che le hai fatto perdere e che non godono di agevolazioni fiscali) cominciarono a fare due conti. Delle band non avevano bisogno, potevano fare musica con meno roba possibile. Le band cominciarono a sciogliersi e si andava in duo, in trio acustico.

Spesso da soli.

Da soli non c’era bisogno di due macchine e quindi i costi erano ridotti (come i DJ) e potevi chiedere di meno e qualcosa ti rimaneva in tasca. Da solo, costando molto poco, potevi pure permetterti di suonare davanti a quindici-venti persone. Il locale andava pari e patta facendosi comunque un nome per “posto che promuove la musica dal vivo”. Da solo voleva dire che non avresti mangiato il prodotto interno lordo del Botswana a spese del proprietario del locale e che non avresti bevuto il Mississippi un boccale alla volta (sempre a spese di chi sai tu). Da solo significava che non dovevano affittare quattro stanze di albergo (sempre a spese di chi sai tu), ma potevano dirti “Ho una branda in casa mia”.

Questo faceva si che pian piano, visto che i più grandi chiudevano, quelli che prima facevano gli schizzinosi a suonare in quei posticini lì  poi provassero ad entrare nel giro di questi localini medio piccoli e i proprietari imponevano le loro condizioni (e facevano bene).

A quel punto qualcuno iniziò a parlare di “Ritorno dei cantautori” e di “voglia di grandi temi e di contenuti”. In realtà la cosa era dettata più che altro dalla contingenza. Infatti, al netto di qualcuno che diventò grande per davvero come numero di fan, tanti rimasero al palo.

Allora vennero a dirci che non eravamo bravi come quelli degli anni 70, perché quelli muovevano le masse e noi muovevamo si e no il nostro culo.

Rispondemmo che in effetti era vero, non eravamo tutto questo fenomeno.

Però rispondemmo anche che i linguaggi musicali cambiano e oggi i giovani (che ai nostri concerti quasi non si vedevano, e quando dico giovani dico giovani per davvero, non trentenni) vanno probabilmente più volentieri a sentirsi un gruppo rap o ad un rave.

E rispondemmo anche se negli anni 70 uno avesse avuto internet, che con un tasto ti ascolti tutta la musica che vuoi, dove vuoi, quando vuoi, senza pagare una lira (e infatti le “radio libere” sono state fagocitate dai grandi network che mandano solo musica di persone che pagano per essere mandati in onda), e ultimo ma non ultimo se con una modestissima somma si fosse potuto volare in una capitale europea a vederti un megafestival con tutti i gruppi che ti eri sentito perchè volare a Stoccolma ormai costava meno di andare in macchina a Rimini (il tutto dopo non aver pagato nemmeno il disco), forse anche i nostri precursori degli anni 70 avrebbero trovato qualche difficoltà in più.

 

Da vedere.

Vado in videoteca, quella automatica, a noleggiare un dvd. Ce n’è uno che si chiama “SENZA FRENI”. 3 stelle e mezzo su “Mymovies”.

C’è anche la locandina, dentro alla videoteca automatica. Ci sono tante locandine. In tutte il tipo della videoteca scrive una roba per invogliarti. Robe del tipo “Thriller – Bello” oppure “Ben Kingsley da Oscar” o cose del genere.

Sulla locandina di “Senza freni” c’è scritto “DA VEDERE”. Non avevo mai visto la scritta “Da vedere”. Lo prendo.

Lo guardo.

Ho capito cosa significa “DA VEDERE”. E’ un modo breve per dire “Quando arrivate a casa non infilatelo mica nello stereo, mi raccomando”.

(Stasera suono al CORALLO di SCANDIANO (RE). Da vedere. Da sentire.)

Confessioni di un malandrino

“Consigliere confessa: sono gay” era il titolo che appariva qualche giorno fa su una di quelle belle locandine che ornano le edicole qui a Rubiera. Non ci si fa più caso ormai, non sembra più una cosa così grave, ma non è certo una bella cosa. Anzi, è una vergogna. Una vergogna bella e buona, secondo me.

Che avete capito? Non sto parlando di essere omosessuali. Se ci siete cascati, anzi, forse avete pure voi un problemino, sotto sotto.

Sto parlando di usare il verbo “confessare” in simili frangenti. In genere qualcuno che CONFESSA è qualcuno che ha fatto qualcosa di male che decise di scaricarsi la coscienza e stare in pace con essa. Un ladro, un assassino, un criminale in genere. Oppure uno che ha fatto un qualche torto ad un parente o ad un amico e non ci dorme la notte. La confessione presume che ci sia un COLPEVOLE. E come punto secondo presume che il colpevole L’ABBIA FATTA FRANCA.

Ma un gay, di cosa è colpevole? Non siamo nel 1800 e nemmeno nel 1967.

Si, nel 1967 essere omosessuali era un reato in un paese che vi lascio indovinare. L’iran? L’Arabia Saudita? Il Guatemala? Sbagliato. Era l’INGHILTERRA che proprio quell’anno abolì il reato di omosessualità. Incredibile? Beh, in Francia ci rimase fino al 1981. Siete caduti dalla sedia? No? Possiamo continuare.

Oggi essere omosessuale (per fortuna) è soltanto una scelta di gusto e come tale dovrebbe venire presa. Una cosa come scegliere i gusti del gelato (ok, cominciamo con le battutine) quando andate a cercare un poco di fresco in estate.

Vi immaginate un titolo di giornale “CONSIGLIERE CONFESSA: ADORO IL CIOCCOLATO” e nell’occhiello “Ha confessato che nelle vasche cioccolato-limone-fragola ha sempre cercato di fare lui le porzioni soltanto per il suo amore per il cacao: panico tra i familiari”. Ve lo immaginate?

E in effetti la cosa che fa riflettere non è tanto il verbo “confessare”. E’ il fatto che un giornale debba farci un titolo. Questo fa sì che implicitamente sia una cosa importante, una cosa che FA DIFFERENZA.

Voglio dire: Io conosco alcuni omosessuali. Non li ho mai visti rincorrermi con un preservativo in mano alla ricerca del mio buco del culo. Tantomeno le donne le ho viste con la lingua fuori alla ricerca di grandi labbra da spatolare intensamente en plein air davanti a tutti. Ed in effetti, non ho mai visto nemmeno gli eterosessuali farlo.  Son cose che si fanno, generalmente, in privato. Altrimenti siete degli attori porno.

Ricapitolando, cari giornalisti locali del cazzo: Quando uno dice di essere omosessuale, non CONFESSA. Al limite “dichiara”. E in secondo punto, quando uno dichiara di essere omosessuale, onestamente non me ne frega una benemerita. Se siete ossessionati dal sapere queste cose, probabilmente siete VOI ad avere un problema con il sesso.

(E per quelli che sostengono che l’omosessualità sia contro natura, non mi interessa se sia vero o no. Gli antibiotici sono contro natura. Dunque, ora che smetterete di prenderli, alla prima infezione intestinale o alla prima bronchite come si deve avremo finalmente risolto il problema delle teste di cazzo in eccesso sul pianeta terra?)

Quando la giornata indica la memoria, lo stolto guarda il calendario.

Nel 2006 sono andato a trovare il mio avvocato a Schwabhausen. No, che avete capito? Non ho un avvocato tedesco. Il mio avvocato è anche il mio migliore amico, si chiama Lara Mammi, è stato il mio testimone di nozze, adesso ci vediamo poco che è anche diventata mamma ma bastano trenta secondi e siamo sempre in sintonia. E’ la ragazza che vedete sulla copertina de “I sonnambuli” e nel libretto interno. Per gli uomini che stanno leggendo, si lo so. Gran gnocca. Ma non volevo dire questo.

Andai a trovarla a Schwabhausen, che è un paesino fuori Monaco dove lei era in vacanza insieme al suo ragazzo. Passammo tutti una serata in una birreria incantevole dove bevemmo come se non ci fosse un domani, facemmo amicizia con una tavolata di tedeschi (Ricordo distintamente solo uno che si chiamava FRITZ e che era stato al Lingotto a Torino e a Venezia. Poi c’era un altro tipo che beveva dei MASS (I bicchieroni da un litro di birra, avete presente?) di COCA E RUM. Ne avrà fatti fuori almeno cinque. Non scherzo. Era imperturbabile. La cosa mi sconvolse. Andammo a letto la mattina presto e ci svegliammo con il mal di testa, per dirla con Vasco Rossi.
La mattina seguente andammo al campo di concentramento di Dachau, che era nelle vicinanze. Non ci ero mai andato in un campo di concentramento. E dire che Fossoli è vicinissimo a casa mia. Girammo per il campo, vedemmo le camere dove dormivano i prigionieri, le dimensioni del campo davvero imponenti. Poi andammo a fare un giro dentro dove c’era una specie di museo con vari reperti d’epoca. Si andava dalla piccola utensileria ai giornali del tempo. In seguito, come gran finale, una bella scritta “KREMATORIEN” ti fa capire che ti stai avvicinando ai forni. Dopo il giro dei forni ce ne andammo.

Oggi quando sento che hanno istituito la giornata della memoria, dentro di me sento due cose. La prima è che sono contento che ci sia una “giornata della memoria” e la seconda è che “mi fa proprio incazzare che ci sia la giornata della memoria”.

Sembra una cosa da pazzi? In realtà, pensandoci bene, la cosa si può tranquillamente ricondurre a due cose che vidi quel giorno a Dachau.

La prima, quella che mi fa essere contento che ci sia una giornata della memoria, è che i ragazzi giovani si possano rendere conto di quel che era tramite la visione diretta di un campo di concentramento. Per quelli della mia generazione è stato un bel casino il fatto che gli insegnanti non ti spiegassero MAI il novecento in storia. In questo modo ci sono orde di quarantenni che oggi credono che Auschwitz sia stata liberata dagli AMERICANI, perché in tutti i film quelli che vanno a liberare qualcosa o qualcuno sono gli AMERICANI. Anche lo sbarco in Normandia lo hanno fatto naturalmente soltanto gli AMERICANI (i Canadesi, per dirne una, mica li vorrai contare?) e anche l’Italia l’hanno liberata tutta GLI AMERICANI. Che poi uno va a Pistoia e scopre che c’è un cimitero brasiliano e che l’hanno liberata i brasiliani e ci rimane malissimo.

Insomma, ristabilire le cose come stanno non fa mai male. Inoltre permette ai ragazzi di verificare il punto di rottura. Perché nei campi di concentramento hai sempre un punto di rottura. Il mio personale fu, lì a Dachau, quando vidi i forni crematori. Erano forni da pizza. Roba che ne dovevano incenerire al massimo 4-5 alla volta. Onestamente pensavo ad una cosa un poco più industrializzata. La dimensione “artigianale” del lavoro mi sconvolse. Di colpo mi sembrava di vederle lì, le scene. E’ una cosa difficile da spiegare, anzi impossibile. Il dottor Manicardi ad esempio, che lui è stato proprio ad Auschwitz, mi raccontò che il suo punto di rottura fu una stanza PIENA DI CAPELLI. Dalla porta alle 4 mura, dal pavimento al soffitto, solo CAPELLI. Guardate il vostro soggiorno e immaginatelo pieno di CAPELLI. Insomma, son cose che son convinto che lascino il segno.

Poi c’è la cosa che mi fa incazzare. Che corrisponde a quel che vidi a Dachau quando andammo a vedere i giornali dell’epoca. Ora, io parlo tedesco, non benissimo ma se vado in Germania so cosa mangio e un lavoro lo trovo, per darvi un’idea. Quindi un giornale lo leggo. I titoli dei giornali mi sconvolsero per il fatto che NON MI SEMBRAVANO NIENTE DI SCONVOLGENTE. Avete presente quei bei titoloni che fanno giornali tipo “La Padania” o “Libero” o anche “Il fatto quotidiano” delle volte, oppure “Il resto del Carlino”. Ad esempio, quest’anno in un giornale locale di Reggio si titolava “I CINESI CI RUBANO ANCHE IL PRIMO NATO DEL 2013” (Si noti il raffinato uso della parola “anche”).

Ecco, quello mi faceva incazzare. Il fatto che noi fossimo già pronti a ricascarci di nuovo. E allora mi incazzo come una iena (ma poi mi passa, sia chiaro) quando vedo tutto questo frinire di cicale in memoria delle vittime dell’olocausto. Perché poi sono le stesse persone che “io la roba dai cinesi non la compro”, gli stessi che “Oh, i neri puzzano. Non lo dico per essere razzista, è che hanno un odore diverso” oppure, ancora più subdolo, quelli che “Ti serve una badante per tua madre? Guarda, io ne conosco una che prestava servizio a mia nonna e che adesso è senza lavoro. E’ UCRAINA, PERO’ E’ UNA BRAVISSIMA PERSONA!”. Il tutto in un paese dove siamo ancora nel G8, dove c’è una crisi economica ma l’occupazione ancora tiene, eccetera eccetera eccetera.

I tedeschi hanno combinato il casino che hanno combinato anche perché erano usciti malissimo dalla prima guerra mondiale, dove li avevamo costretti a pagare un dazio che sapevamo benissimo dal momento in cui ci siamo seduti in quel cazzo di tavolo a Versailles (perchè la storia non comincia mica nel 1939, sia chiaro) che non sarebbero stati in grado di pagare. Infatti avevano una crisi economica talmente forte che lo stato era abbondantemente a ramengo e il tesoro emetteva banconote da VENTI MILIARDI DI MARCHI, che il giorno dopo andavano bene per pulirsi il culo. (Che guarda caso è quello che è accaduto pure in Jugoslavia prima che cominciassero a guardare se il colore del sangue tra le varie etnie fosse lo stesso, ma senza voler far la fila per il prelievo all’ASL e quindi si sono scannati che si faceva prima).

Per evitare di essere un domani i nazisti di noi stessi, credo che non serva dire MAI PIU’. Credo che serva ragionare un attimo tra passato e presente. Non basterà guardarvi “Schindler’s List”, che peraltro è un signor film.

La giornata mondiale del (Riempite voi lo spazio) è stata creata per ricordare. Se ne abusiamo, può diventare un ottimo alibi per dimenticare. Insomma, quando la giornata indica la memoria, lo stolto guarda il calendario.

Il voto è segreto

Mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) una volta quando ero piccolino mi porto con sè a votare. Non capivo cosa dovesse votare, lei mi spiego che erano le elezioni, che si andava a votare chi governava il paese, che c’erano i partiti e che ogni tanto c’era un giorno che dovevi andare a votare. Quindi prendemmo la macchina e andammo. Io non potevo votare, mi spiegò. Non avevo ancora 18 anni. Quando avrei avuto 18 anni avrei potuto votare anche io. Arrivati al seggio elettorale aspettammo in fila, poi ad un certo punto mia madre (proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) mi disse che dovevo aspettarla lì (immaginatevi una panchina con un carabiniere) che quando si votava si votava da soli, non si poteva entrare in due. Lei entrò e due minuti dopo ce ne andammo. Io, mentre aspettavo, avevo dato una guardata a tutti i simboli dei partiti con le liste appese ai muri e così quando mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) uscì le chiesi subito, ad alta voce come fanno i bambini “Mamma, chi hai votato?”. Il modo in cui rispose me lo ricorderò sempre. Mi disse “Shhhh. Il voto è segreto.”

Nel corso degli anni, a parte brevi periodi di infervoramento che penso siano fisiologici (alle elezioni del 1994 quando vidi il coso “scendere in campo” persi la testa, lo ammetto. Niente ti rende forte un’idea come un nemico. Ci ho fatto pure una canzone sopra, per fare ammenda) uno dei più grandi complimenti che mi son sentito fare è stato “Ma te per chi voti? Perché non l’ho mica capito”, cosa che mi viene ripetuta sempre più spesso in periodo elettorale e della quale mi vanto pure un poco, perché la vanità è un difetto che chi monta su un palco ha in un qualche cromosoma, probabilmente. A questa domanda io in genere rispondo come mi rispose mia madre. “Il voto è segreto” cari miei.

Ecco, invito tutti quelli che cominciano a stra-fracassarmi il cazzo (scusa mamma, lo sai che dico le parolacce) con le tribune elettorali da bar, oggi estese anche sui socialcosi in discussioni e liti più sterili di una garza in un ospedale, di piantarla e di tenere la bocca chiusa. Il voto è segreto e se non siete capaci di mantenere un segreto, allora di voi non ci si può fidare granché.

INTUDEUAILD – Ricordi.

(Dico il finale del film “Into the wild”, quindi se non l’avete visto e ci tenete smettete di leggere.)

C’è una scena di “INTO THE WILD”, il film di Sean Penn sul tipo che va a vivere in mezzo ai boschi, dove il tipo che va a vivere in mezzo ai boschi e che è un tipo figlio di genitori benestanti, che vogliono che il tipo che va a vivere in mezzo ai boschi faccia l’università e poi si trovi un lavoro come si deve invece di andare a vivere in mezzo ai boschi, dicevo c’è una scena dove il tipo abbandona tutto e si dedica al vagabondaggio per prepararsi meglio ad andare in mezzo ai boschi. C’è una scena dove lui brucia dei soldi. Prende delle banconote e le brucia. E poi inizia a girare a caso, scroccando da dormire e da mangiare, che tanto tutti gli vogliono bene. Trova un paio di fricchettoni che lo ospitano e gli vogliono bene, trova una strafiga che casualmente gliela molla lì, anche perché nel film lui è uno strafigo pure lui.

Non è che il tipo va dai fricchettoni con quella mazzetta di banconote e gliele allunga dicendo “Tutti amici”. No. Le brucia. Così. Un simbolismo da Mallarmé alla quarta pinta di Guinness.

Poi il tipo, che per tutto il tempo è stato nella “società civile” a farsi i cazzi suoi che tanto il mondo andava avanti e lui si poteva attaccare alla mammella di qualcuno quando gli pareva (anche a quella della strafiga), ad un certo punto va finalmente nei boschi. A contatto con la natura aperta, lui e la natura da soli. Into the wild.

Il tipo dura due ore, in mezzo alla natura. Ammazza un animalazzo gigante ma non sa come conservarlo e quindi spreca tutto quel ben di Dio. Poi mangia delle bacche che non sa essere velenose e schiatta. Perché con la natura non si scherza, la natura lo sa benissimo quando la tua è una velleità e comunque anche se non lo sa non è che gliene frega niente. La natura non è madre, è matrigna. Ed è anche un poco zoccola.

Usciti dal cinema, ricordo alcune frasi sentite a mezz’orecchia su “La bellezza della natura” sugli “spazi sconfinati”, su “Ma però deve essere bello vivere così”, con quello sguardo trasognato di chi tanto poi torna a casa sua, in città. Dove accende il computer, la tv, la lavastoviglie, la lavatrice, il forno a microonde. Che son cose fighissime, sia chiaro. Infatti una volta arrivati a casa rimane giusto la colonna sonora di Eddie Vedder.

Il tipo che voleva andare nei boschi invece, alla fine si vede la foto vera del tipo che è andato a morire nei boschi.

Bel coglione.

 

 

 

L’isola dei famosi (The recruiting sergeant)

Tra poco ci saranno le elezioni. Nascono partiti come funghi. Ora si chiamano “Movimenti” perché la parola “Partito” fa schifo e puzza, ma in realtà sono “Partiti”. Nel senso che hanno cominciato. E la cosa, se ci pensate, è poco rassicurante. Ve lo dicono in faccia, che sono partiti? No, preferisco tenervi sulle spine. Sono “Movimenti”. Si stanno muovendo, se partiranno ve lo diranno poi. Intanto si muovono. E’ come quando avete qualcosa nello stomaco che vi arreca fastidio e non sapete se mangiando qualcosa vi passi o vi aumenti. Tu chiamali, se vuoi, “Movimenti”.

In periodi di cambio generazionale della politica i movimenti si moltiplicano. Ognuno pensa che forse è la volta buona e che quando grande è la confusione, si può pure tentare. Qualcuno ci potrebbe cascare. Ma non è di questo che voglio parlare.

Voglio parlare del reclutamento. Lorsignori parlano della “scelta” degli uomini e donne più capaci per “guidare il paese fuori dalla crisi”. A dirla tutta, più passa il tempo e più mi convinco che la “crisi” sia una condizione permanente, come la guerra in “1984” di Orwell. Serve da giustificazione per ogni porcata che tolga spazio allo stato sociale. Ma non è di questo che voglio parlare.

Dico “reclutamento” perché la scelta presuppone che si prendano le menti migliori. Invece il “reclutamento” indica bene come si vada a pescare nel mucchio quelle che sono vere e proprie calamite da voto, specchietti per le allodole. Il metodo è più o meno quello de “L’isola dei famosi”.

Un metodo del genere portò Berlusconi a mettersi dietro soubrettes, attricette e cose simili. Ci siamo trovati Ferrara ministro (“La cosa più bella di Ferrara è la Spal. E gioca in serie C” disse mio fratello all’epoca), ci siamo trovati la Carfagna ministro (“La cosa più bella della Carfagna non la posso vedere se non in fascia protetta” disse un mio collega) e la Carlucci parlamentare (“La cosa più bella della Carlucci è quando non c’è” disse non so chi, riferendosi probabilmente a Milly).

Insomma, la destra reclutava persone in grado di dare un’immagine familiare e rassicurante di allegria e spensieratezza. Il tutto con calciatori e sportivi (Alberto Cova, il campione che si faceva cambiare il sangue da Conconi e quando ha smesso di farlo non entrava più neanche in una finale. Pietro Mennea, la “freccia di Barletta”, Iva Zanicchi, Ombretta Colli e cose così).

Anche a  sinistra  si attua, a volte lo stesso metodo. Gigliola Cinquetti (che adesso l’età ce l’ha), il calciatore Massimo Mauro, cose così. Ma a sinistra prevale un altro metodo ancora più subdolo, un metodo che definirei “parafulmine”. Visto che a sinistra si è per definizione diversi e si è più intelligenti e più profondi di pensiero, visto che si è più solidali eccetera eccetera eccetara… Ecco, a sinistra si prediligono le disgrazie. Perchè siamo di sinistra e noi siamo “cuori agitati nel vento” come cantava Leonard Cohen (o Ramazzotti? Va bene, non stiamo a sottilizzare, non è questo il punto).

A sinistra si prende il protagonista di una disgrazia e lo si candida. Se non puoi farlo con lui direttamente, allora si prende uno dei suoi parenti. L’essere parente di un morto celebre automaticamente ti fa diventare un genio, uno che risolve tutti i tuoi problemi, uno capace di decidere su scuola, sanità, amministrazione, tutto. E guai a dire qualcosa, perché mica vorremmo togliere il diritto ad un disgraziato di essere eletto “come qualsiasi italiano”. Mica hanno meno diritti degli altri? Certo che no. Però il discorso mi ricorda molto quello dei figli dei registi e degli attori che guarda caso fanno i registi e gli attori anch’essi e poi ci chiediamo perché quando gli stranieri parlano del nostro cinema dicono “Rosi, Fellini, De Sica” (Non intendono Cristian De Sica, almeno credo). Inoltre, cari “Sergenti reclutatori”, mi chiedo come mai queste menti illuminate non siano apparse in tutto il loro splendore prima della disgrazia di turno. Come mai ve ne siete accorti soltanto dopo, voi che avete in mano il termometro del paese (e per provarci la febbre siete soliti infilarcelo là, come si fa con i cani)?

Per fare qualche esempio. Come mai Rita Borsellino è stata candidata soltanto nel 2005, quando suo fratello è stato disintegrato nel 1992?  Nel 92 lei aveva 47 anni. Era forse troppo giovane?

Certamente Sabina Rossa era troppo giovane nel 1979 quando le Brigate Rosse uccisero suo padre (aveva solo 17 anni) e si è dovuto aspettare il 2006 per candidarla. Ma come mai è finita alla sesta commissione permanente Finanze e Tesoro, lei che è laureata in Scienze Motorie e diplomata all’Isef? Dovevano fare sedute di stretching mattutine prima di cominciare? Il sospetto di una candidatura di facciata, francamente, affiora.

Giuliana Sgrena è stata candidata nel 2009 per “Sinistra e Libertà”. Venne rapita nel 2005, nelle circostanze ancora oscure delle quali tutti abbiamo sentito parlare. Scriveva per “Il manifesto” dal 1998 e anche per “Die Zeit”, pregevolissimo giornale tedesco. Insomma, una mente fine. Come mai ci se ne è accorti solo nel 2009, cari i miei segretari di partito? Viene francamente il sospetto che il suo merito, “partitocraticamente parlando”, sia stato quello di farsi rapire.

Parole grosse che però sembrerebbero confermate dal tentativo recentissimo del PD di candidare Rossella Urru. Circostanze analoghe a quelle della Sgrena (Un rapimento) e PUFF… ecco la candidatura pronta. Parola di Franco Marras, responsabile del PD in Sardegna che già due mesi fa (Secondo il “Sardinia Post”) aveva incontrato a Samugheo la Urru dicendole che era pronta per lei una poltrona. La Urru però ha detto no. Ma passano due mesi e il PD ci riprova, con pressioni da parte del segretario nazionale. La Urru risponde ancora picche, dicendo che per lei “Non è il momento opportuno”. Perché quando sarà il momento opportuno state tranquilli, una poltrona arriverà. Naturalmente prima del rapimento la Urru non era nei piani del PD né di nessuno. Non era un “nome”. Non era “spendibile”.

Ecco, io dei parafulmini mi sono rotto il cazzo. Tuoni e fulmini, lampi e saette. Basta con le candidature dei VIP e con quelle delle “VIPTTIME”, per parafrasare un bel libro chiamato “Ricordare stanca” di Massimo Coco, figlio di un giudice assassinato delle BR.  Avete visto com’è semplice usare qualcuno da parafulmine? L’ho appena fatto. Funziona sempre.

(Mi viene in mente sempre la coppia Gaber-Luporini quando disse “Un politico qualunque, basta che gli abbia sparato un brigatista e diventa subito statista”. Non sto criticando la possibilità di candidarsi di nessuno. Non sto criticando le vittime del terrorismo o quelle di mafia e i loro parenti. Semplicemente chi usa questa sofferenza per scopi strumentali mi fa schifo. Lo dico perché di solito “Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Lo disse Confucio. Fosse vivo, la cittadinanza italiana in 24 ore trovando un finto nonno di Reggio Calabria e uno scranno al Senato non glieli leverebbe nessuno.)

 

E se fossimo noi a dare l’esempio, una volta tanto?

Il calcio mi piaceva tantissimo e ora non lo guardo più. Magari mi capita pure di vedere una partita, ma in generale non lo guardo più. L’ultima partita che ho guardato intera è stata Italia-Germania agli ultimi europei, ma forse giusto perché ero in vacanza e me la son vista in agriturismo, con un paio di birre in mano mentre cenavo in totale relax. Per dire, nel 2006 durante la finale del mondiale, quando ho visto che andavano ai rigori mi sono messo in macchina per tornare a casa. Così schivavo il casino, che secondo me una finale del mondiale non deve finire ai rigori. A dirla tutta, nel 1994, quando perdemmo contro il Brasile, sentivo tantissimi che la pensavano così. Ovviamente adesso la pensiamo diversamente :-)

A me il calcio piaceva. Tanto. Tantissimo. Pensate che ogni tanto guardo su Youtube, per nostalgia pura, come fanno i tossici, le partite del mondiale 74 o delle vecchie coppe europee. Non perché “Una volta il calcio era pulito”, che non ci credo. Semplicemente perché ogni tanto ho nostalgia dei giorni in cui io guardavo il calcio in quel modo lì. So dirvi tutti i risultati delle finali dei campionati del mondo (a parte gli ultimi due forse, avevo già smesso), spesso con i marcatori, se vi si rompe wikipedia chiedete a me. Non scherzo.

Il calcio ha un grosso problema, secondo me. Il tifo. Io il tifo non l’ho mai capito del tutto. Capisco sì… Ma penso che allo stesso tempo sia un’abitudine che dovresti cercare un poco di toglierti, come tracannare una bottiglia di rosso a cena o fumarti 20 sigarette al giorno. Non ho mai capito, nemmeno da piccolo, perché uno debba scegliersi una squadra a 4 anni o giù di lì e poi tenersela tutta la vita. Mi sembra che sia un poco come i matrimoni combinati in India. Una puttanata micidiale. Si lo so…”LA FEDE”. A parte che la fede è quella cosa che vi fa credere che una donna vergine possa partorire un figlio (se capitasse a vostra moglie vedi dove ve la mettete la fede) oppure che non potete mangiare carne di maiale (il pollo sì, il maiale no. Siete ben strani…) e poi per me “la Fede” è una mia collega che fa l’oltremare, che vi devo dire? Se l’avete scelta a 4 anni è UN TRAUMA INFANTILE.  Tipo aver visto i vostri genitori che scopano, cose così. Riuscire a rimuoverlo quanto prima è indice di sanità mentale. Poi certo, gli individui maschi si tengono tutti il trauma e quindi alla fine è una cosa socialmente accettata, ragion per cui non è che la meni tutti i giorni e riesci comunque ad andare d’accordo con persone che in questo trauma infantile ci sguazzano. Nella mia vita sono riuscito ad andar d’accordo con tossici da eroina, gente che votava Rauti, miserie varie. Figurati uno che ha una malattia che ho avuto anche io, facilissimo.

Comunque: in questi giorni è successo che un giocatore del Milan sia stato offeso da qualche coro razzista o cose del genere e la squadra abbia lasciato il campo. Un gesto simbolico. Un grande gesto. Era ora, ho pensato. Poi si è saputo che era una partita contro la Pro Patria che non contava nulla. Il sindaco di Busto Arsizio (Gigi Farioli, si chiama) ha posto l’accento su questo, dicendo che “Al Bernabeu non sarebbe successo”. Può essere. Sicuramente quando non ci sono interessi economici pesanti in gioco è più facile, esattamente come il Farioli avrà dovuto metaforicamente ingoiare qualche barile di merda ogni tanto, altrimenti qualche azienda del varesotto delocalizzava. Plausibile, no? Diciamo che in genere, almeno secondo me, quando la tua città fa una figura di merda e tu sei sindaco, ti prendi la figura di merda e te la porti a casa, ma saranno cazzi di quelli di Busto Arsizio che il Farioli se lo vedono tutti i giorni in giro.

In questi giorni si parla molto di questa cosa e si discute proprio su questo. Le fazioni si dividono in chi dice che il Milan “ha fatto bene e basta” e chi invece dice che la scelta è ipocrita perché “Al Bernabeu non sarebbe accaduto”. La cosa è pesantemente influenzata dall’essere o meno tifoso del Milan. Se fosse stata la Juve, l’Inter, il Torino, il Pizzighettone, sarebbe identico. La cosa è palesemente influenzata dalla tifoseria. Pensi a quello che fa più comodo, esattamente come i rigori del 1994 e quelli del 2006.

Intanto si noti la genialità di spostare il punto della questione così che il problema non venga affrontato; infatti, invece di parlare delle curve degli stadi dove l’ultradestra va ad arruolare vere e proprie orde di miliziani armati fino ai denti, si punta il dito verso “Il negro” che sarebbe ipocrita. Lui. E così il dito resta puntato su di lui e noi siamo comunque assolti.

Ecco, secondo me l’ipocrisia sta invece in casa nostra. Mentre discutete in tutti i bar, in tutti i luoghi di lavoro, dappertutto insomma… Chiedetevi cosa farete VOI la prossima volta che sentite un “BUUUU” oppure diecimila persone che imitano il verso di un gorilla non appena un africano tocca palla. Perché cari miei tutti, forse sarebbe il caso di abbandonare VOI il campo. Anche se la partita va avanti. Uscite dallo stadio. Spegnete la tv. Non andate per due o tre domeniche nel bar che fa vedere la partita e che paga l’abbonamento a Sky. Spiegate anche il perché. Spiegate che vi dispiace, ma state provando a disintossicarvi.

A cosa potete rinunciare, per dare l’esempio?

La festa delle forze armate, Neil Young, Treni.

Ho fatto il servizio militare.
E sti cazzi, si lo so.
Ho fatto il servizio militare quando era ancora obbligatorio. Quando dico questa cosa qui mi sento dire per il 99% delle volte “Tu? Non lo avrei mai detto.” Sono partito dalla stazione di Modena il 19 Agosto dell’anno di grazia 1993 verso Trieste, primo reggimento fanteria San Giusto. All’epoca c’era la guerra in Jugoslavia, anzi in Iugoslavia con la I, come era scritto sui cartelli stradali di Trieste appena usciti dalla stazione e montati in cima al pullmann che ti portava in caserma. Primo Reggimento Fanteria “San Giusto”. Quando arrivi il primo giorno e vedi dei cartelli con scritto “Iugoslavia” bianchi e blu come quelli dove a casa tua vedi scritto paesini come “Portile” oppure “Prignano sulla Secchia” qualche brivido lungo la schiena ti viene. E quando arrivi in caserma e senti dire “Il primo che fa casino lo mandiamo in Iugoslavia” finisce che stai zitto. Quelli che oggi dicono che loro non hanno pensato “E’ meglio che sto zitto” neanche per un attimo, erano quelli che non respiravano neanche per paura di finire oltre la dogana di Fernetti. Finì che ci andammo a sparare, in iugoslavia. Un’esercitazione al poligono dove sparavamo e tiravamo bombe a mano, perché ogni tanto bisogna pur distrarsi con un sano divertimento virile, finì per portarci esattamente sul confine e alcuni di noi che erano andati in ricognizione il giorno precedente a piantonare la zona si trovarono accanto ad un villaggio dove in agosto c’era una festa popolare e finirono per andare a bere qualcosa con le ragazze del posto. Dopo il periodo al Centro Addestramento Reclute ci fecero giurare (quelli che dicono di aver detto cose diverse da “Lo giuro” vanno inscritti nella categoria dei mentitori patologici, gente che ha una vita talmente noiosa che è costretta a inventarsi balle su queste cose qui) e dopo qualche giorno fui mandato a Montorio Veronese, 14° Reggimento Autieri di non so che cazzo, Caserma DUCA. Una roba enorme di 8 km di perimetro con 14000 (quattordicimila, porco mondo) persone. Dopo 6 giorni chiamarono il mio nome a parte in adunata e venni trasferito ad una caserma che non conoscevo per niente. In tanti nei giorni precedenti erano stati trasferiti in parecchi posti, in tanti erano stati trasferiti a Padova ma tutti in due caserme chiamate “Salomone” dove si diceva che si stava benissimo e in una chiamata “Pierobon”, dove si diceva che “facevi i botti” (che significa che ti saresti fatto il culo come una capanna) perché era una caserma operativa. Sul mio foglio di via c’era scritta una roba che non ricordo. Ricordo solo che non si capiva dove fosse e quando lo chiedevo nessuno me lo sapeva dire, neanche tra gli “anziani”. In molti iniziarono a dire “E’ la Pierobon” e visto che basta che uno dica una stronzata convinto che tutti gli vanno dietro, in breve tempo quella sembrò a tutti (me compreso) l’opzione decisamente più probabile. Andai a Padova con una certa dose di disperazione. Alla “Duca” mi ero portato la chitarra acustica dietro, convinto che sarei stato sempre lì. Ora mi toccava partire e arrivare da “rospo” in una caserma operativa con una chitarra in mano. L’ideale per venire preso di mira subito. Partii, comunque. Quando arrivai alla Pierobon il tipo che c’era in porta centrale mi disse “Guarda che non è mica qui, che devi venire. Devi andare alla Caserma ROMAGNOLI. E’ 300 metri più avanti, sulla sinistra” (Imparai presto che a Padova c’erano più caserme che bar, a momenti. Arrivai a questa “Romagnoli” carico di speranze e incertezze. Intanto la Pierobon era schivata, ma chissà cosa mi toccava, pensavo. Entrai in porta centrale con gli zaini e la chitarra nella custodia. Mi fecero aspettare in porta centrale dove stava montando la guardia e il capoposto era un sergente maggiore con i riccioli biondi. Avevano tutti mimetiche sporchissime e il tipo mi ricordava vagamente MASH (la serie televisiva non il film. Non chiedetemi perché ma questo particolare mi sembra degno di nota). Mentre aspettavo in rigoroso silenzio il capoposto vide che ero piuttosto ingessato e quindi mi disse di sedermi e rilassarmi, poi mi prese la chitarra e disse “Questa qui è requisita”. Ora, io non so se avete presente quando mi dicono che mi prendono la chitarra e chissà cosa le succede e che io magari me la ritrovo in due pezzi. Il mio sguardo si fece serio, non dissi niente ma stavo all’erta. Poi il sergente tirò fuori lo strumento dalla custodia e abbozzò due o tre accordi. A quel punto il corpo di guardia si elettrizzò per le mirabolanti imprese chitarristiche del ricciolone, commentando come solo in una caserma si può dire. Dopo quei tre o quattro accordi il sergente mi guardò e mi disse “Ma la sai suonare?”. Io risposi di sì, un poco intimidito. Lui mi disse “Di Neil Young sai qualcosa?”. Risposi di nuovo di sì e questa volta feci partire un sorriso decisamente sollevato e complice. A quel punto il biondo fece tacere l’intero corpo di guardia e poi disse “Suonami un pezzo di Neil Young, sentiamo.”. Io chiusi gli occhi e suonai seduta stante e senza pensarci due volte “The needle & the damage done”. Ora, non per fare il figo, ma io la faccio dannatamente bene o almeno la facevo dannatamente bene nell’inverno del 1993. Ricordo che durante quell’estemporanea esecuzione non volò una mosca e alla fine partì addirittura l’applauso. Il sergente ci rimase di sasso e cominciò a richiedere un pezzo di Dylan, poi arrivò quello che chiedeva l’immancabile “Wish you were here” dei Floyd, poi si passò a Vasco Rossi (Conoscere canzoni di Vasco Rossi in situazione di aggregazione forzata aiuta tantissimo a ottenere protezione, se avete in mente di commettere un crimine e avete paura di venire beccati e finire in galera consiglio di metterne sotto almeno cinque o sei) e poi tutto quel che capitava. Fortuna che io ad orecchio giro abbastanza bene. Restai fino al giorno prima del congedo (che ritirai a Montorio Veronese il 6 agosto 1994, 49 anni esatti dopo Hiroshima) alla Caserma Romagnoli, dove venivo spesso scelto per fare i picchetti d’onore all’esterno perché prendevano i più alti, ché “bisogna far vedere che i soldati sono tutti alti che altezza è mezza bellezza” (Questa la diceva un tenente che fuori dall’esercito non avrebbe trovato lavoro neanche come “spugnetta per francobolli”). Il primo di questi picchetti lo feci il giorno 4 Novembre, quando quel figlio di buona donna del Capitano Volpe (Salve Capitano, se sei ancora vivo, spero che tu abbia male ad un ginocchio per 10 minuti al giorno e ti venga in mente il mio nome) mi revocò una licenza perché ero alto e mi mandò a fare un picchetto d’onore a Villa Pace, esattamente dove il 4 Novembre di 75 anni prima era stato firmato l’armistizio della prima guerra mondiale.

(Ringrazio ogni singolo soldato dell’esercito per farsi uccidere al posto mio per ogni controversa geopolitica che coinvolge questo paese. Con quello che costate, soprattutto dopo tutte le ruberie e sprechi e inettitudini viste in un anno di militare, mi sento di poter dire che con un “grazie” siamo pari. Sabato 10 Novembre 2012 alle 15:30 suono a Fontana di Rubiera per 30 minuti, facendo soltanto pezzi di Neil Young, per festeggiarne il compleanno. Alla sera sono vicinissimo alla stazione dei treni di San Felice sul Panaro, in quel gran posto chiamato IL PASTEGGIO A LIVELLO, che con il mio servizio militare non c’entra nulla, ma ci terrei molto che veniste.)

“Se non hai capito chi è il pollo, il pollo sei tu” – Crowdfunding, Kickstarting e quelle robe lì.

Premessa: Non ho niente contro la modernità, le idee nuove, i cambiamenti in un sistema. Mi trovo pienamente d’accordo con chi dice che “Le tradizioni sono soltanto innovazioni riuscite molto bene”. Le prese di posizione ideologiche le odio. Ma odio anche le prese per il culo e ultimamente mi è venuta in mente la battuta del pollo quando ho sentito questa parola: CROWDFUNDING.

“Crowdche?” qualcuno si sarà chiesto. Ecco, già qui…Il Crowdfunding è il nome che gli americani hanno dato ad una pratica vecchia come il mondo. Una volta si chiamava COLLETTA. Solo che, come dice Guccini nell’introduzione di “Statale 17” nel live con i Nomadi (andatevela a sentire, si ride) “Gli americani ci fregano con la lingua”.

In pratica, applicato in campo musicale, gli artisti o sedicenti tali manifestano l’intenzione di partire con un progetto (un album, un video, le magliette della band, qualsiasi cosa) e chiedono, tramite agenzia (particolare non di poco conto) un finanziamento ai loro fan o a chiunque passi di lì. In cambio offrono cose come chiacchierate via skype, copie dei dischi autografate con dedica, accessi al backstage dei concerti e agli studi di registrazione, cene con la band, crediti sui dischi, eccetera.

Ecco, la cosa che mi inquieta è che ci siano delle agenzie che fanno questa cosa qui. In pratica invece di chiedere i soldi tu, loro ti fanno da cassa di risonanza e per questo servizio si tengono il 15% di quanto corrisposto dai fan.
Se il progetto non va a buon fine non si fa niente e si ridanno i soldi indietro. Il tutto in nome della partecipazione diretta del fan e del legame rafforzato con l’artista, ça va sans dire.

Ora, non è che ci sia niente di male a chiedere dei soldi, anche se i nostri genitori hanno sempre sperato che non fossimo costretti a fare l’elemosina per campare e anche noi speriamo lo stesso per i nostri figli.
I punti che mi lasciano perplesso sono altri e li vado ad elencare.

1. Non mi piace che chi ti chiede dei soldi faccia passare la cosa come un favore che lui ti fa, “per farti partecipare”. Se vuoi partecipare alle spese di un disco, lo compri. Che infatti è quello che fai anche con il “crowdfunding”.
2. Non conosco NESSUNA ditta in nessun rapporto meramente commerciale che arrivi ad avere la faccia tosta di ricompensare i propri clienti più affezionati riducendo loro i termini di pagamento. Sia che vendiate piastrelle, profilati in alluminio, piante, dischi o quello che vi pare…ma ve lo immaginate un fornitore dire ad un cliente “Guarda, solo perché sei tu ti faccio un trattamento speciale. Ti ricordi che pagavi sempre a consegna ricevimento merce? Bene, da oggi puoi pagare anticipato. Ma se fallisco ti ridò i soldi, non preoccuparti”. Se qualsiasi cliente si sente fare una proposta del genere penso che cambierà fornitore in meno di dieci secondi. Il fatto di “sentirsi partecipe” mi sembra la classica pacca sulla spalla che il venditore ti dà mentre ti sta abbindolando.
3. I vantaggi per i fan: accessi al backstage, chiacchierate esclusive via skype, crediti sui dischi, copie autografate, persino un indumento del cantante. Tralasciando il feticismo malato (viene in mente quello che frugava nella spazzatura di Bob Dylan e da lì a Mark Chapman il passo non mi sembra così lungo), ho riflettuto su una cosa. Ma tutte queste cose, si pagano? Un gruppo che si definisce “indipendente” (ecco perché dico che oggi questa parola si usa a sproposito e sarebbe meglio dire “povero”) certe cose non dovrebbe concederle gratis, secondo la propria coscienza?
I crediti sui dischi: ci mancherebbe altro che non mi ringrazi, ti sto pagando in anticipo e magari farai un disco che mi fa schifo.
Chiacchierate esclusive via Skype: In pratica da domani se vuoi parlare con i (riempite voi lo spazio) lo fai a pagamento, come negli 144 e nei telefoni erotici. Se paghi allora parli con me, altrimenti ciccia. “Finito soldi, finito amore”.
Accessi al backstage: A parte che i backstage del circuito indipendente sono difficili da sfondare come un panetto di burro per una katana, capisco che magari vuoi esser lasciato solo oppure hai voglia di fare due chiacchiere dopo due minuti che sono lì. Deve essere proprio il soldo a regolare questa pratica?
Autografi sui dischi: In pratica un poco come se dopo un concerto comprate il cd e alla richiesta “Ciao, mi puoi fare la dedica?” vi rispondono “Hai cacciato la grana?”.

Un’altra cosa che stupisce è l’entità dei finanziamenti, roba che il microcredito in India sembra un mutuo per la casa, a confronto.
Infatti non si fa che ripetere da tempo che oggi fare un disco è alla portata di tutti visto la riduzione dei costi di registrazione e la tecnologia in ogni casa e blah blah blah. Ed è vero, badate bene. Non a caso oggi tutti stampiamo cd, cosa che una volta era impensabile. Così capita di vedere gruppi di 4,5,6 persone che chiedono finanziamenti di 500-1000 euro. Se siete un quintetto e chiedete 1000 euro, per dire… Possibile che non abbiate 200 euro a testa da spendere in un progetto al quale sembrate credere così tanto?
Ve lo dice uno che ha investito soldi da solo nel primo album in italiano e da allora pubblica un disco all’anno riutilizzando i soldi della propria attività concertistica. Che quando gli chiedono un autografo (succede, incredibile vero?) è contento come una pasqua e lo fa con gioia, senza chiedere soldi a nessuno. Che va a cena con chi vuole, non con chi anticipa i soldi per lui. Che le chiacchierate via skype le fa con chi gli sta simpatico. E’ così difficile?

Ma ammettiamo che questi soldi effettivamente non ci siano. Che i vari gruppi coinvolti siano indigenti e non riescano a superare la soglia della povertà.
Come ho già detto non c’è niente di male a chiedere dei soldi se ci si trova con le pezze al culo.
Ma chiamatela “elemosina”, la stessa che si chiede ai bordi della strada, non fatelo passare per un favore. La zingara davanti al supermercato non lo fa, mal che vada si mette un cartello con scritto “Devo mangiare”. E’ più onesto.

Quanto al giusto nome per chi fa la cresta del 15% su chi chiede l’elemosina trovatelo voi, io di beccarmi una querela non ne ho voglia.

Forse una cosa buona, questa iniziativa però ce l’ha. Far si che non venga più rivolta la noiosissima domanda “Ma tu campi di musica o hai anche un altro lavoro?”. In questo potrebbe essere un’opera meritoria. Se volete un consiglio, però, qualora abbiate aderito a uno di questi progetti e sentire odore di pollo alla diavola, controllate di non avere uno spiedo infilato da qualche parte.