Ci son dei giorni

…che ci si sente come dei sacchetti di plastica, di quelli usati per contenere i cibi che si chiudono con il nastrino. Ci son giorni che ci si sente come quando il cibo non c’è più, il nastrino non si trova più e rimane solo un sacchetto vuoto con qualche goccia di condensa dentro, che manco si riesce a richiudere e allora ti chiedi se sia il caso di riutilizzarlo oppure fregarsene e buttarlo via.

E’ passato un mese.

Un mese fa moriva una ragazza in un attentato a Brindisi. In tanti, non appena appresa la notizia, hanno cominciato a scrivere che era un segnale per “non fermare il cambiamento”, sono andati a mettere messaggini sulla bacheca di Facebook della malcapitata, hanno organizzato fiaccolate per “resistere, resistere, resistere” e sempre con le loro belle bandiere in evidenza e le dichiarazioni vuote di circostanza. Insomma, in tanti hanno preso un cadavere ancora caldo e con la più totale mancanza di rispetto lo hanno tirato per la collottola e straziato verbalmente per i loro biechi e meschini interessi. I peggio son quelli che manco lo sanno perché lo facevano, però intanto lo facevano. Gente che ha una vita talmente noiosa che passa sul cadavere di chiunque pur di poter sentirsi una piccola elevazione morale dentro al petto per qualche secondo. Lo scrissi immediatamente, lo ripeto oggi che sembra, questa storia, solamente una tragedia come tante altre e maledettamente stupida nella sua genesi. Vergognatevi, vergognatevi e ancora vergognatevi. La prossima volta abbiate il pudore di tacere e riflettere. Gli sciacalli, quelli che riportano indietro il paese di cent’anni, siete voi. Avrete pure un I-Phone, una connessione Wi-Fi e non so che altro, ma siete soltanto pronipoti delle scimmie.

Criceti (Per confondere un uomo non c’è metodo migliore che farlo lavorare ogni giorno sulle nove o dieci ore)

A molti capita di lavorare nove o dieci ore al giorno. Basta mezz’ora in più al mattino e mezz’ora in più al pomeriggio. Mica stiamo a guardare la mezz’ora, mica siamo dei “fannulloni”.

A molti capita che non siano pagate. Mica stai a guardare la mezz’ora, mica sei un “fannullone”.

Ebbene, un’ora al giorno (più o meno) fanno, calcoli alla mano 30 giorni di 8 ore all’anno (più o meno).

Un mese tondo tondo, più o meno. Mica ci stiamo a guardare, mica siamo “fannulloni”.

Soltanto, cari datori di stipendio, sappiate che sappiamo benissimo che siamo NOI che vi stiamo facendo un favore.

Quindi, quando ci capita una giornata nella quale ce ne andiamo via in orario anche solo perché ne abbiamo i maroni pieni, potete prendervi le vostre espressioni sdegnose, i vostri commenti non appena varchiamo la soglia, le vostre accuse di cinismo, le vostre filippiche da due soldi e i vostri sguardi increduli…e infilarvi tutto dritto nel buco del culo.

Buon primo maggio. (Se otto ore vi sembran poche)

L’anniversario dell’unità d’Irlanda e le caramelle dagli sconosciuti (Quando è moda è moda)

Quando ero piccolo piccolo ci insegnarono che l’unità d’Italia era una cosa importante e Garibaldi era un eroe, perchè l’Italia era la “Patria”, con la “P” maiuscola.

Poi, crescendo, ci dividemmo in quelli che della “patria” non gliene importava un granché e quindi la P diventò minuscola, a parte quando giocava la nazionale…e in quelli che invece la “Patria” era come la mamma (con la “m” come volete che tanto di mamma ce n’è una sola).

Quelli che…la “Patria” con la “P” maiuscola…in genere erano di destra.

“Fascisti” li si chiamava ancora, poi “missini” che non capivamo cosa volesse dire ma si diceva così per non offendere, un poco come si diceva “squillo” e “passeggiatrici” alle puttane perché così lo potevi dire in mezzo alla gente senza che nessuno urlasse.

Quando ho fatto il militare ho giurato che ero pronto a morire per la patria. Mica ci credevo, però quando sei lì non è che stai a sottilizzare, tanto lo sai che mentre urli “Lo giuro!” stai pensando “Dai che vado a casa in permesso”.

A proposito: Quando incontrate uno che vi dice che lui ha urlato “L’HO DURO” o cose del genere, sappiate che quello lì è quello che ha urlato “LO GIURO” più forte degli altri, perché così se qualcuno faceva il furbo non venivano a cercare lui. E’ un coniglio con un vestito da spaccone di seconda mano. Se tu che leggi sei donna e vai a letto con uno così, se poi ti cresce un figlio stupido non ti lamentare troppo, ok?

Comunque, durante il militare era pieno di destrorsi, soprattutto tra i militari di carriera. “La Patria” era chiaramente una cosa nostalgica, una cosa di “quando c’era lui” eccetera eccetera. Quelli che facevano quei discorsi lì sembravano anche un po’ poco normali, ai miei occhi.

Poi è arrivata la Lega Nord al governo, proprio mentre facevo il servizio militare. Pian piano a destra c’era chi la patria la voleva tagliare in due, chi avrebbe messo un muro a Roma, poi a Firenze, poi a Bologna, poi a Mantova, poi a Milano, finisce che oramai si fa il principato di Como e Varese.

A quel punto, quatta quatta, la sinistra (alla quale della patria non è mai fregato granché) ha cominciato a dire che l’Italia era una e indivisibile, che la costituzione…, che il senso dello stato…e un bel giorno ci siamo trovati che la “patria” era un concetto di sinistra. I destroidi ci sono anche rimasti male, poveretti. Hanno dormito un attimo ed ecco che si sono trovati la loro “Patria” in mano ad una accozzaglia che vuole il matrimonio omosessuale, la droga libera e altre cose meravigliose che però io con la sinistra al governo non ho mai visto ma sarà un problema di diottrie.

L’appropriazione indebita del concetto di “Patria” (ora con la P maiuscola) si è consumata definitivamente un anno esatto fa, il 17 Marzo.

E’ infatti stato celebrato con monumenti erti per l’occasione, discorsoni, parate,  il 150esimo compleanno della nostra patria. In molti sono persino stati a casa da lavorare. Celebrazioni dovunque. Di colpo tutti sapevano che il 17 Marzo era il compleanno dell’Italia.

Io no, lo avevo imparato qualche giorno prima. Non ricordo neanche da chi. Credo in farmacia.

Sapevo l’anno, il 1861 che a scuola mi avevano fatto una testa tanta. Ma il giorno sinceramente no, non gliene era mai fregato niente a nessuno. Mi ero un poco stupito che tutti conoscessero il giorno ma secondo me qualcuno faceva il saputello, quello che a lui dice che gli importa una cosa ma in realtà…ci siamo capiti.

Quest’anno il 17 Marzo è caduto di Sabato. Niente giorno di festività. E’ sabato sera. NESSUNO ha ritenuto di festeggiare o segnalare su giornali o sui socialcosi che la nostra Patria compie 151 anni. Ho capito che non è cifra tonda, ma provate a non regalare niente ad un bambino per il suo 6° compleanno e poi vediamo come vi riduce la casa, il bastardo. Ho reso l’idea?

Quest’anno è tutto un proliferare di feste di San Patrizio, il patrono IRLANDESE.

Si sa, è sabato, una scusa per andare fuori a bere non si spreca mai. In fondo basta girare la bandiera, magari dopo averla lavata a 90 gradi per sbaglio l’anno scorso e il rosso si è sbiadito et voilà…

Cari amici destrorsi, la “patria” sta dormendo, è in fase di stallo. Riprendetevela ora, costa solo la fatica di portarsela via.

In fondo le cose cambiano. Una volta, se il 31 di Ottobre un bambino andava solo per la città la mamma gli diceva di “non accettare caramelle dagli sconosciuti”.

Oggi vestiamo i nostri figli e li accompagnamo a suonare il campanello di emeriti sconosciuti. E se non gliele dai, le caramelle, si incazzano pure.

(Stasera suono al WOODRUF’S IRISH PUB DI FORMIGINE (MO) per la FESTA DI SAN PATRIZIO. Intervenite numerosi. Buon compleanno, Italia.)

“Questa non è musica, è roba fatta a caso!” ovvero “L’importanza del ritmo”

(Lettura ipertestuale)

Miles Davis diceva sempre che “Ai bianchi piace ascoltare cose delle quali non capiscono nulla. Li fa sentire intelligenti”. Sono sempre stato d’accordo con lui. Quando sentivo persone che parlavano di Stockausen, Lygety, Cage, musica modale, musica concreta, musica seriale… pensavo sempre “Ecco uno che vuole scopare”. Anche perché se mi trovavo in un posto dove un uomo faceva un discorso del genere, quasi sempre si rivolgeva a una donna e aveva quello sguardo di chi sta pensando “Senti qui che roba! E dopo tutta questa fatica io non mi meriterei di entrare nella tua vagina?”

Quando vedevo questi tizi qui, mi veniva in mente un vecchio film con Alberto Sordi. Eccolo.

Poi però mi sono capitati due libri di un critico musicale chiamato Alex Ross che mi hanno aperto occhi e orecchie su un mare di musica meravigliosa e hanno saputo stimolare la mia curiosità. Si chiamano “Il resto è rumore” e “Senti questo”, e consiglio di partire dal secondo. Ross scrive benissimo e riesce a coinvolgere il lettore a tal punto da fargli quantomeno provare ad ascoltare cose che a un primo ascolto sembrerebbero robaccia informe.

Credo altresì di aver capito che ciò che oggi troviamo inascoltabile e noioso domani sarà probabilmente primo in classifica e ascoltato da tutti. Per vederla in maniera ancora più radicale, ciò che oggi “Non è musica” domani lo diventerà.

Ma come facciamo a capire quando riusciremo a considerare “Musica” con la M maiuscola, quello che oggi ci sembra solo una porcata? Personalmente io mi sono accorto che se questa “porcata” ha un ritmo, la seguo meglio e riesco a familiarizzare con il suono in questione.

Facciamo un piccolo test, per capire meglio. Avete tempo? Bene. Orecchie ben aperte:

Un adorabile pazzoide di nome Edgar Varèse iniziò a sperimentare con strumenti e partiture insolite. Cose veramente ardite che in tanti mettono sotto il nome di musica “contemporanea”. Un trionfo di percussioni, sirene e roboanti fonti di suono. Un assaggio? Eccolo qui, si chiama “Poème electronique”.

Ok, lo so. Avete pensato che è soltanto casino. Vi capisco benissimo. Anche a me ha fatto la stessa impressione, la prima volta che ho sentito questa roba. Il fatto che fosse scritta a spartito non cambiava la mia opinione.

Ma portate pazienza un attimo e andiamo oltre. In una trasmissione americana, il compositore John Cage eseguì una sua composizione chiamata “Water Walk”. Guardatevela qui.

Se vi è venuto da ridere, tranquilli. Lo stesso Cage, avvertito dal presentatore che la sua composizione avrebbe potuto causare ilarità tra il pubblico rispose “Considero le risate preferibili alle lacrime, quindi tutto ok”. (Simpatico, vero?)

Ora proviamo a inserire l’elemento del ritmo. Vedrete come cambiano le cose.

Vi sembrava che Cage, nel video che avete visto sopra, facesse solo del gran casino con degli oggetti di uso comune? Vi sembrava che con la musica non fosse nemmeno parente, vero?

Ebbene, adesso guardate questo video dei Coldcut.

Anche lì ci sono degli oggetti di uso comune, quantomeno in una falegnameria. Motoseghe, mazze, alberi. Anche questi sono soltanto “rumori”. Il loro uso su un ritmo regolare però vi porta magari a dire “Che gran figata” e a farvi ascoltare il pezzo dall’inizio alla fine, rapiti. E questo brano, accompagnato da un video che spiega l’origine dei suoni contenuti in esso, assume anche un preciso significato politico. Bello, vero?

Pensavate che Edgar Varèse sopra fosse un povero pazzo a trafficare con rumori di ogni sorta? Cosa ne dite dei tedeschi Einstuerzende Naubauten?

Anche qui abbiamo percussioni di ogni tipo, in teoria siamo in presenza di un’officina, non di una band. Eppure suona più familiare, vero? Questa è musica.

E cosa pensate di questa scena, dove producendo dei rumori a ritmo il grande MixMaster Mike fa andare in delirio la folla?

Se cinquant’anni fa avessero provato a far ballare i vostri padri con una cosa del genere, state pur sicuri che avrebbero ottenuto bordate di fischi, per non dire di peggio. Basti ricordare l’atmosfera che veniva riservata ai rappers che si esibivano prima dei Clash al Bond’s Casino di New York, nei primi anni ’80. Fischi e urla, spessissimo.

Ultimo test, quello decisivo: Se guardate questo video vedrete e ascolterete un’orchestra sinfonica alle prese con “ECSTASIO”, terzo movimento di “ASYLA”, brillante poema sinfonico del compositore contemporaneo Thomas Adés. Questo movimento vuole simboleggiare i suoni di un noto club londinese e dopo un iniziale parte tipicamente “classica”, in cui i suoni non saranno per niente melodici e il tutto suonerà decisamente ostico, partirà una cassa (suonata da un membro dell’orchestra) a marcare il tempo nel tipico 4/4 della musica house.

L’orchestra seguiterà con lo stesso tema, badate bene; ma ecco che basta un banale (si fa per dire) pattern e il tutto diventa ascoltabile, addirittura bello. Molto bello, no?

Concludo dicendo che c’è una scena del film “Il diavolo veste Prada” che mi piace un sacco, la ritengo una scena culto in assoluto, di quelle che si imparano quasi a memoria. Questa.

Credo che la scena sia applicabile non solo al mondo della moda, ma a qualsiasi campo artistico. In pratica: in ogni ambito artistico o che preveda un’estetica, esistono persone che svolgono compito di ricerca e che giocoforza arrivano prima degli altri, finendo per anticipare e dettare quello che sarà il gusto nel futuro più o meno prossimo. Il film di Sordi mi fa ancora ridere tantissimo, peraltro. Quanto alla frase di Miles Davis, ha ragione da vendere, è vero. Tuttavia, mi trovo anche d’accordo con quel tale che disse che “Il Jazz è come una scoreggia. Piace solo a chi la fa”. Il giorno che risolverò tutte queste mie contraddizioni probabilmente smetterò di ascoltare musica per sempre. Nell’attesa, orecchie ben aperte.

La morte di Lucio Dalla

Mi sarebbe piaciuto molto scrivere qualcosa di intelligente e di accorato sulla morte di Lucio Dalla. A parte le canzoni che conoscevano tutti ho approfondito la sua opera attraverso l’acquisto di una manciata di suoi album soltanto di recente. L’estate del 2011 la ricorderò sempre per i suoi dischi che mi hanno dato conforto nei momenti difficili.
Ho scoperto un autore straordinario, direi un poeta e non uso quasi mai questo termine inflazionato, ma stavolta forse è il caso.
Mi ha fatto piacere leggere le parole di Emiliano Colasanti su Stereogram riguardo all’accadimento, mi sento di sottoscriverle. Io ho provato a scrivere qualcosa di degno, ma mi incasinavo e non riuscivo a dire correttamente quello che avrei voluto.

Insomma, mi è dispiaciuto.

SERATA FINALE

Una volta durante la serata finale di Sanremo morì Claudio Villa. Pippo Baudo arrivò dopo il telegiornale che interrompeva in mezzo la serata e disse “Vi prego di voler tributare l’ultimo applauso a Claudio Villa.” Il teatro si alzò in piedi e applaudirono tutti. Fu un momento piuttosto toccante, in effetti. Poi Baudo disse “Lo spettacolo purtroppo deve continuare, siamo certi che anche Claudio Villa avrebbe preferito così…” e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) allora disse che se Claudio Villa avesse voluto che il festival di fermasse, mica l’avrebbero fermato i Pippibaudi e i Gianniraveri e quindi che si poteva evitare di far certi discorsi del cazzo.

Una volta durante la serata finale del Festival vinsero Andrea Bocelli nelle nuove proposte e Aleandro Baldi nei Big e allora mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che sembrava fatto apposta che vincessero solo i ciechi.

Una volta durante la serata finale del Festival, aprirono una cassaforte dove c’era una busta gialla con un biglietto che Giucas Casella aveva chiuso lì a inizio festival e dove c’era scritto il vincitore. La aprirono e c’era scritto “Riccardo Fogli”. In effetti vinse Riccardo Fogli e mezz’Italia si interrogò su come potesse averci preso. Mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che era tutto truccato e che in ogni caso si faceva presto a scambiare una busta o addirittura una cassaforte. Uno dei presenti disse che “C’era il notaio” e allora mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che dei notai, dei giudici, degli avvocati eccetera non bisognava mica fidarsi.

Una volta durante la serata finale del Festival vinse Alice con “Per Elisa”. A leggere l’almanacco panini del Festival di Sanremo, che è un libro che ogni appassionato di musica dovrebbe avere in un mobiletto del bagno vicino alla tazza del cesso, quella vittoria lì mise d’accordo tutti quanti, pubblico e critica, con un’interprete magistrale e una canzone di un autore come Franco Battiato. Mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che la canzone faceva schifo e quella lì cantava come una cornacchia.

Una volta, durante la serata finale di Sanremo, Toto Cutugno cantò una canzone chiamata “L’italiano” e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che secondo lei la più bella era quella lì e che avrebbe vinto con la giuria popolare e che era ora che le decidesse il pubblico le canzoni più belle.

Una votla durante la serata finale di Sanremo Toto Cutugno arrivò secondo per l’ennesima volta e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che aveva proprio rotto i maroni, che era ora che nei primi posti ci fossero i giovani.

Una volta durante la serata finale di Sanremo a chi vinceva gli davano un cavallo e mi ricordo che mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che non capiva cosa se ne facesse uno come Eros Ramazzotti di un cavallo.

Una volta durante la serata finale di Sanremo uno che si chiamava Francesco Tricarico disse “Stronzo” a Chiambretti e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) disse che poteva evitare, però un po’ aveva fatto bene.

Una volta durante la serata finale di Sanremo interruppero il festival perché c’era lo slalom gigante delle Olimpiadi e un giovane sciatore bolognese chiamato Alberto Tomba era terzo dopo la prima manche, ma si sperava che vincesse. Vinse di 6 centesimi su un tedesco chiamato WOERNDL o qualcosa del genere e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) urlò di gioia gasatissima come non l’ho mai più vista per un evento sportivo in tutta la vita.

Una volta durante la serata finale di Sanremo mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) era talmente stanca che aveva lavorato anche di sabato e la premiazione c’era talmente tardi che disse che dovevano andare tutti a cagare e andò a letto.

Una volta durante la serata finale di Sanremo vinse il trio con Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e Umberto Tozzi e mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) era contenta, perché provatele a toccare Gianni Morandi e diventa una iena.

Mia madre adesso è alle Canarie. Torna Lunedì.

Sanremo e gli U.F.O.

Quando ero piccolino avevo un libro che si chiamava “L’uomo nello spazio”. Lo avrò sfogliato milioni di volte, imparando i nomi di Yuri Gagarin, Valentina Tereskova, la cagnetta Laika, lo scimpanzè Abe, Neil Armstrong. Buzz Aldrin invece no come da tradizione. E poi Apollo 1,2,3,4,5,6, Sputnik, Soyuz, Capo Canaveral che era anche Capo Kennedy, insomma un sacco di nomi e di notiziole. E immagini di navicelle spaziali, di astronauti, sonde, capsule, missili. Sognavamo tutti di diventare astronauti, noi bambini degli anni settanta. E poi c’erano gli U.F.O., che voleva dire “Oggetto Volante Non Identificato”, e allora non capivi perché non si chiamasse O.V.N.I. E pian piano finiva che iniziavi ad acquisire le prime parole di inglese. Lo spazio, saremmo andati ad abitare sulla luna e poi su Marte che c’erano i marziani che erano omini verdi che erano cattivi ma forse no. Perché andavamo “Verso il duemila”, come cantava Flavia Fortunato. Gli Ufo non esistevano, però. Ma alcuni dicevano di sì e quando sei bambino rimani sempre con il dubbio, che poi quando diventi grande finisce che leggi le robe dell’Area 51 e quelle cose lì che fanno in Nevada, che non ho mai capito perché quando gli americani combinano casini li vanno sempre a fare nel Nevada, da Las Vegas in poi.

Comunque, quando ho detto marziani e ho detto “omini verdi” tutti voi avete capito perfettamente cosa intendevo. Nel senso che tutti voi che state leggendo avete avuto un’immagine di un omino verde dalla “forma aliena”. Tolti alcuni dettagli per i quali ognuno si è sbizzarrito, vi siete immaginati più o meno lo stesso omino. Questo perchè nell’immaginario collettivo è affiorata e si è stabilizzata, nel corso degli anni, un’immagine perfetta del “prototipo dell’omino verde”. Il fatto che questa immagine non abbia nessun fondamento storico-scientifico non importa granché. Voi credete che quello sia un marziano e niente al mondo potrà levarvi quell’immagine. Affiorerà ogni volta che sentirete una notizia rigorosa e scientifica come “Su Marte c’era acqua” (e vi immaginerete l’omino che imbottiglia). E’ un riflesso condizionato che si autoalimenta, una specie di “Cane di Pavlov che si morde la coda”, se mi passate la battuta.

Ecco, anche per i cantanti vale la stessa cosa. Solo che l’Area 51 è in Liguria, a Sanremo. Teatro Ariston. Ci sono dei personaggi che sono messi lì come cantanti e quindi voi credete che siano cantanti. Il fatto che loro facciano dischi avvalora questa tesi. Sono a Sanremo, ci vanno spessissimo, alcuni per 4 o 5 volte, alcuni lo hanno addirittura vinto e quindi voi credete siano “cantanti famosi”. Perché se sei a Sanremo sei un cantante famoso. Tant’è vero che se suonate avete prima o poi trovato qualcuno nella vostra vita che vi ha detto “Eh, quando poi sarai famoso e ti vedremo a Sanremo…” come se questo vi garantisse la cosa più importante che in un mondo decente un cantante dovrebbe avere per essere considerato un “cantante famoso”: IL PUBBLICO.

Invece (e qui scatta il “dove voglio andare a parare”) Sanremo crea soprattutto degli UFO. Cioè cantanti famosi che in realtà non esistono. Perché non hanno li pubblico.

Facciamo un esempio con il primo che mi viene in mente: POVIA.

Povia sapete tutti chi è (come il marziano, avete un’immagine precisa) e sapete tutti cosa canta (“I bambini fanno OH”, “Luca era gay”, quella del “piccione” che ha anche vinto Sanremo). Quindi siete convinti che sia un cantante famoso, che faccia concerti pieni di persone che si spellano le mani e magari lo invidiate pure, voi che suonate per 40 persone in un locale dove vi siete dovuti montare l’impianto per un rimborso spese o poco più.

Beh, signori miei… Le persone che si spellano le mani non ci sono. Voi conoscete qualcuno che sia andato a vedere Povia?

Attenzione: non sto parlando di una piazza in estate dove eravate in vacanza e mentre passeggiavate c’era Povia e allora vi siete fermati lì “a sentire se fa quella del piccione” che “tanto era gratis”. Parlo di un pubblico vero, di veri ammiratori. Parlo di partire da casa con la macchina, farsi 20, 30, 50km magari in quattro o in cinque e pagare un biglietto, magari anche soltanto di 5 Euro. Parlo di fare tutto questo pensando coscientemente “Cacchio, stasera vado a vedere Povia” con variabile eccitazione.

Dicevo, conoscete qualcuno che abbia fatto questa cosa qui per Povia? Io no. Ogni volta che vado a suonare faccio la stessa domanda, spesso dal palco. Non ho mai trovato qualcuno che conosca qualcuno che sia andato a sentirsi Povia. Perchè il punto è che questi qui non ce lo hanno, un pubblico.

Penso a Vasco Brondi, agli Zen Circus, a Dente, ai Cani, ai Perturbazione, ai Julie’s Haircut, ai Giardini di Mirò, ai Cut, ai Movie Star Junkies, a Davide Tosches, Stefano Amen, a me (eh si, a questo punto mi ci butto dentro). Perché noi siamo “gli alternativi”? Noi ce le abbiamo le persone che si fanno i loro bei chilometri di macchina per vederci suonare e che ci tornano pure. Che ci chiedono i dischi per posta… Sono poche persone, pochissime spesso (nel mio caso) ma le abbiamo. Diventano nostri amici, dopo essere stati fan. Ma li abbiamo.

Qualcuno mi spiega perché ci dobbiamo sorbire pistolotti addirittura sugli Afterhours o sui Marlene Kuntz presentati come “emergenti” o “alternativi”? Stiamo parlando di gruppi che girano riempiendo i club e i palazzetti.

“L’alternativo” è POVIA, mi dispiace. E’ lui in minoranza. Anche perché chi volete che chiami “uno che costa come uno della televisione” che ti fa tanto pubblico come me o forse meno? Infatti, se ci fate caso, questi qui non suonano mai. Sono degli UFO, dei marziani. Ognuno di noi ne ha un’immagine ben precisa, ma nessuno li ha mai visti. Anzi, non esistono proprio, se non a Sanremo.

(Perché il Nevada è il Nevada)

Labelèn

Ieri sera Labelèn (scritto tutto attaccato e detto veloce, chè in pianura padana facciamo così) aveva uno slip che sembrava che non avesse niente, mi hanno detto. Non è che non avesse niente, però quando avete cominciato a parlarne in ufficio o sui blog o in fabbrica o nei bar c’è sempre quello che ha detto “Mah, secondo me vedrai che non le aveva…”. Se quel qualcuno siete voi, mi dispiace ma nell’ordine: le donne non sono tutte puttane tranne la vostra madre e la vostra morosa, le donne dei paesi dell’est e della Thailandia con le quali andate vengono con voi perché le pagate e non inventate scuse, le donne del vostro paese non vengono con voi solo perché vi conoscono.

Martedi sera Labelèn (scritto tutto attaccato e detto veloce, ché in pianura padana facciamo così) ha fatto vedere un capezzolo a Sanremo.

Non è che lo ha fatto apposta, però quando avete cominciato a parlarne in ufficio o sui blog o in fabbrica o nei bar c’è sempre quello che ha detto “Mah, secondo me vedrai che lo ha fatto apposta…”. Se quel qualcuno siete stato voi, mi dispiace ma nell’ordine: siamo andati sulla luna, dei Kamikaze hanno tirato giù le torri gemelle e non è vero che lo zucchero bianco fa male mentre lo zucchero di canna no. Basta. con questa smania di vedere complotti dappertutto.

A dire la verità non è neanche che si vedesse tanto, il capezzolo Dellabelèn (sempre scritto tutto attaccato e detto veloce, ché in pianura padana facciamo così). Bisognava avere un microscopio che secondo me neanche al CERN hanno delle macchine così potenti, però quando c’è da vedere certe cose l’ingegno italiano vien fuori alla grande.

Perché visto che lo guarda un italiano su due ma come vi avevo detto ne parla uno su mille (vedi post di ieri) allora bisognava che saltasse fuori qualcosa di cui poter parlare tutti insieme e che unisse il popolo italiano. Niente meglio che un poco di figa, quindi. Anzi, le tette. Perché la mamma è sempre la mamma. E allora vai con Labelèn (scritto tutto attaccato e detto veloce, ché in pianura padana facciamo così).

Ecco, cosa mi piace di Sanremo, cosa mi fa impazzire. L’ingrediente segreto di Sanremo è quel suo essere fuori dalla dimensione spazio/tempo.

Mi spiego.

In televisione siamo ormai abituati a lasciare i nostri figli piccoli al pomeriggio da soli (o con i nonni, spesso rincoglioniti e i cui controlli sono facili da eludere, soprattutto per un adolescente) davanti a uno schermo dove ci sono programmi che prevedono scambi di coppie tra coetanei, gente che si manda a fare in culo, che ha rapporti sessuali un giorno con uno e uno con l’altro e se ne vanta, che si rifà tette, culo occhi e orecchie e se ne vanta, che uccide qualcuno e diventa famoso proprio per questo e allora tutti a intervistarlo…

Ma poi a Sanremo uno fa vedere per sbaglio un capezzolo e APRITI CIELO. Fino alla settimana prima una può aver posato nuda con un pitone avvolto dentro a un crocifisso con un’icona sacra piantata dentro al suo deretano in primo piano e nessuno dice nulla. Però poi a Sanremo dice “Cacca” (neanche “merda”, basta “cacca”) e tutti si scandalizzano.

Ecco, Sanremo mi sembra l’ultimo baluardo del sacro, del liturgico. Una cosa che contagia anche le menti più illuministe che conosco, le più miscredenti, le più attaccate alla ragione.

E pensare che San Remo sul calendario non esiste nemmeno. E pensare che il patrono di Sanremo è San Romolo. Non scherzo, potete controllare.

(* Labelèn segue le regole degli articoli determinativi, con la differenza che prende la maiuscola del partitivo. Non so perché. Forse perché Sanremo è Sanremo.)

Sanremo. L’alternativa. Noi e loro

Quando c’è il festival di Sanremo non prendere mai un concerto. Mai.

E’ una regola d’oro che imparai tanti anni fa quando suonavo con un gruppo chiamato Love Flower. Facevamo musica nostra cantata in inglese e quelli che ci ascoltavano dicevano che eravamo una specie di ibrido tra i Mudhoney e i Joy Division. Quando arrivarono i God Machine ci sentimmo dire che assomigliavamo a loro, ma un poco più melodici. Insomma, quanto più lontano da Michele Zarrillo, Marco Masini, Al Bano e quella roba lì. Avevamo un ingaggio fisso in un locale che non so come mai decise di farci suonare ogni mercoledì. Il locale chiuse presto, ora al suo posto c’è una rivendita di prosciutto crudo e Parmigiano Reggiano. Comunque…Il mercoledì della settimana di Sanremo il locale era deserto. Vuoto, non un’anima viva. In pratica facemmo le prove davanti alla ragazza del nostro batterista e a due attempati quarantenni che avevano la faccia di due agenti di commercio che non sanno bene dove andare in un posto che non conoscono dopo una giornata passata a parlare del declino della bicottura e della monocottura e del boom del gres porcelanato. Non ce lo aspettavamo. Nemmeno il gestore del locale se lo aspettava e infatti ci aveva detto “Ma non penso che il pubblico che viene qui sia il pubblico di Sanremo”. Stavamo facendo un grossolano errore di valutazione. Imparai che con Sanremo non si scherza, manco per niente.
Anni dopo, il giorno in cui uscì “Fried Sponge” dei Joe Leaman, eravamo gasati per il fatto che quello era il nostro primo album ad uscire su Gammapop, che era più o meno l’etichetta dei nostri sogni e dove volevamo entrare da anni. Il disco uscì nei negozi un lunedi che era il lunedi dopo Sanremo. Dopo la prima settimana ci sentimmo per telefono io e Filippo Perfido, il boss dell’etichetta. Gli chiesi se aveva notizie di come stava andando il disco e lui mi rispose che erano pochi i negozi che glielo avevano ordinato, ma era normale perché avevamo scelto il momento peggiore per farlo uscire. Il lunedi dopo Sanremo. “Ma non credo che quelli che comprano i dischi della Gammapop siano quelli che comprano i dischi di Sanremo” dissi io. Stavo facendo un grossolano errore di valutazione. Imparai di nuovo che con Sanremo non si scherza, manco per niente.

Da allora, a meno che non capiti una cosa eclatante (da aprire per i Rolling Stones in su) oppure che ci sia da fare un favore ad un mio amico (Ho già pagato la SIAE e il gruppo non può venire, il loro batterista è in coma, vieni tu? Ti prego, se dici di sì potrai bere birra gratis per sei mesi), allora quando fisso le date per il mese di Febbraio (in genere a Novembre, più o meno) mi premuro sempre di chiedermi “Qual’è la settimana di Sanremo?” e se mi offrono una sera di quelle, beh…dico di no. E quando mi sento dire “Ma…non credo che il pubblico che viene qui sia lo stesso che guarda il festival di Sanremo” taccio in maniera educata e dico che preferisco non rischiare. In realtà sto pensando “Si, si…col cazzo che mi faccio inculare anche stavolta. Mandaci un altro a fare il kamikaze il 17 Febbraio, che da quando il venerdì è la serata dei duetti non esce più nessuno”.

Dunque, stamattina faccio colazione controllando la posta e la mia pagina Facebook, come al solito. Tonnellate di commenti sul festival. Chi parla delle canzoni dando i voti, chi commenta questo o quel vestito, chi parla di Celentano. Chi si giustifica dicendo che lo segue in quanto evento pop, in quanto evento nazionalpopolare, in quanto fiera delle vanità, in quanto catalogo antropologico…Insomma, a parte il fatto che nessuno dica di seguirlo perché guardarlo e parlarne male è proprio divertente, è bello, è una libidine…i motivi sono i più svariati.

Mi sono immaginato che visto che “noi alternativi” non stiamo parlando d’altro, sul lavoro sentirò un mare di commenti. Sarà tutto un “Ma la canzone di (riempite voi lo spazio) che schifo” oppure “Ma hai visto com’era vestita (riempite voi lo spazio)?” e cose così.

Invece….NIENTE. Non una parola. Non stiamo parlando della giornata più incasinata della storia, dove tutti hanno da parlare di qualcos’altro. Parliamo di una normale giornata lavorativa, con un “casino normale”.

Vado a casa a mezzogiorno e di nuovo apro la posta e la mia pagina Facebook. Commenti su commenti, Celentano e la canzone dei Marlene e D’Alessio e la Berté e poi non mi ricordo cosa. Commenti su commenti su commenti. Qualcuno mi manda un messaggio privato non appena mi vede in chat e mi chiede di commentare il festival.

Scopro che a sentire l’Auditel “UN ITALIANO SU DUE” ha guardato il festival di Sanremo ieri sera. UNO SU DUE. Porca troia, è un record.

Torno a lavorare. Magari con i telegiornali che hanno cominciato a pompare, i varietà che (immagino) hanno cominciato a parlare solo di quello come tutti gli anni..e poi UNO SU DUE…Chissà che casino, tutti che si interrogano su Loredana Berté e compagnia….Invece niente. NIENTE.

Ora….sicuramente nei prossimi giorni il pompaggio sarà talmente potente che tutti arriveranno a parlare di Sanremo, come al solito. Gran trionfo con i duetti e con la serata finale. Poi si ricomincerà con la vita normale.

Però, se vi devo dire la verità, comincio a credere che proprio quelli che “Non credo che il pubblico che viene qui sia il pubblico di Sanremo” siano lo zoccolo duro del pubblico del Festival. Gli altri, quelli “normali”, quelli inferiori, se lo vedono capitare lì e lo sopportano come si sopporta un conoscente rompicoglioni che vedi una volta all’anno. Noi “alternativi” invece, noi superiori e all’avanguardia, se non ci fosse Sanremo rischieremmo di dover fare a meno di quella dose massiccia di supponenza senza la quale per il resto dell’anno ci troveremmo a dover ammettere di essere dei cretini come tutti gli altri.

(Non ho la tv. Sanremo quindi non lo guardo. Ma mi rode. Gli unici giorni in cui un poco mi pento di non avercela sono quelli del Festival di Sanremo e quelli delle Olimpiadi, ogni 4 anni. Si lo so, si vede in streaming, ma non è la stessa cosa. Non so perché. Forse perchè Sanremo è Sanremo.)