“DELUXE” – Ovvero, ne puoi fare tranquillamente a meno

Merito dei Pavement. L’edizione “deluxe” del loro secondo album “Crooked rain, crooked rain”. Un disco che è un classicissimo del suono anni 90 che ascoltai tantissimo durante l’anno del servizio militare in una cassetta C-90 al cromo dove dall’altro stava il trascurabilissimo “Mariposa” dei Rein Sanction. L’altro lato penso di averlo ascoltato soltanto una volta. Mi era piaciuto il primo dei Rein Sanction (“Broc’s Cabin” si chiamava, il disco di questi simpaticoni su Sub Pop) ma il nuovo non mi aveva detto nulla e poi nel lato A apparve subito chiaro che c’era un capolavoro. Spesso rimandavo indietro il nastro utilizzando una biro per risparmiare sulle pile del Walkman, che a militare l’arte del risparmio è cosa che si impara subito. Ma sto divagando…dicevamo, l’edizione “deluxe”. Un cd in più ed un libretto ricchissimo con foto e scritti vari da parte di componenti della band. Nel cd in più, retri di singoli, versioni alternative, ecc…Insomma, le solite cose.

Una voce mi ha sussurrato “Comprare subito”, anche perché dopo aver fuso il primo lato di quella cassetta C-90 al cromo di cui sopra, non avevo mai sentito il bisogno di comprarmi il cd. Era entrato a far parte di quegli album che non possedevo fisicamente, ma che conoscevo a memoria in ogni singolo dettaglio. Anzi, proprio per quello finivo per non averli in casa. Cose da cassette, fatevi spiegare da un vecchio che non crede a quelli che dicono “Io scarico e poi se mi piace compro”, frase che spesso viene ripetuta pù volte come si fa con la battuta finale di una barzelletta spompa.

Ebbene, ho comprato il disco in questione e durante un viaggio a Siena con la signora ho schiaffato il cd nel lettore della macchina. Ho alzato il volume dello stereo e tempo venticinque secondi di “Silence Kit” ero già tornato un ventenne. Tutto l’album è scorso sul filo dei ricordi e di cose alle quali non avevo fatto caso. “Elevate me later” è sempre bellissima così come “Cut your hair” e “Range life”. “Stop Breathin” ha un finale che rasenta il genio nel suo essere minimale, “Heaven is a truck” è più bella oggi che allora, “Unfair” invece era più bella allora. “Newark wilder” è qualcosa che è impossibile classificare ed è splendida proprio per quello. E via così, fino alla fine.

Poi sono cominciate le B-sides. Una era la versione di “Camera” dei R.E.M. più stonata della storia, della quale conservavo un delicatissimo ricordo anche grazie al fatto che me la fece sentire un amico che ora non c’è più. Poi siamo passati al cazzeggio totale. Una trentina di minuti nei quali Malkmus e soci (come dicono i critici musicali seri) in pratica fanno le prove o giù di lì, non andando da nessuna parte, musicalmente parlando. Dopo circa venticinque minuti decido che ne ho abbastanza e quando tolgo il cd mia moglie, che in queste cose ha la classica pazienza delle mogli dei pazzi infervorati di musica, mi dice “Era ora, grazie a Dio”.

Ho realizzato, in quel momento, che sono pieno di edizioni “deluxe” delle quali non mi frega niente. Un esempio? Tutti i dischi dei R.E.M. in cd con una serie di brani dal vivo, lati b e cose che ho ascoltato una volta sola, distrattamente e probabilmente nemmeno per intero. E potrei andare avanti per pagine intere. A parte qualche edizione deluxe di Marley e di qualche eccezione (che, in quanto tale, conferma la regola), per il resto si tratta sempre di cose del genere.

Ora…chiaramente qualche volta ci ricascherò, perché un tossico corre sempre il pericolo di ricadere nel tunnel. Però sappiate, care le mie case discografiche in via di estinzione, che in linea di massima avete finito di succhiarmi soldi con questi specchietti per le allodole. D’ora in poi quando leggerò “DELUXE” penserò al lusso e al suo significato. Penserò a gentaglia tipo Briatore, Lele Mora oppure a finti morti di fame che pagano l’ira di Dio per bersi un Flute di spumante della Coop in una discoteca qualunque della riviera romagnola, per correre dietro a donne con le tette fredde per via delle protesi al silicone e con labbra talmente gonfie che ti aspetteresti di trovarci scritto almeno il nome del bagnino. Insomma, gente alla quale non vorrei assomigliare neanche per un secondo.

Da oggi ho capito ciò che significa “DI LUSSO”. Vuol dire che ne puoi fare tranquillamente a meno.

Caro Gastroenterologo

Caro Gastroenterologo,
so benissimo che vista la mia malattia mi hai proibito una serie di lavori di fatica nonché una serie innumerevole di cibi. So perfettamente che in caso di cattiva condotta rischio seriamente di lasciarci le penne nel medio termine. Però, dato che nessuno mi avrebbe spalato il cortile, l’ho fatto io stamattina e stasera di nuovo. Per ricompensa mi sono mangiato anche un piatto di gnocchi di patate al burro, un numero imprecisato di fette di salame, il tutto accompagnato da qualche bicchiere di Brugnolo, vino buonissimo che ho preso al “Localino”, bel posto nella Repubblica di S.Marino nel quale ho suonato la settimana scorsa. Si, lo so. Ho fatto una cazzata. Però son proprio contento, va bene?

EFFETTO AMUNDSEN

Stamattina mi alzo alle 6 e faccio la rotta nel mio cortile. Poi faccio una doccia ed è già tutto bianco quando mi incammino per andare a lavorare. Vado a piedi, mentre camminando mangio una focaccia all’olio con la panna e un croissant alla crema. Colazione dei campioni, che un’ora di movimento fisico fa sì che io abbia bisogno di calore. Il tempo di ridere del fatto che la focaccia all’olio con la panna sia chiamata “Focaccia CARPI” da quelle del mio forno e, mentre la divoro sulla strada, un tipo in macchina si ferma e mi dice “Vuoi un passaggio?” sorridendomi. Dico cortesemente “No grazie” sorridendo a mia volta. Lui allora mi sorride ancora di più e mi urla “Bel disco!” per poi scomparire sulla strada che porta a Scandiano. Neanche il tempo di dire “grazie” e ridere come un cretino. Mentre il freddo mi divora scopro che potevo vestirmi un poco di più e mi pento di non aver accettato il passaggio. Son soddisfazioni.

Rome wasn’t built in a day

Venerdi sera in pizzeria, per prendere due pizze da asporto.

Un signore prima di me sta parlando con il pizzaiolo. L’argomento in questione, come tutti i giorni in questo periodo, è quello de “LA CRISI”. Parlano del più e del meno e ognuno ha la sua ricetta su come farla finire, sempre con metodi drastici e tagli furiosi. Ovviamente che non vadano a gravare sulle categorie alle quali appartengono gli interlocutori.

Comunque, mentre parlano del più e del meno, il pizzaiolo dice “E comunque questa situazione qui c’era già ai tempi di Roma”. Il cliente, che non stava ascoltando ma voleva solo sfogarsi, prosegue a parlare per suo conto. Allora il pizzaiolo (che fa la pizza migliore del nostro paese, secondo me) torna a ripetere che “comunque questa situazione qui c’era già ai tempi di Roma”.

Il cliente si ferma un secondo e chiede “Roma antica?”

Il pizzaiolo lo guarda come si guarda un alieno, poi gli dice “Si…l’impero romano” con una punta di incredulità.

Esco di corsa dalla pizzeria perché non riesco a non scoppiare a ridere. Il giorno che la scienza riuscirà a ricreare il laboratorio il frutto di quella sinapsi, il prezzo di ogni droga finora conosciutà crollerà inesorabilmente.

Le colpe dei padri

Sabato mattina, vado in un negozio di dischi e spulcio qui e là in cerca di qualcosa di interessante. Un’occhiata alle novità, poi l’immancabile sguardo ai vinili nuovi e ai tanti vinili che sono lì da tempo immemore. Carrellata agli italiani, guardatina al jazz e al reggae. Mano a mano rapida memorizzazione di uno o due cd per settore, pensando a cose che potrei comprare. Chiacchiere con il proprietario e poi setacciata classica alle offerte. Nel frattempo entra un tipo, avrà trentacinque anni. Con un bambino che avrà 4 anni che immagino essere suo figlio.

“Cos’hai di nuovo di musica house?”
“Tante cose. Tipo?”
“Ma non so. Da tenere in macchina.”
“Ah. Guarda, ti faccio sentire una roba…senti qui”

Il negoziante prende un doppio cd compilation del quale mi sfugge il nome e mette su un pezzo. Parte una cassa classica house e un pezzo impersonale di quelli che senti in un qualsiasi negozio di abbigliamento. Il cliente scuote la testa, ritmicamente. Il tutto dura circa 4 secondi e poi:

“Senti? Questo è bello, veh?! Senti, va via dritto, batte bene…”
“Si, si…la prendo. Quant’è?”
“TRENTOTTO EURO” (Porca puttana!!!, ndr)

Il cliente si rivolge al bambino e gli dice “Eh, Tommaso? (Il nome l’ho inventato, ndr) La prendiamo che così l’ascoltiamo in macchina quando andiamo dalla nonna?” Il figlio, che intanto si sta guardando intorno e sta girando tra la miriade di colori sparatigli addosso dai tanti scaffali di vinile, annuisce senza aver la minima idea di cosa il padre abbia detto e non degnandolo di uno sguardo.

Il padre, contento come una pasqua, caccia fuori trentotto euro per quel doppio digipack pieno di merda e poi torna in macchina insieme al figlio.

Non so cosa pensare. Compro “Big World” di Joe Jackson, che avevo già in vinile ma ormai è rovinatissimo e me ne vado a casa, a dormire. Il prossimo che mi chiede lo sconto quando mi compra un disco dopo un concerto si becca una roncolata.

I Radiohead, il costo dei biglietti, la barista e le cassette.

C’è un bar a Veggia di Casalgrande (RE), davanti al negozio di dischi “Mondo Musica” dove, nell’estate del 2003, andavo spesso a fare colazione all’alba della domenica o del sabato mattina, prima di svenire nel mio letto dopo una notte di bagordi in giro per locali. Era la mia prima estate da single dopo 8 anni (e sarebbe stata anche l’ultima, ma mica lo sapevo ancora) ed essere l’ultimo della compagnia che andava a letto era diventata un’abitudine. Una volta, mentre facevo colazione, andava una cassetta con “Knives out” dei Radiohead. Finito il pezzo la barista ha girato lato ed è partita “Bulletproof”, che forse è la mia canzone preferita loro. Era una raccolta su cassetta (Fatevi spiegare da un vecchio). Mentre prendevo il mio cappuccino e la pasta, chiesi alla barista “Ti piacciono i Radiohead?”. La domanda era retorica. La ragazza rispose ovviamente di si. A quel punto le chiesi “Ci vai a Ferrara?”. I Radiohead facevano due concerti a Ferrara con i Low di spalla e io non vedevo l’ora. Si, lo so….un gancio banale, ma quando sei single impari che la vergogna e la timidezza ogni tanto puoi tranquillamente metterle a dormire che non succede niente di grave, se non esageri.

La barista rispose “No. Non ci vado ai concerti. Mai”.

Ok, potrebbe essere stato un buon modo di dire “Sparisci, sgorbio”. Però in tutta onestà credo di no. Chiesi come mai e lei rispose che “Ai concerti c’è sempre un sacco di gente maleducata che urla, spintona, parla e fa casino. Non si riesce mai a sentire chi suona. Basta. Non ci vado più. Preferisco sentirli qui in bar o in camera mia. La musica parte e io mi faccio il mio viaggio, sono a posto così”.

“Tipa strana” pensai.

A Ferrara i Low non riuscii a sentirli, dal chiacchiericcio che c’era. I Radiohead non riuscii a godermeli perché ogni volta che c’era un pezzo lento assistivo a persone che ad un metro dalle mie orecchie si chiamavano a venti metri di distanza, oppure telefonavano parlando di puttanate. Ripensai alla “tipa strana”.

Ripenso a quella barista (della quale non ricordo assolutamente nome, lineamenti e nulla di nulla) ogni volta che vado ad un concerto rock dove scopro che ci sono persone disposte a spendere soldi, a volte anche tanti, per entrare in uno stanzone o in un’arena e chiacchierare del più e del meno senza ascoltare una nota e senza farla ascoltare a chi ha speso soldi per farlo. Tipi strani e anche un po’ teste di cazzo, penso. L’ultima volta è stato questo sabato. 30 euro buttati nel cesso per (non) sentire i Fleet Foxes. 30 io e 30 mia moglie, più la benzina e l’autostrada. Ci pagavamo la luce, giusto per dirne una.

Le discussioni sull’eventualità o meno di spendere cento euro per i Radiohead sono oziose, per quel che mi riguarda. Però magari oggi quella barista potrebbe aver avuto voglia di togliersi uno sfizio e averli spesi per andarsi a vedere un concerto nel quale ripone grandi aspettative. E se non sono i Radiohead, sarà un’altra band. E i soldi del biglietto saranno il frutto di caffettiere prese in mano a temperature folli che ti lasciano i calli sulle dita, di ganci stupidi da clienti disperati alle 4 di mattina, di vecchi maleducati che ti urlano di portargli il bicchiere di rosso e ti squadrano da capo a piedi radiografandoti con gli occhi mentre guardano il posticipo di serie B.

Quando siete ad un concerto, fate in modo che non si penta di averli spesi.

Quanto pesa un morto?

E’ sempre molto interessante osservare le reazioni che abbiamo di fronte alla morte, in qualsiasi salsa ci venga presentata. L’ultimo esempio che mi ha incuriosito è stato in questi giorni con la morte di Simoncelli. Non sono un amante del motociclismo, dei motori in genere. Ho una teoria fanta-politico-cospiratoria per le gare di formula uno. Ritengo che vengano tenute negli ospedali per essere usate come anestesia, quando ci si trovi a dover operare d’urgenza in caso non si abbiano medicinali adatti alla bisogna. Idem per il motociclismo, che trovo appena meno noioso. Aggiungete che non ho più la televisione da 3 anni e capirete che non conoscevo il malcapitato. Ritengo che facendo quel mestiere lì sia una cosa, quella di morire sul lavoro, che si metta anche un poco in conto. Ma non è questo il punto.

Il punto è che ci sono un paio di cose che non mi piacciono, in questo circo della morte.

La prima è il fatto che ormai basti essere celebri e si ha un funerale in diretta televisiva. Una volta questo accadeva per i presidenti, i dignitari e i reggenti. Oggi basta essere “qualcuno” che voilà… alla tua dipartita scatta la squadra esterna 3 di (riempite voi lo spazio) a filmare le immagini. Il funerale è ormai diventato un genere televisivo a parte, a fianco dei varietà, degli eventi sportivi, dei talk show e dei “reality” (ai quali probabilmente è appartenuto per un breve periodo prima di affermarsi come genere a sé). Capita di vedere persone che salutano la telecamera quando passa, striscioni e applausi (a questi ultimi due ci siamo abituati, agli stronzi che salutano con la manina e sorridono ci vorranno ancora una decina di decessi, a occhio e croce).

La seconda cosa che stona è lo stupore per il dolore collettivo. In genere questo stupore dal sapore vagamente acidulo si manifesta soppesando i morti legati ad un altro avvenimento. In questi giorni l’occasione d’oro (si fa per dire) è stata rappresentata dalla catastrofe in Lunigiana e zone limitrofe. Via dunque alle osservazioni in base alle quali ci si dovrebbe dolere maggiormente per i 16 morti dell’alluvione rispetto al campioncino che a quell’età era milionario e quindi comunque se l’è goduta (questo il messaggio implicito, espresso più o meno velatamente). Questo soppesare i morti è un giochino nel quale caschiamo un poco tutti, a seconda di quanto ci sta antipatico il “morto ricco e famoso” (chiedo scusa, si fa per capirsi) o il suo contesto.

Ebbene, proprio perché capita a tutti noi di averlo farlo, sarebbe ora che cominciassimo a dirci che mettere sulla bilancia qualche cadavere per vedere quanto debbano pesare i sentimenti altrui è, oltre che un gesto maledettamente volgare, anche un gesto piuttosto ignorante e inutile.

Inutile perché il giochino si potrebbe ripetere allargando sempre più le proporzioni, in genere finendo per “tutti quei milioni di bambini che muoiono di fame” (vi consiglio un “e allora gli adulti che muoiono di fame? Mica muoiono soltanto i bambini” per stupire il vostro interlocutore e vincere così la gara della pietà a parole).

Volgare per due motivi. In primis perché si sente un poco la puzza del voler farsi belli e intelligenti sulla pelle di qualcuno. In secondo luogo perché si pretende di imporre agli altri i propri sentimenti e la propria scala di valori. E’ morto il vostro cane? Non potete piangere, a meno che non abbiate pianto molto quando è morto un vostro amico. E ricordatevi che dovete piangere di più per un parente, anche se è uno zio di terzo grado che non avete mai visto, perché è comunque un parente. (Mio padre non ha pianto una lacrima alla morte dei suoi genitori e sei mesi fa ha seppellito il gatto piangendo come una fontana. Io non ho pianto una lacrima per i miei nonni, ma sembrava che avessi un temporale negli occhi quando è morto il mio cane. Mi sento in colpa? Francamente no. Mio padre nemmeno, credo. Mio nonno capirebbe, credo.)

E qui viene la stupidità. Nel senso che i nostri sentimenti di fronte alla morte sono, appunto, SENTIMENTI. Per natura sono soggettivi e spesso, istintivamente, vanno a toccare corde che nemmeno noi conosciamo con esattezza. Proprio di fronte al dolore scopriamo qualcosa di noi che non conoscevamo, se ci dice bene.

Insomma, l’amore, il dolore, la perdita, l’abbandono… sono cose davanti alle quali ritengo giusto e consigliato sentirsi egoisti. E davanti alla manifestazione altrui di un sentimento così, la reazione più composta sarebbe, in caso non si senta autentica solidarietà, il silenzio. Silenzio inteso come sottrazione al circo della morte, al genere di spettacolo che l’abbiamo fatta diventare.

Vi ricordate quando ci fu la strage in Norvegia, quest’estate? Chi si ricorda il nome dell’isola? Ma come, non eravate così sconvolti da non dimenticarvelo più? Non avevamo messo tutti una bella bandierina norvegese (qualcuno dell’Islanda o della Svezia, cacchio… le fanno tutte uguali) sul nostro profilo Facebook, pronti ad indignarci per quanto accaduto? Qualche giorno dopo morì Amy Winehouse e alcuni cambiarono la bandierina norvegese con la faccina della cantante. Alcuni qualche secondo dopo se ne sono pentiti e sono tornati alla bandiera… Mi immagino la difficile decisione: “Mi dispiace di più per lei oppure per i Norvegesi? Cavolo, i norvegesi erano 93…Però mica avevano scritto un pezzo come “Rehab” quelli…”

Davanti alla morte fidatevi di chi non teme di mostrarsi egoista. I più altruisti, generosi, intelligenti… teneteli alla larga. Altrimenti potrebbe capitarvi di sentire cose come questa (sentita con le mie orecchie) “Hai visto il funerale di Pavarotti?” “Si. Ti dirò, bello, eh… ma mi è piaciuto più quello del Papa”

Bert Jansch

Oggi è morto Bert Jansch, l’uomo che ha insegnato (insieme a Davy Graham) a suonare la chitarra acustica con le potenzialità delle accordature aperte a tutta l’Inghilterra. Nick Drake e Jimmy Page, tanto per dire due nomi mica da ridere, narravano delle ore passate ad ascoltare i suoi dischi cercando di capire come riuscisse ad ottenere certe sonorità. Con una chitarra acustica e una voce, Jansch riusciva a farti sentire, pur rimanendo musicalmente ben ancorato al folk rock di tradizione inglese e celtica, sapori e profumi di Asia e Africa. Il tutto quando le parole “world” e “music” erano ancora intese una indipendente dall’altra. Ho conosciuto la musica di Jansch solo di recente, quando sono stati ristampati alcuni suoi lavori in Vinile 180 grammi. In particolare l’album “It don’t bother me” è uno dei dischi che, quando devo scegliere quale vinile mettere sul piatto, finisce per essere la colonna sonora delle mie serate. Più di ogni altra cosa però, a colpire uno come me, che non ha mai avuto la fortuna di vederlo suonare dal vivo, è un filmato che circola su Youtube. Un filmato girato di recente, dove Jansch interpreta una versione di “Blues run the game”, vecchio brano di un altro grande del folk scomparso prematuramente che risponde al nome di Jackson C. Frank e che Jansch aveva incluso in un suo disco altrimenti piuttosto deboluccio del 1975, “Santa Barbara Honeymoon”. In quel filmato il nostro è ripreso al Pub, per una serie di trasmissioni di non so quale programma che tendono a valorizzare l’aproccio “buona la prima”. Un’esecuzione informale, fatta davanti a una pinta di scura, di un uomo di una certa età. La telecamera, per fortuna, indugia anche spesso sulla mano sinistra di Jansch e ne consente di carpire qualche segreto. L’audio, più che soddisfacente, consente di apprezzarne il tocco. Ecco, se io riuscissi un giorno a suonare per 3 minuti con quella intensità, probabilmente potrei appendere la chitarra al chiodo e sarei ugualmente un uomo felice.

Vieni com’eri

Vent’anni fa usciva Nevermind e oggi si dibatte sulla sua importanza, sul fatto che sia un disco invecchiato male, sul fatto che sia un manifesto generazionale, il tutto con una edizione deluxe che ancora non ha eguagliato quelle dei Pink Floyd con le ossa di Syd Barrett (ci arriveremo, nel 2017, per il cinquantennale di “Piper”, vedrete) ma che poco ci manca.

Io quando è uscito quel disco lì avevo 19 anni, arrivò a Radio Antenna Uno Rock Station, dove avevo cominciato a trasmettere da pochissimo ma che ascoltavo da anni. In radio avevamo TUTTI i singoli del “Sub Pop singles club” e sapevamo benissimo che sarebbe stato un disco importante perché avevamo sentito “Sliver” ed era una gran figata, più pop rispetto al primo album e quindi ti veniva voglia di ascoltarlo più spesso. Andai nella saletta di registrazione e misi su il vinile. Impazzii. Io che quello era un disco che avrebbe fatto epoca l’avevo capito subito. Che quella lì era una roba incredibile l’avevo capito subito. Non lo dico per fare il figo, è così. Quel disco è stato l’ultimo che io abbia ascoltato con quella intensità lì. Avete presente i bambini quando si piazzano davanti ad un palco e saltano e ballano, qualsiasi tipo di musica abbiano davanti? Ecco, io dopo quel disco lì ho trovato dischi migliori, più completi, più strutturati, con canzoni più belle, ma non ho trovato più niente che mi abbia dato quella sensazione lì. Ci sono dischi che me l’hanno data uguale e anche più intensa, ma PRIMA (Velvet Underground & Nico, “Kick Out the jams” degli Mc5, i dischi di Marley, i Doors…) Dopo quel disco lì, nessuno. E dire che oggi se devo dire un solo disco probabilmente direi “Spirit of Eden” dei Talk Talk, che l’ho ascoltato dopo.

Perché in quel momento lì, avevamo bisogno di quel disco lì. Anche che venisse fuori in quel modo. Ricordo che nessuno di quelli che conoscevo volle venire con me a vederli al Kryptonight di Baricella e che ci andai soltanto perché il pomeriggio stesso una ragazza di Fiorano chiamata Alessandra telefonò in radio e chiese “Qualcuno va a vedere i Nirvana e mi da un passaggio?”. Ricordo tutti quelli che ci prendevano per il culo perché due anni prima eravamo andati a vedere i R.E.M. e non Vasco Rossi (che suonava lo stesso giorno) ora mi chiedevano se “potevo fargli la cassetta dei Nirvana”. Ricordo che tutti quei metallari del cazzo con i loro capelli lunghi e il loro guardarsi tronfi facendo le facce durante i mega assoli lunghi, di colpo cambiavano i loro distorsori “Metal zone” del cazzo e si compravano un “Fuzz” come si deve. Ricordo che le belle fighe che non ti degnavano di uno sguardo e i fighettini che idem, di colpo smettevano le loro giacche e scarpe da duecentomila lire e giravano con magliette larghe, camicioni e jeans strappati e si vestivano come te. Iniziavano a frequentare gli stessi tuoi locali e ti salutavano come se fossi stato un loro fratello. Ricordo che li si guardava con diffidenza, quei bastardi figli di puttana. Perché quando per anni prendi delle sberle non ami che qualcuno poi ti piombi in casa insistendo per farti porgere l’altra guancia. Vaffanculo.

Ecco, Nevermind per me è un pezzo di vita che non ritornerà più. Oggi non lo ascolto mai, non l’ho nemmeno in cd e il vinile ce l’ha mio fratello in casa sua da quando glielo parcheggiai perché non avevo spazio. Non l’ho mai ripreso e non l’ho mai ricomprato in cd, anche quando l’ho visto a prezzi tipo 4,90 euro e dire che ho comprato cagate peggiori a prezzi ben più alti.

Il fatto è che Nevermind non è un disco, per quelli che come me (e tanti altri) che lo hanno vissuto all’epoca. Quindi, storicizzarlo non ha molto senso. Dire che “E’ invecchiato male” è un’errore. Perché “Nevemind” è un poco come…che so…la prima ragazza con la quale hai limonato duro. Torni a casa e sei gasato come non sei mai stato. E oggi il ricordo è ancora tenero e bellissimo. Ma se oggi che hai 40 anni esci con una donna e questa dopo aver limonato pesante in macchina non ti chiede di salire (e non sto parlando solo di bere qualcosa), non mi venite a raccontare che andate a casa senza che vi girino un poco le palle.