Se guardi una cosa è perché ti piace.

Una volta c’erano due canali ed erano entrambi della Rai. Era talmente lontano il concetto di concorrenza radiotelevisiva che, quando in un canale iniziava un programma, nell’altro veniva un triangolino sullo schermo che ti avvertiva che dall’altra parte iniziava qualcosa e magari ti poteva interessare.

Poi arrivò Rai tre. Non la guardava nessuno, a tal punto che si scherzava sul fatto che le spie si comunicassero i messaggi di segretezza nazionale mandandoli in onda su RaiTre.

Poi iniziarono le private.

Oggi possiamo vedere e ascoltare praticamente qualsiasi cosa, presente o passata, in qualsiasi momento e possiamo farlo quasi sempre in maniera gratuita o a costi che non esiterei a definire irrisori.

Quindi, se guardate X Factor, lo fate perché vi piace. Dite di no, ma in realtà lo fate per quello.

Oppure lo fate solo perché volete parlare male di Agnelli o di non so cosa e in quel caso, scusate, ma siete semplicemente degli imbecilli.

Quei Mazzoni dei Coldplay

Secondo me, poi magari mi sbaglio ma secondo me è proprio così, al netto delle scelte politiche e ideologiche dettate da questo o quel partito, uno che spende più di 500 o 1000 europei all’anno per comprare dei dischi, che sono degli oggetti che servono a fare cose che si possono fare gratis o pagando molto ma molto ma molto meno, poi non è che può andare troppo in giro a dire “Stupido imbecille” a uno che spende centinaia di europei per andare a sentire dei tizi che suonano lontani lontani per vederli su un megaschermo.

Poi, ad esempio, a me piace molto Emiliano Mazzoni. Che dal vivo non costa niente, ma io invece ho il disco.

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LEONI PER AGNELLI

Una volta, credo fosse il 2010, ero alla festa dell’Unità del parco Secchia di Villalunga, in provincia di Reggio Emilia. Forse non si chiamava più “Festa dell’Unità”, ma in Emilia le feste dell’Unità le continui a chiamare festa dell’Unità per sempre, anche se da domani dovesse iniziare ad organizzarle Casa Pound. Che poi povero Ezra, finire tirato in ballo alla cazzo di cane così solo perché non si poteva chiamarle “Casa Benito” o “Casa Salò” che altrimenti si vedeva.

Comunque, fatto sta che sono a Villalunga al parco Secchia e c’è un dibattito sulla musica in Italia che non ricordo come si chiamasse, ma era il classico dibattito dove ci sono un poco di ospiti e c’è un assessore, un cantante, un giornalista, uno che tutti si chiedono chi sia e perché sia lì.

Il cantante che partecipava al dibattito era Alberto Fortis. Alberto Fortis era appena andato a “Music Farm”, credo. Non so se fosse quello, che io quei cosi lì non li ho mai guardati perché non mi piace l’idea. Comunque, era uno di quei cosi lì.

Io e mia moglie ci stavamo godendo una passeggiata dopo cena, che è quello che in genere vai a fare a Villalunga al Parco Secchia quando c’è la festa dell’Unità, visto che c’è sempre fresco anche d’estate.
Siamo lì che passeggiamo e uno del dibattito chiede ad Alberto Fortis come mai sia andato a Music Farm, lui che fa musica di qualità.

(Un giorno mi spiegherete anche perché la musica di chi ti piace è “di qualità” automaticamente indipendentemente dal tipo di musica, ma questo è un altro discorso).
Fortis disse che non bisognava demonizzare i talent ed essere snob, infatti lui disse che era andato a “Music Farm” proprio perché voleva portare la musica di qualità in un programma dove solitamente non c’era.

Disse proprio così, che mi immagino come erano contenti quelli che erano a Music Farm con Fortis a sentirsi dire implicitamente che loro facevano musica di terza scelta mentre lui faceva quella di qualità.

Perché quell’anno lì Fortis andava in giro da solo nei dibattiti d’estate e c’erano quelli che si fermavano a guardarlo dicendo

“Dai, quello che era a Music Farm” (strano il fatto che non aggiungessero “dai, quello che fa musica di qualità”, ma non si può avere tutto).
Come accadde quella sera a Villalunga di Casalgrande, quando un giornalista, un assessore e uno che non so chi fosse, chiesero a Fortis di parlare della sua musica di qualità.
Poi successe che l’anno dopo (2011) a Casalgrande organizzarono un sacco di concerti al Teatro De André e uno di questi era di Alberto Fortis, che faceva musica di qualità. La cosa funzionò, tanto che Fortis tornò anche qualche anno dopo (2015) a Casalgrande a suonare la sua musica di qualità.
Sempre nel 2011, a Casalgrande, organizzarono anche una data di Robyn Hitchcock, ma purtroppo la dovettero annullare. Non avevano venduto abbastanza biglietti.

Capita, quando non fai musica di qualità.

(Sabato 14 suono a Firenze, Bar Ulisse, area San Salvi. Gratis. Musica di qualità, ci mancherebbe)

A Roma nr. 2 – Postilla (Ma anche a Udine e Pistoia, per dire. E sabato a Firenze)

Io a Roma non ci avevo mai suonato. Ci ho suonato il 3 Aprile, un mese fa, una domenica. Al Pigneto, il quartiere dove stanno succedendo tutti questi begli accadimenti dei localini che chiudono.

Sono stato a suonare in un posto chiamato Klamm, dove ho conosciuto Emiliano Angelelli, che è uno proprio bravo, che organizza le cose per bene, mi sono divertito molto, ospitalità squisita.

Ho dormito in un B&B a cinquanta metri dal locale. Pulito, ben tenuto eccetera. Ho trovato parcheggio sotto al B&B, solo che ero un poco sulle strisce pedonali e io che sono un provinciale mi facevo dei problemi ad avere la macchina lì, poi ho capito che se a Roma non parcheggi da cazzo ti guardano male.

Mentre sono lì che entro, vedo un tizio che si apposta sotto una finestra e spia dentro. Mi faccio i cazzi miei, poi entro e dopo un poco, mentre cerco di dormire un attimo, sento un gran casino. Esco e c’è un tizio che urla dietro all’altro tizio, arrivano alcuni amici, si urlano in faccia cose, alcuni hanno un bastone in mano. Arriva la polizia, prende i documenti, i tipi continuano a girare con il bastone. I poliziotti hanno l’aria di quelli che verrebbero sopraffatti in un secondo, se solo i tizi volessero. Ad un certo punto, il tizio più rumoroso, il classico coatto romano, va in casa e si prende una birra e poi torna fuori. L’altro gli urla delle cose su sua madre, allora il tipo dà la birra in mano al poliziotto dicendogli “Me la reggi?” e poi prende un bastone in mano e minaccia quell’altro. Il poliziotto stà lì con la birra in mano per un minuto, come un cameriere qualsiasi, sbadigliando. Poi il tipo torna. I poliziotti prendono i nomi, mentre lui appoggia la lattina di birra sul tergicristallo della macchina della polizia. I tipi si minacciano a vicenda davanti a tutto il quartiere, la polizia se ne va dopo che l’altro tipo (quello che urlava le robe sulla madre) se ne è andato. Poi i tizi continuano ad urlare per strada, con i bastoni in mano. Tutto sotto la mia finestra.

Però il problema del Pigneto è la musica dal vivo che richiama i malintenzionati. Il problema di Pistoia è che ci suonano dentro in acustico e disturbano. Il problema di Udine è che gli africani telefonano a casa scroccando un wi-fi.

Sabato sera suono a Firenze, a San Salvi, al Bar Ulisse, nell’ex-manicomio. Sempre che non arrivino i matti, con una divisa, a far finta di essere dalla parte della legge.

A me piaceva il concertino. Quello con la granella e l’amarena dentro. E dire che l’amarena mi fa schifo. Però il croccante dell’Algida era più buono, ché aveva la granella grossa.

Una volta, sarà stato il 1995 o giù di lì, ero a bere qualcosa con uno di un gruppo che era stato invitato al concerto del primo maggio. Mi disse che avevano deciso di non andare, perché li avrebbero fatti suonare molto presto e “Non c’era la televisione”. Disse che se non c’era la televisione, allora non ne valeva la pena. Lo stesso gruppo, in quel periodo lì, in ogni concerto diceva dietro a Berlusconi dal palco e parlava (sempre dal palco) di “Telecrazia”, diceva (sempre dal palco) che un milione di persone in piazza contro Berlusconi non servivano a niente perché gli italiani erano un branco di rimbambiti dalla televisione. Penso che avessero ragione in tutto, però ora il gruppo al primo maggio ci va spesso, ci va in orari che la televisione c’è e dice sempre delle cose belle su questa piazza, sui sindacati, cose così.

Anni fa, un rapper che stava suonando al primo maggio, si fermò dalla sua performance perché la televisione interrumpe il collegamento per fare andare il tg3. Poi, quando riprese il collegamento, ricominciò a cantare. Alcune centinaia di migliaia di persone che erano lì non contavano niente, erano solo tappezzeria. Ci voleva la tv.

Ogni tanto succede che un gruppo o un artista di quelli che vengono invitati al primo maggio venga tagliato dalla televisione e da qualche anno a questa parte, quando succede, si arrabbia molto e mette un pistolotto su un social network circa la mancanza di rispetto o dice cose tipo “Vaffanculo” o mostra il dito medio. Si incazza perché non va in televisione.

Ogni anno succede che ci si lamenti della qualità dell’audio del concerto del primo maggio, che in effetti fa sempre schifo perché in Italia i fonici in tv non riescono a fare sentire le frequenze basse, si vede che c’è qualcosa che non va nelle loro orecchie. Però il concerto lo si guarda in televisione.

Ogni anno succede che si commenti il concerto del primo maggio dicendo che fa schifo, ed in effetti fa abbastanza schifo, che se devo pensare al cast del concerto di quest’anno, io ad esempio ho solo tre o quattro dischi in casa su quei duemila che ho. Poi però, questo concerto che ci fa schifo a tutti, poi succede che un anno ci invitano e allora non fa più così schifo anzi è una bella esperienza, è una bella occasione, comunque si va in tv e magari dopo per un annetto ai nostri concertini c’è un poco più gente che di solito non c’è un cane e c’è gente che aspetta il primo maggio solo per quella cosa lì. Per la televisione.

Ogni anno succede che il concerto fa schifo, poi arriva un tizio che conosciamo sul palco e allora “Grande!!!”, “Te lo meriti”, “Bravo”, “Tizio e Caio in diretta sulla Rai, daje!!!” Perché lo vediamo in televisione.

2 Maggio. Stamattina vado in ceramica, a lavorare. La televisione non c’è.

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Quando smettere di suonare? (Un chiodo ancora vuoto dentro al muro)

Ognuno di noi, intendo di noi che suoniamo, ha dei momenti nei quale decide di dire basta. Poi passa, in genere. E’ un poco come una batteria di un cellulare, più volte la ricarichi e meno dura, fin quando sei costretto a buttarla e a provare, magari, a cambiare batteria.

Succede che suoni in una band e ad un certo punto gli anni iniziano a farsi sentire e quindi il fatto di non andare da nessuna parte musicalmente inizia a pesare. Inizi a chiederti chi te lo fa fare, di andare a fare le prove ogni settimana per fare cose che nessuno vuole ascoltare.

La risposta, dopo qualche mese dove vai ugualmente e sempre con meno voglia, è che è ora di farla finita. In genere a quel punto uno del gruppo si prende la briga di causare il terremoto. Se il gruppo è compatto e unito, il tizio che dice basta viene rimpiazzato senza grossi problemi e questo potrebbe pure portare un poco di aria fresca e una nuova voglia di fare. Se invece il tizio che causa il terremoto non può venire rimpiazzato senza grandi traumi, allora il gruppo finisce.

A quel punto segue, in genere, un periodo di stop. In questo periodo pensi a quel che vuoi fare, musicalmente parlando. Hai tutto il tempo che vuoi, sei un dilettante della musica, puoi crogiolarti nel tuo dolore per quanto tempo lo ritieni giusto e nessuno si verrà a lamentare.

Ad un certo punto ritrovi la voglia. Ricominci con qualcosa di nuovo. Può essere un altro gruppo, può essere che ti metti a registrare in casa musica da film, insomma… ricominci. Dopo qualche tempo che ricominci, il tuo nuovo lavoro viene portato di nuovo in giro. Riparti dai contatti che avevi quando eri nella band, di solito. Mano a mano riesci ad incasellarti una serie nuova di contatti e di posti dove suonare, magari anche in ambienti che non ti saresti aspettato visto il tuo passato musicale. E’ questo il momento più bello. Quando qualcosa che vedi che hai creato sta crescendo e non sai fino a dove potrai arrivare. Magari arriverai solo un metro più in là, ma questa incertezza, unita allo stupore nel vedere che qualcuno è ancora disposto ad ascoltarti, è una carica che ti fa andare avanti con una gioia incredibile.

Quando ho smesso di suonare con una band e ho cominciato da solo, all’inizio non avevo idea di cosa mi aspettasse. Non sapevo nemmeno bene cosa avrei fatto sul palco. Iniziai in inglese, come avevo sempre fatto, poi visto che da un poco pensavo che forse ero anche capace di scrivere dei testi decenti, iniziai a cantare in italiano.

Durante un concerto a Pistoia capii che il destino di chi canta da solo è di affrontare una platea super rumorosa. Anche quando suoni con una band, in realtà, metà del pubblico si fa i cazzi suoi. Ma tu sei immerso in una mole di suono tale che non li senti, non te ne accorgi. Se te ne accorgi, non sembra comunque una cosa grave.

Quando suoni da solo, ti sovrastano. Se riesci a farli tacere, bene. Se non ci riesci, sei fritto.

E’ una battaglia. Ogni volta. Un giorno vi spiegherò anche le armi con le quali si combatte, questa battaglia. Almeno quelle con le quali la combatto io, non necessariamente le più adatte.

Ci sono momenti in cui la battaglia la vinci, in genere si accompagnano a momenti in cui il tuo nome gira un poco di più rispetto a prima. Magari gira meno di quanto girerà l’anno dopo, ma sei in crescita. Se, per fare un esempio, oggi sei a 30 e domani sei a 35, è più facile che vinci una battaglia rispetto a quando magari l’anno seguente sei a 70, ma ieri eri a 75. Capito? E’ proprio il modo, con il quale vai su a suonare.

Perché quando una cosa cresce, lo senti. Quando una cosa ristagna, ristagna. E’ come quando arrivano i CD la prima volta che fai un cd. Arrivano e sei gasatissimo, il primo giorno li porti negli unici 3 negozi che sono rimasti aperti, giri per le due radio che sono rimaste aperte, mandi post a destra e a manca e sei di buonumore.

Poi, mano a mano che fai un altro disco, poi un altro, poi un altro ancora, l’entusiasmo cala. Magari ne vendi pure di più, magari hai più gente a guardarti quando suoni. Però ti senti che sei “sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai stai lì”, come dice quello di Correggio.

Sono i momenti in cui ti chiedi quando arriverà il momento di smettere. I momenti in cui pensi che forse è arrivato, anche se poi trovi qualcosa che ti fa andare avanti ancora. Quel qualcosa che è come una droga il cui effetto dura sempre di meno.

LUNEDI 21 SETTEMBRE renderemo visibile il video di un brano chiamato “IL CHIODO”, che parla proprio di questa cosa qui. E’ girato da Corrado Ravazzini, un amico che con un suo corto chiamato “Perfetto” ha vinto qualcosa come 41 premi in diversi festival di cortometraggi. Protagonista del video sarà Vincenzo Maenza, medaglia d’oro nella lotta greco-romana 48 kg. a Los Angeles 1984, Seoul 1988, argento a Barcellona 1992, campione del mondo e d’Europa. Il più grande lottatore italiano di tutti i tempi, a dirla proprio come va detta.

(Oggi mi sono arrivati i CD del mio nuovo album, si chiama “TROPPO TARDI”. Nei prossimi concerti li avrò con me. Non ci sarà nessuna “PRESENTAZIONE UFFICIALE”, perché in realtà è un concerto come un altro e di prendere per i fondelli le persone mi sono rotto)

Carmen Consoli, David Byrne, Bob Dylan, Dave Van Ronk.

Quando Bob Dylan scrisse “Blowin in the wind” e iniziò a suonarla al Cafè Wha? nel Greenwich Village di New York, ci furono un paio di cantanti appartenenti a quella scena folk che si stava facendo strada che iniziarono a parodiarla istantaneamente prendendo in giro quel giovane cantautore puzzolente e sfrontato del Minnesota.

Cantavano tra loro “The answer, my friend, is blowin’ up you end” per prendersi gioco di lui.

Dave Van Ronk, eccellente folksinger anche lui facente parte della piccola comunità, drizzò le antenne e si mise a pensare. Pensò che se Dylan aveva cantato la canzone solo una volta e già girava la parodia tra i suoi “colleghi”, probabilmente questo voleva dire che la canzone era maledettamente buona e che sarebbe rimasta lì a lungo. Pensò che Dylan non aveva una gran voce, suonava la chitarra in maniera poco precisa, l’armonica non ne parliamo. Però aveva uno stile, lo sentivi subito che era lui e ti rimaneva impresso nella memoria talmente tanto che bastava un ascolto.

Carmen Consoli è stata invitata al Meltdown Festival a suonare, unica italiana. Il festival è curato da David Byrne, ex cantante dei Talking Heads. Qualcuno dice “Brava”, qualcuno dice che David Byrne si è rincoglionito, qualcuno dice che la Consoli fa schifo.

La Consoli ha uno stile. Canta in un modo che lo senti subito che è lei. Può anche farti schifo, ma capisci subito che non è nessun altro. Quei singhiozzini lì si fanno prendere in giro con enorme facilità, se uno vuole fare una imitazione della Consoli per ridere ci mette due secondi. Segno ulteriore che la signora ha uno stile. Il suo.

Non so chi sia Dylan e chi sia Van Ronk, in questa storia. Credo però che tutti quelli che stanno dicendo su alla Consoli e a Byrne siano come quei due cantautorini che cantavano “Is blowin’ up your end” al Café Wha?.

Due tizi dei quali non è rimasta alcuna traccia. Nessuno sa chi sono, perché effettivamente non sono nessuno.

INDIPENDENTE? BASTA.

Dichiaro ufficialmente che da oggi in avanti non utilizzerò mai più il termine “INDIPENDENTE” a sproposito in ambito musicale.

Una parola, quando tolta da un contesto e infilata a forza in un altro, produce una distorsione del linguaggio e crea solo confusione.

Le parole esistono già. Si può dire “piccolo” in maniera generica, ma anche “autoprodotto”, “autodistribuito” e ci sono miriadi di termini che ci possono rendere la vita facile senza bisogno di svuotare di significato una parola così nobile.

In particolare, qualora uno non riesca a provvedere al proprio sostentamento con la musica , la parola “DILETTANTE” è perfettamente calzante. Se suona male non è colpa dei dilettanti e nemmeno dei professionisti, ma solo di chi rifiuta la realtà.

Chiedo a tutti coloro che leggono questa dichiarazione pubblica di ammonirmi qualora in futuro io dovessi malauguratamente, per abitudine o per distrazione, riutilizzare la parola che non voglio più usare a sproposito.

24 Luglio 1908

“Quando passo Hefferon egli mi guarda a lungo con un’occhiata tanto triste e poi si sdraia a terra. Sono primo. Potrei rallentare, ma invece sono preso da una furia di andare più in fretta. Mi sono dominato sicché avevo dinanzi a me qualcun altro: ora che la via è libera davanti a me non so più frenarmi. Passiamo fra due ali di pubblico che non vedo, ma odo. Guardo sempre in fronte per cercare qualche cosa che non vedo ancora perché la strada fa molti giri. Ad un tratto, ad uno svolto, do un balzo. Vedo là in fondo una massa grigia, che pare un bastimento col ponte imbandierato. È lo stadio. E poi non ricordo più.”

(Dorando Pietri)

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