Quattro lesbiche. Due coglioni.

Sembra che il presidente della Lega Nazionale Dilettanti di Calcio abbia detto, durante una riunione, della sua intenzione di non dare troppi soldi al calcio femminile.

La frase, che è finita a verbale, è la seguente

«Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche»

Il soggetto in questione sostiene di non aver mai detto nulla del genere.

La verità non la so.

Stamattina la Gazzetta dello Sport riportava la cosa in prima pagina. Articolo, titolo, occhiello.

Nell’occhiello c’era scritto “Le frasi contro le lesbiche”.

Stessa frase nell’articolo a pagina numero boh.

Non “contro le calciatrici”. Contro le lesbiche.

http://www.gazzetta.it/primapagina/

L’articolo, dentro, è a firma di due tizi che non mi ricordo come si chiamano. Ma sono due. Come i coglioni.

Facciamoceli noi

Quando ero piccolo, giocavamo a pallone per strada. Se si era in pochi (in cinque o sei) allora si giocava a porta unica. La porta spesso era un cancello di un’abitazione, il campo era la strada e per fare il “contropiede” si doveva tornare indietro fino ad un certo punto. Così fingevamo di avere un campo da calcio vero. Spesso fingevamo anche di avere un pubblico, nel senso che quando segnavamo correvamo urlando e ci arrampicavamo su una qualche staccionata esultando come i calciatori facevano negli stadi. Spesso, quando facevamo questo, urlavamo anche il nome di un calciatore. Tipo che se avevi appena segnato con un gran gol, correvi esultando e urlavi “PLATINI” o cose del genere, per sottolineare la tua grande prestazione in strada.

Ieri sera sono stato dai miei, in quelle strade dove giocavo a pallone da bambino.
Quando vado dai miei finisce che guardo sempre un poco di televisione, i miei la guardano.

C’era un dibattito, su RaiDue, dove parlavano dei NoTav, NoExpo, Nostocazzo. Si chiamava “I blocca Italia” o una roba del genere. C’erano ospiti in studio. Direttori di giornali, opinionisti e cose così. Gente che dava l’impressione di essere ben pagata.

Ognuno diceva la sua, litigavano tra loro, andavano uno più fuori tema dell’altro, non arrivavano mai da nessuna parte, non portavano uno straccio di dato a quel che dicevano, ogni volta che andavano fuori tema il conduttore mica spiegava loro che stavano andando fuori tema da dove erano partiti, ma li lasciava parlare. Poi, dopo qualche minuto il conduttore diceva “Ma adesso vorrei parlare di…” e cambiavano un poco discorso. Stesso schema.

Sembrava di essere su Facebook, però con dieci giorni di ritardo per gli argomenti trattati.

Ecco, volevo dire che secondo me se quei programmi lì li facessimo noi cittadini comuni, sorteggiandoci la partecipazione a turno, servirebbero tanto uguale e si risparmierebbero un sacco di soldi.

TROPPO TARDI

Il mio prossimo album si chiamerà “TROPPO TARDI”, uscirà ufficialmente il 2 settembre 2015, esattamente settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Ci saranno 8 canzoni. I titoli? Eccoli.

1. NAKAMURA
2. GALLERIA
3. NEL MONDO CHE FAREMO
4. ELICOTTERI E CANI
5. IL LIMITE
6. MOTIVI FAMILIARI
7. FIORI
8. IL CHIODO

Il disco è stato registrato a Gennaio all’Igloo Audio Factory di San Prospero di Correggio (RE) da Andrea Sologni con l’aiuto di Raffaele Marchetti.

Uscirà per New Model Label/Controrecords.

Il disco è stato registrato utilizzando solamente chitarre e voci, ai quali abbiamo applicato ogni sorta di effetto digitale o analogico, per farle sembrare (anche) decisamente qualcos’altro. Non aspettatevi un disco folk.

La copertina e l’artwork saranno di mia moglie Cristina.

Votate per me.

Non è tanto che in tanti suonatori ti chiedano di votarli per andare a suonare al primo maggio a Roma in piazza. Quello è normale, si prova un concorso e si tenta la fortuna facendosi pubblicità come si riesce.

E’ quando scrivono “Aiutaci a realizzare un sogno”.

Sogno? Suonerete 3 canzoni se va bene, in un palco dove sentirete tutto a cazzo di cane, il tempo che si gira il palco e avete già finito, il pubblico è lontanissimo e non vedrete nulla, non capirete manco dove siete.

Se quello è un trampolino per sperare di arrivare altrove, capisco benissimo. E allora magari farete di tutto per farvi notare, lancerete un proclama politico da due soldi o farete come quello che si è tirato giù le mutande e l’unica cosa che abbiamo capito è che ha il cazzo piccolo.

Ma se il vostro sogno è quello, se quello è il vostro punto di arrivo, lasciatevelo dire: siete messi male.

Allievi di Allevi.

E’ uscito un libro di Saturnino, il bassista di Jovanotti (e non solo, ma si fa per capirsi). Parla di un sacco di colleghi, dicono parli bene di tutti più o meno.

Parla male di Allevi.

Dice, in sostanza, che era un tignoso rompicazzo e che spara un sacco di balle. Tipo che racconta che questo o quel pezzo sono stati scritti in una particolare occasione e invece li aveva già nel cassetto. Dice che sua moglie, che gli fa da manager, è una cagacazzi. Ovviamente non dice così, il tutto è più circostanziato e attendibile.

C’è un passaggio che mi è rimasto impresso. Quando parla del manager di Allevi che lo ha fatto emergere, un tale che si chiama Vitanza, una di quelle figure del music business che nessuno conosce tranne gli addetti ai lavori e che spesso fanno la differenza tra un artista famoso e uno no.

Dice che Vitanza era un maestro della comunicazione e che, per fare un esempio, ebbe la grande idea di fare un concerto al Blue Note di New York e poi dire “Tutto esaurito al Blue Note di New York”. Il che era vero, badate bene. C’è che poi il Blue Note è un buco che (parole di Saturnino, più o meno) se ci metti quelli dell’ambasciata italiana e del consolato su invito, allora è già pieno.

Questa cosa qui, del fare sembrare la cosa di più di quel che si è, la facciamo tutti. Ognuno fa quel che può, però ad esempio io potrei dire che ieri sera al Pantagruel di Casale Monferrato (dove ho suonato) non c’era un tavolo libero. Tutto esaurito. Altre volte ci ho suonato (tre o quattro) e c’erano persone in piedi ammassate all’entrata.

Ora, vi sembra una cosa molto figa, in realtà ieri sera al Pantagruel c’erano venti persone. Il posto è molto piccolo, se uno occupa un tavolo da solo, in un altro sono tre, in un altro due, insomma…. Il posto sembra pieno. O meglio, lo è. Ma se dico “posto pieno” fa un certo effetto, se dico “Ieri sera erano in venti” sembra una schifezza.

Il concerto ieri sera è stato molto bello. Le venti persone che c’erano erano molto contente, hanno tutti comprato qualche disco, è stata una serata molto piacevole dove ci siamo divertiti tutti. Un tizio è venuto da Torino, da solo in macchina, fino a Casale Monferrato apposta. Era contento come una pasqua e io non lo avevo mai visto in faccia in vita mia. Che figata. Penso che il Pantagruel sia uno di quei posti dove io suonerò sempre, mi basterà chiedere quando sono liberi. Ne sono contento. Molto.

Ecco, questa cosa qui, dello svelare le cose, del cercare il più possibile di dire la verità, io la vado predicando da tempo. Sono perfettamente cosciente che a dire la verità ci si rimette, a fare come fa il Vitanza si fa il proprio lavoro come si deve fare. Non è mica che io sono un santo. Ho sparato balle per un sacco di tempo, pure io. Oggi non ho niente da perdere, ho deciso che è ora di cambiare rotta.

Perchè?

Perché credo che, se non avete vent’anni e ormai le prospettive che avete davanti sono quelle di una vita di lavoro e di suonare soltanto nel tempo libero, guidati dalla vostra passione, sia un dovere sociale cercare di dire la verità.

CERCARE, perché i vizi sono duri a morire e come si può stare vent’anni senza fumare e poi ripartire di colpo, anche il vizio di ingigantire una bella cosa può ripresentarsi in maniera involontaria.

Però credo che noi che abbiamo passato i 35-40 dovremmo cercare di farlo sempre. Perché credo che lo dobbiamo alle nuove generazioni. Se noi raccontiamo loro la verità, a loro non toccherà perdere tempo inseguendo sogni che non valgono nulla, trovandosi con un pugno di mosche in mano quando magari si erano fatti un’idea sbagliata. Un’idea che gli avevamo dato noi. Inoltre, in questo modo chi verrà dopo di noi riconoscerà prima i mille trucchetti del caso.

Forse in questo modo faremo davvero crescere una scena musicale consapevole. Forse no. Quantomeno, avremo meno Allevi tra i coglioni.

40 anni fa – La fine della seconda guerra mondiale.

Si chiamava Teruo Nakamura, anche se il suo nome aborigeno era Attun Paladin. Veniva dall’isola di Taiwan ed era nato nel 1919. Arruolato nell’esercito giapponese, venne spedito nella piccola isola indonesiana di Morotai come parte di un’unità militare chiamata “Volontari di Takasago”. Morotai fu teatro di una cruenta battaglia nel 1944, al seguito della quale tornò sotto il comando alleato.

Nakamura non venne catturato, rimase nascosto insieme ad altri suoi commilitoni fin quando, in circostanze mai completamente chiarite, li abbandonò e si costruì un piccolo campo solitario. Una capanna, una decina di metri di terra recintata.

Aspettò lì che le cose si mettessero meglio. Resistette, fin quando un pilota non si accorse di questo curioso accampamento e chiamò le autorità, che non senza qualche difficoltà procedettero al suo arresto e lo costrinsero ad arrendersi.

Era il 18 dicembre del 1974.

Nonostante il Giappone avesse firmato la resa il 2 settembre 1945, erano molti i soldati giapponesi che erano stati ritrovati dopo quella data. Anzi, proprio nel 1974, in febbraio, era stato catturato Hiro Onoda, un ufficiale dell’esercito giapponese rimasto nascosto nelle Filippine. Visto che era tanto tempo che non se ne trovavano più, Onoda era stato riportato in patria, il suo nome fece il giro del mondo, scrisse un libro, tenne conferenze, la sua storia diventò celebre.

Il Giappone non aveva voglia di un secondo “ultimo soldato ad arrendersi”. Non si trattava solo del fatto che quando una storia viene promossa dalle televisioni e dai media, poi non hai voglia di un altro ritrovamento che la smentisca. E’ anche che Nakamura era un soldato semplice e non un ufficiale. Ma più di ogni altra cosa, era di Taiwan, isola che nel frattempo era tornata sotto la Cina dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale. L’ultimo ad arrendersi, ad incarnare l’eroismo cieco nipponico, non poteva essere un cittadino cinese.

La posizione della Cina stessa su Taiwan appariva (e ancora oggi appare) un tantino controversa, ragion per cui anche il governo cinese non gradiva eccessiva pubblicità.

Nakamura venne dunque rimpatriato direttamente a Taiwan, per lui non ci furono parate militari, gloria e onore. A Taiwan, Nakamura incontrò di nuovo una moglie che nel frattempo si era abituata all’idea del marito morto in guerra e da vent’anni si era risposata.

La sua nuova, confusa vita, vide un’imbarazzante querelle tra i governi di Cina e Giappone su chi dovesse accollarsi la paternità della sua missione e su chi dovesse provvedere al suo sostentamento. Nakamura infatti al momento del suo arresto era ufficialmente un apolide.

Alla fine di questa tragicomica farsa, Teruo Nakamura venne liquidato dall’esercito al quale aveva prestato servizio in completa solitudine per 29 anni più del necessario.Egli rimane, al momento, l’ultimo giapponese ad essersi arreso, visto che i successivi ritrovamenti di soldati nelle varie aree di guerra si sono poi rivelati falsi per attirare i turisti o semplici errori di ricerca.

Il compenso per la sua abnegazione e la sua fedeltà fu nient’altro che la pensione minima di un soldato semplice. Sessantottomila yen, più o meno l’equivalente di mille euro al giorno d’oggi.

Nakamura è morto di cancro, nel 1979, soltanto cinque anni dopo il suo rimpatrio.

Un giorno, nel futuro, forse…

Un giorno, nel futuro, forse, al momento del caffé, ci alzeremo da tavola e mentre ci stiamo mettendo sulla poltrona, parlando del più e del meno con i nostri nipoti che ci saranno venuti a trovare un poco controvoglia, ci scapperà di parlare di uno scienziato che aveva fatto una cosa che chissà cos’era ma che aveva una camicia che ci ricordiamo benissimo.

Poi dice che li mettono all’ospizio, i vecchi.

MEI CULPA

Il MEI, Meeting delle Etichette Indipendenti, chiude i battenti. Quella che comincia dopodomani sarà l’ultima edizione. Lo ha detto oggi il suo creatore, Sangiorgi.

Per alcuni è la fine di un’epoca, per altri è la fine di una grossa fiera della fuffa, per altri è la fine e basta, per altri ancora è solo mercoledi 24 settembre.

Ebbene, personalmente ho già letto troppe dichiarazioni tonanti e spavalde che si rallegrano della cosa, che denunciano i presunti metodi paramafiosi che garantivano l’accesso al Meeting delle Etichette Indipendenti e cose così.

Non mi va di unirmi al coro, soprattutto perché sono anni che certe cose le diciamo tutti sottovoce; poi però eravamo tutti in fila quando c’era da prendere una targa, un piccolo riconoscimento, anche solo un applauso. Proprio perché non siamo INDIPENDENTI per un cazzo, ma siamo pronti a dipendere dal primo cretino che passa con un poco di potere, sia esso derivato dalla posizione economica o addirittura soltanto dalla moda del momento.

Ecco perché mi fa schifo che, dopo anni di “pissi pissi bao bao” oggi il tono di voce della maggior parte dei musicisti poveri si alzi e faccia il verso a quello di Mel Gibson in “Braveheart”.

Chi scrive è stato premiato al MEI, nel 2009. Miglior Album Autoprodotto per “L’età della ragione”. Chi scrive pensa pure, senza false modestie, di esserselo meritato. E ne va pure orgoglioso.

Chi scrive lo disse, da quel palco e al microfono, come stavano le cose nell’ambito delle etichette indipendenti. Lo disse quando, introdotto da Federico Guglielmi che diceva “Non ha trovato un’etichetta e quindi ha fatto l’album da solo” ci tenne a puntualizzare un paio di cose.

Il filmato lo potete vedere qui:
Premio Autoproduzioni 2009

Chi scrive lo dice da tempo che “indipendenti” ormai è una parola vuota, che sottointende “poveri”.

Chi scrive lo disse, nel corso di un’intervista a Rai Stereonotte seguita a quella premiazione, che autoprodursi o uscire con un’etichetta indipendente è quasi sempre la stessa identica cosa, che la scena indipendente è una tigre di carta e la maggior parte delle etichette indipendenti non esiste nemmeno sulla carta, ma è solo un marchio stampato su un disco che manco esiste legalmente e che se uno con qualche centinaio di migliaia di euro da buttare volesse depositare quei marchi e poi fare causa a tante di quelle presunte etichette, ridurrebbe sul lastrico tanti poveri sfigati.

Insomma, il Meeting delle Etichette Indipendenti chiude perché praticamente non esistono più le etichette, siano esse indipendenti o no.

A quel punto resta solo il Meeting. E per incontrarsi non ci vuole un ente fiera.

Basta un bar.

Il bufalo può scartare di lato e cadere (e il mio nome era Buffalo Tom)

E’ stato un lampo, qualche giorno fa. Arrivare a capire che forse i Buffalo Tom non si erano mai sciolti, avevano solo aspettato un poco dopo le due raccolte che avevano fatto uscire, come ogni tanto un guerriero deve fermarsi a riposare.

Perché il sospetto era lecito. Forse però la fregatura è stata attenderlo così tanto tempo, questo “Three Easy pieces”. Ed è una delusione. Non che non fossi abituato alle delusioni, soprattutto quando si parlava di gruppi che si riuniscono dopo parecchio tempo. La delusione più grande di tutte fu vedere la reunion dei Velvet Underground a Bologna, nel 1993. In prima fila, contro la transenna davanti a Lou Reed. Una folla quasi oceanica, i pezzi suonati con un suono addomesticato, non facevano più male. Certo, Moe era uno spettacolo, in piedi a smazzare su quei tamburi. Però come mai durante il crescendo di “Heroin” c’erano centinaia di persone che saltavano ritmicamente urlando “he, he, he” come se fossimo allo stadio? Quella canzone parlava di un tossico che ha deciso di stare definitivamente dall’altra parte, qualunque conseguenza comporti. Cosa c’era da esultare?

Idealizzare è pericolosissimo. La realtà prima o poi arriva e ti chiede di colmare lo scarto e non sempre la tua vita è pronta per compiere tutta quella distanza in così poco tempo. A volte arrivi impreparato.

Ma i Buffalo Tom dal vivo erano stati grandi. Li avevo visti a Baricella, tra Bologna e Ferrara, in un palestrone chiamato Kryptonight, in mezzo alla nebbia emiliana. Nello stesso posto avevo visto pure i Nirvana, nei giorni in cui, anche se stavano esplodendo proprio in quel periodo, uno poteva pure vantarsi di essere andato lì per vedere gli Urge Overkill, che fecero un set con un’acustica terribile. Noi sì che eravamo snob come si deve, mica come quelli che si vantavano di essere venuti per i Melvins, nel 1994. L’eccitazione non era paragonabile, tanto che la sera dei Nirvana chi era rimasto fuori sfondò una porta di sicurezza e volarono botte da orbi, la capienza arrivò ad essere ben oltre il limite di sicurezza, era tutto molto pericoloso e quindi molto eccitante, come a 19 anni chiede di essere eccitante subito e senza possibilità di appello, una serata fuori.

I Buffalo Tom avrebbero potuto essere ancora più eccitanti. Fino al punto che ancora oggi c’è chi sostiene di ricordarsi il gruppo spalla e di essere andato lì apposta per loro (“Bravi. Com’è che vi chiamate? Black Babies? Ah no…Blake, come William Blake, ok”).

Una sera, nella discoteca dove andavo a ballare di solito in quel periodo (Albert Hall) perché ci metteva i dischi Antenna Uno, dove avevo appena cominciato a trasmettere, dopo aver riempito la pista con “Smells like teen spirit”, il dj (Giuliano Ghini) aveva messo “Velvet Roof” per cercare di lanciare un pezzo nuovo che potesse, con la dovuta insistenza sabato dopo sabato, diventare una hit da ballo. La pista si era vuotata quasi già al primo break con l’armonica, ma quel riff, quel ritmo, quella melodia, mi avevano fatto sentire come se ci fosse la possibilità che i Buffalo Tom riuscissero a diventare una cosa tipo “I nuovi Nirvana” o “I nuovi R.E.M.” o comunque a vendere un sacco di copie.

Invece a Baricella saltò la luce. Una, due, forse tre volte. Il gruppo dopo un poco ne ebbe abbastanza e suonò il minimo sindacale, una cosa simile avrebbe fiaccato anche un bufalo vero, figuriamoci un trio della costa est degli USA.

Eppure quell’ora di concerto fu memorabile. Bill Janovitz aveva una gibson SG color rosso vino e un amplificatore alto come un armadio, dal quale usciva un volume allucinante a tal punto che Janovitz stesso aveva due enormi tappi per le orecchie, di quelli che si vedono a distanza, che ti fanno sembrare la creatura di Frankenstein e che rendevano ancora più antieroiche le smorfie e il sudore che quel viso da nerd con i capelli rossi e le lentiggini era costretto a fare per aver ragione di quella massa di suono. Al centro un sassofonista, un ospite che si portavano in tour per rafforzare il suono dal vivo e che soffiava dentro ad uno strumento che era peraltro sempre completamente sommerso da basso, chitarra e batteria, tanto che ad un certo punto ci si iniziò pure a chiedere se servisse a qualcosa, tra le prime file.

Di quella serata ricordavo soprattutto una canzone, una delle canzoni che in realtà amavo di meno, almeno fino a quel giorno: “Enemy” si chiamava.

C’era un gruppo di amici miei che, non appena il brano cominciò, si mise a urlare sconnessamente e a cantare come una banda di ubriachi. Per un attimo ci si sentiva una tribù indiana e Buffalo Tom era il nostro grande capo a tre teste più sassofono.

Arrivò un nuovo album, qualche tempo dopo. Si chiamava “Big red letter day” e odorava di muffa. Era bello, per carità. Ma sembrava una copia di “Let me come over”, l’album prima. Era quello il perfetto equilibrio tra rumore, melodia, sonorità acustiche ed elettriche, da lasciare senza parole. Lo zenit.

Forse, pensai una notte poco dopo l’uscita del disco mentre indossavo una divisa dell’esercito italiano, con “Let me come over” le carte erano ormai tutte scoperte. Il suono del gruppo era perfetto e oltre non era consentito andare. I confini dei Buffalo Tom erano dunque quei guaiti sofferti di Janowitz, quel basso eternamente sulle frequenze medie mai troppo presente, quella batteria che apriva il charleston quando doveva riempire e lo chiudeva nelle strofe, potente senza mai essere granitica e fantasiosa senza mai suonare se non al servizio della canzone. Quell’equilibrio distorto/acustico che i Grant Lee Buffalo non sono quasi mai riusciti ad avere, e dire che l’animale delle praterie ci aveva riprovato a infilarsi nel nome e nelle sonorità.

Forse i confini di tutta quella meraviglia erano quegli accordi di Sol suonato aggiungendo un dito che sulla corda del SI tocca il terzo capotasto, quel suo cambiare tra Mi minori, Re, Do, La maggiori e minori, cercando il più possibile di non muoversi con mignolo e anulare dal terzo capotasto del MI cantino e del SI ed evitando i barrè come la peste, in modo che il centro tonale del pezzo fosse scandito dagli acuti e da qualche corda vuota sulle medie, non da qualche insulso power chord sulle frequenze basse come accade di solito nella musica rock che decide di essere rumorosa e distorta.

Forse era quello che dava quel gusto epico alle canzoni, pensai. In fondo quel sapore lì, quello che ad un certo punto non basta nemmeno urlare e ti vengono i lucciconi agli occhi e ti sembra proprio di volare, ce lo avevano anche le cose degli U2 migliori, ce lo avevano anche gli Afghan Whigs di “Turn on the water” e di un sacco di altre canzoni. Andai a verificare mentalmente le posizioni di diversi brani sulla chitarra con la mano sinistra e quasi mi scappò il fucile di mano. Nessuno se ne accorse, peraltro, tanto in porta centrale non c’era nessuno. Erano tutti andati a letto e finalmente mi ero potuto guardare la rotazione notturna di Videomusic, all’epoca una cosa molto figa in senso metaforico, senza essere costretto dagli altri a sorbirmi un’ora di pubblicità di telefoni erotici, all’epoca una cosa molto figa in senso letterale. Il tempo di pensare a tutto questo, poi il video di “Sodajerk” era già finito e ne era partito un altro. Forse gli Stone Temple Pilots, forse i Lemonheads, chi se ne frega.

Si,  non era poi brutto “Big Red Letter Day”. E’ che era tutto come ti aspettavi. Era come ritornare a casa in licenza e non saper bene di cosa parlare con nessuno.

Ci volle un nuovo album, un singolo come “Summer” a rialzare un attimo la testa. Ma ormai era andata, l’amore si fa in due e da parte mia non c’era più forse la voglia, in quel momento.

Quindi è inutile che oggi cerchi di rivivere i miei vent’anni solo perché una band di Boston ha fatto un nuovo album dopo cinque o sei anni di silenzio. Certe cose, penso, non te le ridà nessuno. Conviene rimettere “Three Easy Pieces” nello scaffale dei cd e lasciarlo lì. Magari venderlo, tanto il rammarico di aver capito che quei brividi sono rimasti per sempre un ricordo ormai si è già stampato nella memoria, non occorre un simbolo a ribadire il concetto. Forse un giorno me lo ricomprerò in qualche bancarella a 3 euro e scoprirò che la musica poi non era male, vuotata da ogni aspettativa e analizzata più freddamente.

In fondo, se mi guardo indietro, al momento non mi importa nulla. Dopo “Smells like teen spirit” nessuno ha mai messo “Velvet Roof” per cercare di non vuotare la pista. Oggi anche “Smells like teen spirit” è scomparsa dalle scalette, andando a cercare casa in quei locali dove, se dici “Buffalo Tom”, credono che sia il fratello di Buffalo Bill. Quei posti dove non trovi persone che abbiano urlato tutta la propria disperazione cantando “Stymied” a squarciagola in una camera chiusa a chiave e quindi cosa vuoi che ne sappiano loro del fatto che dopo “Stymied” arriva la beatitudine solare di “Porchlight” a sollevarti il morale e poi con “Frozen Lake” giungi alla pace dei sensi e ogni colpo di tamburello che viene dopo che Janovitz dice “IN” (sciaf) “A FROZEN LAKE” (sciaf) “SHE COMES AND TAKE” ti ricorda che per il momento tu non hai bisogno di niente altro al mondo. Cosa ne sanno loro della tua vita? Al massimo, se proprio hanno un poco di orecchio, gli fai sentire “Taillights fade” e ti va già bene che si accorgono a malapena che ha gli stessi accordi di “Don’t Cry” dei Guns ‘n’ Roses, soltanto con anulare e mignolo bloccati sulle corde più acute.

Oggi non ha proprio più importanza, sapere se i Buffalo Tom si siano riuniti ufficialmente, o se avessero solo preso una pausa. Così come quando una storia d’amore è davvero superata quando non ti importa più di cosa cavolo stia facendo il tuo ex, anche qui ormai è tutto finito, ognuno va per la sua strada. Troppo tardi.