Come birilli

E così sabato se ne è andato Jason Molina.

Li avevamo chiamati “cantautori depressi” per tanti motivi. Forse perché a differenza dei cantautori degli anni sessanta e settanta, spesso impegnati politicamente e attivi e pieni di energia, questi erano impegnati solo nelle storie personali. Non c’era bisogno di interessarsi delle vite altrui e dei mondi distanti, avevano già abbastanza casino nel loro mondo.

Forse pure perché le atmosfere delle loro canzoni erano quasi sempre da catacomba, zeppe di accordi in minore che magari potevano esplodere in grida e crescendo scuri e apocalittici, mai rassicuranti, sempre con un alone di morte sopra a sovrastarle. Quando capitava che ci fossero dei passaggi armonici un poco più solari, il timbro della voce era quasi sempre rarefatto, come a voler sussurrare che in quel momento, anche se la musica era apparentemente allegra e accomodante, si stava assistendo comunque ad una soluzione temporanea e le catacombe sarebbero tornate presto.

La loro esistenza era fatta di concerti spesso bellamente ignorati dal grande pubblico, in posti piccoli e apparentemente inadeguati, soprattutto nel loro paese. Anche quando capitava di sentirli e vederli dal vivo in Italia, non era raro trovare torme di chiacchieroni che presenziavano al concerto soltanto per quelle piccole mode che in certi ambienti vogliono che un poco di disperazione non manchi mai, nella musica. Intanto però si stava con il bicchiere in mano, a parlare delle nostre piccole sciocchezze, mentre loro si consumavano sul palco.

Si segnalava un Vic Chesnutt in Romagna che, urlante dalla sua sedia a rotelle con una disperazione che lasciava annichiliti, poi intonava una cover di “Everybody Hurts” che suonava tremendamente autentica, canzone sul suicidio priva di ogni possibile leziosità dinamica che magari viene spontaneo trovare nell’originale. A Natale avremmo poi trovato conferma dell’autenticità dell’argomento da parte dell’interprete.

Si segnalava un Mark Linkous che prendeva dall’Italia la passione per le motociclette e un titolo, “It’s a sad and beautiful world”, frase che Benigni disse in “Daunbailò” e che colta come un fiore dalla sensibilità del cantante degli Sparklehorse, si trasformasse in una splendida ballata. Anche qui una sedia a rotelle, a causa di una reazione ad un insieme di farmaci potenzialmente letale ingerito dal nostro per motivi facilmente immaginabili durante un tour di spalla ai Radiohead. Noi che se avessimo suonato di spalla ai Radiohead avremmo probabilmente sorriso ventiquattr’ore su ventiquattro, anche dormendo, facevamo fatica a capire il tormento che viveva quest’uomo e magari ci veniva da sfotterlo pure un poco, come quando a Ferrara reinterpretò con rara sensibilità due brani di Nico nel tributo allestito da John Cale e i commenti furono in più di un caso frasi gentili come “Dio bono, sparati” o cose del genere. Alla fine Linkous si sparò davvero.

Sabato se ne è andato Jason Molina. Dopo averci fatto esplorare la sua eterna notte oscura con Songs:Ohia e Magnolia Electric Co. si erano diffuse voci allarmanti sulla sua salute, mai smentite dallo stesso. Molina e l’alcool erano compagni di viaggio fedelissimi, il primo aveva provato a troncare la relazione con il secondo, a volte sembrava con risultati ma le ricadute erano sempre dietro l’angolo. Si diceva fosse a lavorare in una fattoria, si diceva che la sua famiglia non sapesse dove si trovava, che la musica non lo interessasse praticamente più, ogni tanto si parlava di un ritorno sulle scene e non si sapeva mai se prendere sul serio la cosa. Tutto sommato non ci interessava sapere la risposta esatta, avevamo altra musica alla quale correre dietro. Ora la risposta è arrivata, chiara e definitiva come solo la morte sa essere.

Cadono uno dopo l’altro, i “cantautori depressi”. Noi possiamo pure goderci lo spettacolo della loro desolazione, come cannibali che si cibano del cuore dei loro simili, come palombari delle emozioni altrui, ma alla fine la soluzione sembra essere sempre quella.

Cadono come birilli. E quando succede rimane solo il rimpianto, sembra sempre troppo tardi.

Cosa fare a novembre se non sei morto.

A novembre entrerò in studio per registrare alcune canzoni che faranno parte di un mio nuovo album. Non so ancora quando lo farò uscire, ma direi non più tardi del settembre 2015, se proprio tutto dovesse andare per le lunghe. I ripensamenti, le cose da fare, gli impegni vari, insomma… non si sa mai.

Sarà, da quando ho cominciato a cantare in italiano, il sesto disco.

Dal 2009 al 2015. Sei dischi in sei anni, come si faceva una volta.

Si chiamerà “TROPPO TARDI”.

Altri dettagli nelle prossime settimane.

Il re dei bianchi, il re dei neri, il re dei re. 37 anni fa.

Il primo album che comprai nella mia vita fu “Catch a fire”, di Bob Marley and the Wailers. Non so quanti anni avessi, a memoria direi otto. Mi piaceva, Bob Marley. Me lo aveva fatto ascoltare mio fratello, l’educazione musicale è un compito che spesso è riservato ai fratelli maggiori. Ascoltavo le cassette, ricordo una cassetta di “Survival” comprata al mercato nero dove al posto dei titoli, nella costina, c’era una dichiarazione di Marcus Garvey che diceva

“A people without – The knowledge of – Their past history – Origin and culture – Is like a tree – Without roots – Marcus Garvey”

Proprio così, con i trattini in mezzo. Come fossero i titoli delle canzoni. E io per anni ho creduto che i titoli fossero quelli. Mica c’era internet, come si dice in questi casi.

Comunque, un giorno sono al supermercato con mia madre e mio cugino Paolo. Al supermercato, almeno in quel supermercato, una volta c’era il reparto dischi. Vado a vedere e trovo un disco con Bob Marley in copertina che si intitola “Catch a Fire”. Lo prendo e vado da mia mamma dicendo “Mamma, me lo compri?”.

Mia mamma legge il nome “Bob Marley”, sa che lo ascolto dalla mattina alla sera, è in buona. Mi immagino le facce di chi era lì a fianco e si vede la scena di un bimbetto che si guarda, tutto contento, un negro (una volta si diceva così) che si fa un cannone grande come un cetriolo in copertina di un album. Sul retro una foto del complesso, gli Wailers, con delle facce decisamente poco raccomandabili.

Mio cugino invece era patito di Elvis. Lui comprò una raccolta di Elvis della RCA.

Andammo a casa ad ascoltarci i dischi, io conquistato subito dall’album di Marley. Poi mettemmo su il disco di Elvis, che partiva con “Hound dog”.

La voce dava l’attacco, il gruppo partiva a seminare rock’n’roll e poi “You ain’t no friend o’ mine” e TARATATATATATATATATATATATA!!!!!!!!!!!!

La batteria di Dj Fontana fu una smitragliata che mi mandò il cervello in frantumi. Ho il ricordo nitido di quella rullata, mi piacerebbe avere una macchina del tempo e tornare là per vedere la faccia che fa quel ragazzino, perché onestamente è stato uno di quei momenti musicali che ti cambiano la vita.

Nei mesi seguenti, il “mamma me lo compri?” venne riservato a “Wanted Dread & Alive” di Peter Tosh, su cassetta originale in una bancarella del mercato a Sassuolo. E poi, un giorno, la “supplica a mia madre” (Pasolini perdonami) nello stesso supermercato di prima, andai a vedere se c’era qualcosa di Elvis e mi capitò un disco della RCA chiamato “Elvis Presley Show”, che poi scoprì in età abbondantemente adulta essere “That’s the way it is” in una edizione italiana.

Arrivai a casa gasatissimo immaginando una smitragliata di rock’n’roll e invece qui c’erano Elvis e i suoi che cantavano canzoni lente e melense, che schifo, pensai.

Poi, visto che i soldi per i dischi erano pochi e quando compri un disco devi far vedere che lo ascolti, se non altro perché a tua madre gli hai fatto spendere dei soldi, ascoltai per bene l’album, giorno dopo giorno. E quelle canzoni melense erano proprio belle, cantate benissimo, suonate da Dio, arrangiamenti pazzeschi per quello che potevo capire io di arrangiamenti.

Ricordo che avevamo da poco montato la doccia nel “Tasèl” (per i non emiliani, il solaio) mentre prima avevamo solo la vasca da bagno e quindi una delle prime canzoni che cantavo sotto la doccia, in un inglese maccheronico, era “Stranger in the crowd”, da quel disco lì. Ancora oggi, quando sono sotto la doccia, se mi viene da cantare all’improvviso quella canzone e altre da quel disco (Twenty days and twenty nights, I just can’t help believin’, You’ve lost that lovin’ feelin, per dirne alcune) sono tra le prime che mi escono.

So che per molti sarà una bestialità, che l’Elvis del periodo della Sun Records non si tocca, ma personalmente l’Elvis che preferisco è questo qui, quello del primo periodo a Las Vegas. Grandi canzoni, alternanza di Rock’n’roll e melodia, arrangiamenti sontuosi, musicisti straordinari con una tecnica sopraffina (su tutti Jerry Scheff al basso, il bassista che suonò anche in L.A. Woman dei Doors).

Curiosando su Amazon, ho visto che “That’s the way it is” esiste anche in una supermega edizione con 8 cd, due DVD e un libro. Le tentazioni sono forti, mi sono messo a scrivere questo pezzo perché mi si sfogasse la fregola di ricomprarlo. Adesso penso che andrò a fare la spesa, con la mia edizione normalissima in cd dentro lo stereo della macchina. Se vedete un cretino che gira con il carrello tra gli scaffali cantando, siate indulgenti.

Come i rapper

Ieri sera ho suonato all’Agriturismo Cantoni a Modena. Insieme a me c’erano Renzo Picchi (Nel Dubbio) e Sandro Campani (Ismael). Invece che fare ognuno il suo set, siamo saliti sul palco insieme. Eravamo tutti e tre uno a fianco all’altro e suonavamo un brano per uno.

E’ successo che se uno suonava un pezzo che parlava di una cosa, magari anche un altro aveva in repertorio un brano che affrontava lo stesso argomento da un altro punto di vista e quindi lo suonava dopo. Oppure succedeva che ognuno facesse un pezzo tiratissimo e poi dopo ognuno un pezzo molto lento, oppure si facesse ognuno un pezzo in una determinata tonalità oppure… Insomma, uno scambio di idee mica male. A volte (poche, che eravamo timidi l’uno con l’altro) uno interveniva un attimo nel pezzo dell’altro improvvisandoci sopra.

Se tra il pubblico c’era qualcuno al quale non piacevano le canzoni di uno dei tre, c’erano sempre gli altri due e si trattava di aspettare 3-4 minuti. E al terzo giro magari scopriva che quello che non gli piaceva era invece quello che gli piaceva di più.

Secondo me è un’idea che tanti posti in giro per l’Italia dovrebbero copiare, magari mischiando cantautori del posto a quelli che vengono da fuori.

(Dis)Unità

L’Unità chiude.

“Quando chiude un giornale è comunque una sconfitta” è il ritornello che sentiamo ogni volta che un giornale chiude. Quando si tratta di un giornale storico, il ritornello si ripete più di una volta, come nelle canzoni. Quando il giornale è il simbolo di un’appartenenza, il ritornello diventa anche strofa, ponte, assolo e si sente solo quello.

Stiamo tutti a ricordare quando il giornale diede questa o quella notizia. Stiamo tutti a ricordare che nostro padre, nostro nonno…noi no.

E’ questo il punto. L’Unità, ma ogni giornale, ogni cosa in genere, saluta e se ne va quando non interessa più.

E’ un poco come quando noi suonatori da due soldi non andiamo mai a vedere un concerto in uno dei posti dove ci chiamano a suonare e poi un bel giorno, quando il posto chiude, diciamo “Che peccato”, ma in realtà siamo stati noi a far chiudere quel meraviglioso localino che era talmente meraviglioso che non ci siamo mai sognati di metterci piede.

Le cose non si cambiano piangendo e dicendo “Ooooh”. Si tengono vive, oppure muoiono.

Quand’è stata l’ultima volta che avete comprato e letto l’Unità? E la penultima? Ecco, bene. Ecco il motivo. Chiude per quello.

A me oggi non interessa, se chiude l’Unità.

Idem per qualsiasi altro giornale, non è una questione di appartenenza. Non li compro mai, i quotidiani. Al limite dò una letta alla stampa locale in un bar, al sabato, mentre faccio colazione.

Posso anche dire che mi interessa, posso anche dire “come sarebbe bello se mi fosse interessato per davvero”, ma la realtà è che non me ne frega niente, anche se magari mi viene da dire “Che peccato”.

Che peccato, vero?

Io l’avevo detto subito.

Io c’ero. E io l’avevo detto.

Li vidi entrare in scena. Tutti e tre. Era il loro primo concerto. Sapevano a malapena suonare gli strumenti che si erano scelti. Basso, chitarra e batteria. La bassista suonava seduta, perché in piedi diceva che non le riusciva. Faceva soltanto la nota singola. Mai un riff. Mai. Il batterista suonava sempre un quattro quarti tutt’altro che metronomico e con minuscole variazioni. Mai una rullata, o quasi. Il chitarrista ogni tanto partiva per la tangente mettendo le dita un poco dove veniva o faceva riff estremamente semplici. Per il resto si limitava a fare gli accordi, suonati tutti con la sola pennata in giù. Mai un barré. Mai.

Dopo un minuto tra il pubblico c’era qualcuno che rideva e ad un certo punto alcuni amici della bassista si alzarono per andare ad applaudirla proprio davanti a lei con una specie di tifo da stadio improvvisato, una cosa che se vieni da fuori non capisci mai dove finisce l’affetto e inizia la presa in giro.

Fecero un set di circa trentacinque minuti, con tutti brani originali e una cover di “Summer babe” dei Pavement.  Ora, io posso dirlo che ve l’avevo detto. Perché erano la band più figa che avessi mai visto. Avevano l’indolenza dei Pavement e la faccia tosta dei Ramones. E le canzoni erano buone. Semplici, dirette, senza niente più del necessario.

Glielo dissi, che erano i migliori. Dissi che volevo una copia della cassetta sulla quale avevano registrato il loro concerto. Il primo.

Qualche mese dopo passai nella loro sala prove, stavano registrando un demo. Facevano questo pezzo che avevano chiamato “Erotic City (By Sarah Young)” come un sexy shop che avevano visto a Berlino. Mi dissero “Vuoi suonare?” e io risposi “Si, però la batteria”. Non avevo mai suonato la batteria in vita mia. Mi piaceva molto fare finta mentre andavano i dischi, con due bacchette da ristorante cinese che picchiavano l’aria dove la mia mente aveva messo dei tamburi. Ogni tanto nelle pause delle prove delle band che avevo avuto provavo a suonicchiare la batteria e insomma, qualche cosa ci cavavo fuori. Ma non avevo mai registrato un pezzo suonando la batteria.

Suonai. Buona la prima, o la seconda. A loro piacque, il pezzo finì sul demo con me come batterista. Ci pensai tanto a quanto era stato figo suonare la batteria con loro.

Dopo qualche mese mi vennero a dire che il batterista aveva intenzione di passare alla chitarra perché alla batteria si annoiava. Mi dissero, più o meno, che cercavano uno che suonasse la batteria e non un batterista. Capii perfettamente cosa intendevano. Accettai subito, non vedevo l’ora che me lo chiedessero. Il fatto di non possedere una batteria non mi appariva come un serio impedimento. In sala prove una batteria c’era. Avrei usato quella.

Funzionavamo alla grande. Suonavamo canzoni semplici e dirette, senza fronzoli, con linee melodiche orecchiabili e strutture semplici. Intanto la bassista aveva imparato a suonare in piedi e di tanto in tanto cantava. Cantavano tutti e tre. Spesso insieme.

Iniziammo a suonare dal vivo in quartetto. Andavamo forte. Ogni concerto andava sempre meglio, il pubblico aumentava sempre. Nel giro di un anno arrivammo a suonare davanti anche a centinaia di persone. In generale quando suonavamo succedeva che c’era sempre qualcuno che si metteva a ballare o a ondeggiare con la testa e alla fine vendevamo un sacco di demo. Avevamo fatto un demo su cassetta che vendeva talmente bene che il nostro chitarrista aveva dovuto comprarsi una piastra doppia che usava solo per duplicare i demo o almeno così mi ricordo io.

Arrivavamo a suonare in tutti questi posti dove ci trovavamo a dividere il palco con band con competenze decisamente maggiori delle nostre. Una volta un fonico, dopo avermi visto infilare un piatto senza fissarlo con il sostegno di sopra e dopo avermi fatto delle domande alle quali non sapevo rispondere mi disse “Ma ascolta, il batterista quando arriva?” e dovetti spiegargli che ero io il batterista della band. Lui fece una faccia come dire “O mio Dio!”.

Dividevamo il palco con gente che disquisiva delle differenze tra un compressore di una marca e quello di un’altra per una mezz’ora, che faceva assoli su assoli e che quando vedeva le nostre chitarre economiche a volte si faceva una risata. Io mi trovavo davanti batteristi con il doppio pedale che mi chiedevano cose sull’accordatura del rullante e in generale facevano delle domande alle quali non sapevo minimamente rispondere, arrivando anche a sfottermi nemmeno troppo velatamente quando capivano che non avevo idee precise sull’argomento “montare la batteria”.

Poi  però succedeva che salivamo sul palco e li facevamo a pezzi. Eravamo una band di quelle che non ti conviene suonare dopo, detto senza false modestie.

Continuò così per un paio di anni, nei quali io cominciai di tanto in tanto a sentire male alle braccia quando suonavo. Sempre più spesso e dopo ogni volta che suonavo il dolore aumentava. Finché nel maggio del 1997 dopo un concerto il dolore non passava. Un dottore mi disse di prendermi una pausa, mi fece fare degli esami, mi disse che non avrei mai più dovuto suonare la batteria in maniera continuativa se ci tenevo ai miei gomiti e che quantomeno avrei dovuto stare fermo un bel po’. Le braccia mi facevano male persino a guidare la macchina. Tanto.

Consigliai loro un batterista, un ragazzo che suonava con una band di amici con i quali ci eravamo incrociati spesso. Dissi loro “Lui secondo me per voi va bene” e il solo fatto di dire “Voi” per dire la band mi faceva stare male. Perché avevo capito che era finita.

Era vero. Andava bene. Eccome se andava bene. Con lui di lì a pochissimo avrebbero registrato il primo album. Nel primo disco diverse parti di batteria ricalcavano le mie (anche se erano suonate molto meglio) e la cosa mi faceva piacere. Il disco era stupendo e infatti se ne accorsero tutti. Il gruppo cominciò a finire sui giornali specializzati, poi su Mtv quando finire su Mtv era la differenza tra essere un gruppo nel calderone e un gruppo come si deve.

E’ dura essere al settimo cielo per come vanno le cose ai tuoi amici e sentirti una merda perché tu dovevi essere lì e invece non ci sei. E’ dura da matti. E’ come zucchero e sale insieme.

Poi ne fecero un altro di dischi. Il consenso crebbe ulteriormente. Una sera ero al Velvet a Rimini e misero un loro pezzo e la pista si riempì di colpo, come quando metti “Smells like teen spirit” o “Killing in the name”. Zucchero e sale, anche qui.

Poi iniziarono ad includere nuovi musicisti e a stravolgere la formazione. Stravolsero poco a poco anche la loro musica, disco dopo disco, cambiando sempre la loro proposta.

Oggi sono forse il gruppo, tra gli “indipendenti”, che gode di maggior rispetto in tutta Italia. Hanno suonato in tutti i posti più importanti, hanno fatto dei tour in Europa, i loro dischi vengono distribuiti all’estero. Hanno collaborato con grandi musicisti, compreso alcuni compositori d’avanguardia americani piuttosto celebrati. Ogni tanto mi chiedono di suonare o cantare con loro e se non ho impegni dico subito di sì, perché suonare con loro è fighissimo.

Beh… io l’avevo detto subito. Dal primissimo momento che li avevo visti suonare insieme, la sera del 28 Maggio del 1994, esattamente venti anni fa al teatrino della casa nel parco di Sassuolo.

 

La cassetta con il bootleg del primo concerto dei Julie’s Haircut al Teatrino della Casa nel Parco di Sassuolo è solo per oggi disponibile al link

http://julieshaircut.bandcamp.com/album/live-at-fahrenheit-451-28-05-1994

Credo, senza esagerare, che sia un documento di notevole importanza storica per la musica del nostro paese. Il fatto di averla conservata per vent’anni e di esserne a tutt’oggi l’unico possessore mi rende particolamente orgoglioso, inutile negarlo.

UNA PIADINA E UNA BIRRA ovvero “Dal Rigo al fare squadra basta un’altra angolazione”

Io una volta ero uno di quelli che oggi chiamano hipster, o indie, o come vi pare. Insomma, ero uno snob, un pallone gonfiato pieno di boria. Non che adesso le cose vadano molto meglio, perché comunque quella malattia lì non è che ti passa mai completamente. E’ un poco come la sciatica, che ci sono i giorni che non la senti quasi, i giorni che stai benissimo e ti sembra che ti sia passata, però poi succede che un giorno viene a piovere e c’è umido e TRAC! Un male della madonna. Ecco, con la snobbite (oh, io non so come si chiami in italiano) è un poco così. Però sappiate che una volta era molto peggio. E una volta Rigo Righetti suonava con Ligabue. A me Ligabue non stava simpatico. Non è che non stesse simpatico perché lo conoscevo e quindi potevo dire con cognizione di causa “Quello lì è uno stronzo”. Era uno stronzo e basta, principalmente perché aveva successo e poi soprattutto perché aveva delle canzoni che secondo me, oh…sono sempre state piuttosto deboli. E Rigo, suonando con Ligabue, beh…per me era uno stronzo anche lui. Per la proprietà transitiva della lassativa. Il sillogismo di Guttalax, dopo quello di Aristotele.

Poi un giorno l’ho conosciuto. Non Ligabue, dico Rigo Righetti. L’ho conosciuto e ho scoperto che lo stronzo ero io. Non è mica bello sentire odore di cacca dappertutto di continuo e poi svegliarsi e accorgersi che sei te. Ti rendi conto delle figure (figure di merda, naturalmente) che hai fatto nel corso di un tempo prolungato. E ti penti. Ma ormai è tardi. Sono tutti scappati fuori per la puzza. Mica ti hanno detto niente, che quando uno fa una puzza in ascensore nessuno dice niente, ci si guarda con sguardo imbarazzato e poi tutti zitti. Perché la prima gallina che canta ha fatto l’uovo. E qui, che tutti cantiamo e suoniamo, di pollaio se ne fa già abbastanza. Comunque, quando Rigo ha fatto il primo Campovolo, “Il giorno dei giorni” e tutte quelle robe lì, la cosa é venuta male. Dal palco loro non se ne erano mica accorti, ma non so cosa sia successo di preciso però l’impianto non funzionava mica bene e un casino di gente che era al concerto non ha sentito una mazza, tanto che c’erano dei filmati dove la gente cantava “Alba Chiara” in coro e copriva il Liga e la banda. Il Liga il giorno dopo allora butta un comunicato stampa dove chiede scusa. Mi immagino la vergogna per una cosa così, insomma…son cose imbarazzanti. E’ stato un momento in cui il Liga lo prendevano per il culo tutti. Gli avevano anche rubato in casa, quella sera lì. E noi tutti lo sfottevamo. Io qualche sera dopo suonavo a Sassuolo con la mia band e prima di cominciare ritenni particolarmente spiritoso leggere il comunicato del Liga parola per parola dicendo alla fine “Vai a cagare te e chi c’era” e poi attaccando con il primo pezzo. Il nostro concerto andò bene, ma non se lo ricorda più nessuno. A noi anche se ci si fosse rotto l’impianto, a chiedere scusa non ci voleva neanche il microfono che tanto sentivano tutti, che non erano mica tanti.

La settimana dopo sono nello stesso posto e arriva Rigo assieme a Pellati (il batterista) e a un ragazzo con la chitarra che non conoscevo. Ero lì, mi son detto “Ma dai, sentiamo un poco il bassista del Liga”. Perché per me Rigo era “Il bassista del Liga”, anche se sapevo dei Rocking Chairs e tutto, per me che sono un pallone gonfiato pieno di boria Rigo Righetti era il simbolo del male. Mica come Hitler, diciamo boh…un Kappler, una cosa così. E lo spettacolo più bello Rigo lo ha dato prima di suonare. E’ lì che mi ha steso. Si è seduto con Pellati e quell’altro. Di fianco a me, si son seduti. Non volevo mica origliare, o forse sì. Comunque… non sentire era impossibile. E il tipo del locale è arrivato e gli ha chiesto se andassero bene una piadina e una birra. Loro hanno detto di sì. Il tipo del locale allora ha dato loro dei buoni per bere, che quando suoni nei posti un poco sfigati ti danno i buoni per bere. Ricordo che gliene ha dati meno di quelli che aveva dato a noi e loro non hanno battuto ciglio, si sono presi i loro due buoni a testa, di cui uno durante la piadina e poi ridevano e scherzavano, parlavano tra loro della musica che avrebbero suonato di lì a poco. Io, che non so se vi ricordate vi ho già detto all’inizio che sono uno snob, un fighetto, uno che viene dall’indie e tutte quelle robe lì, mi sono detto che in anni di concertini sfigati come i miei avevo visto suonatori che non erano nessuno fare delle menate vergognose per un paio di buoni birra. Non escludo di averle fatte pure io, qualche volta.

Ebbene, vedere uno che dieci giorni prima suonava di fronte a centinaia di migliaia di persone, che aveva fatto le tournée negli stadi e tutte quelle robe grosse lì e che adesso si sedeva a mangiarsi la sua piadina pensando solo a “Che figata che stasera suoniamo, dai dai dai dai” in una maniera che glielo leggevi proprio in faccia, beh è stata una bella lezione. Ci ero rimasto talmente di sasso che la mia boria ha straripato e sono andato subito dal tipo del locale, che è un mio amico, e gli ho detto “Oh, ma quanto gli dai di cachet a Rigo, Pellati e a quell’altro?” e non mi ricordo quanto mi ha detto, ma mi ricordo che gli dava gli stessi soldi che aveva dato a noi. Con la differenza che loro avevano tirato qualche persona in più, perché ovviamente se fai gli stadi e suoni davanti a delle migliaia di persone di continuo un motivo ci sarà. Io dopo ho incontrato Rigo altre volte, anche se non abbiamo mai suonato insieme. Ma ‘sta cosa non gliel’ho mai confessata.

L’ultima volta che ci siamo visti è stato a vedere Bob Dylan a Milano. Sono lì che aspetto e ad un certo punto vedo Rigo Righetti che passa. Penso “Adesso vado a salutarlo” solo che mi ferma un tipo che conosco e TAC!, mi torna a fregare il bastardo. Si, perché mi ha salutato prima lui. Che sembra poco, ma invece non lo è, che io se avessi suonato davanti a centinaia di migliaia di persone per un casino di tempo come lui secondo me mi salutereste sempre tutti prima voi. A dirla tutta, probabilmente dovrei girare con dei mattoni ai piedi per non camminarvi sopra e pisciarvi sopra la testa dal gran che sono uno stupido pallone gonfiato pieno di boria. Invece a lui no, a lui volare basso gli viene così. Che bastardo, certa gente ha tutte le fortune. Pensa che oggi non mi sta più sulle palle neanche Ligabue, anzi mi sta simpatico. Oddio, continuo a pensare che abbia canzoni che in linea di massima sono piuttosto deboli e poi non ho mica capito perché adesso non suoni più con Righetti, Pellati, Previte e abbia preso tutti quei musicisti americani che tanto poi quando parte una canzone alla radio di Ligabue sembra che suoni sempre uguale.

Forse però è stato meglio così. Non per Rigo, magari. Perché secondo me suonare con il Liga gli faceva comodo mica poco. Però è stato meglio per tutti noi, così che lo possiamo incontrare da vicino anche quando suona, che possiamo vederci uno che canta e suona con una passione che neanche un ragazzino, perché ha capito cosa fa e perché. Perché il segreto è tutto lì. Capire chi sei, cosa fai e perché. Trovarsi. Trovare l’essenza, come direbbe Battiato. E a volte uno se vuole ritrovare l’essenza in quello che fa, ritrovare sé stesso, mica c’è bisogno che vada che ne so… in India o da che non so che santone. Perché le grandi verità della vita, stanno nascoste nei posti più assurdi. Tipo tra una piadina e una birra.

(Stasera, 15/5/2014, ho fatto una serata con Rigo Righetti dove abbiamo chiacchierato di musica e letto alcuni brani dai suoi libri e dal mio blog. Io ho letto anche questo qui, a sorpresa. Ed anche se non le ho viste, direi che debba essere stato piuttosto divertente vedere le nostre facce, la mia e la sua, mentre leggevo)

Il concetto del primo maggio (Numero 2)

Ieri sono stato a Reggio Emilia. C’era il concerto di Eugenio Finardi, per la festa del Primo Maggio. Il concerto era preceduto da discorsi fatti da sindacalisti.

Sono arrivato che i discorsi erano in corso. C’era una piazza con gente che parlava dei cavoli propri, lontana dal palco. Nessuno ascoltava quello che avevano da dire. Io ho provato a farlo, ma dopo due minuti mi stavo addormentando. Ogni tanto provavo a buttare l’orecchio, ma passavano altri due minuti e mi stavo addormentando. Mi sembrava parlassero una lingua straniera, una specie di politichese dove dicevano le solite cose da sindacalisti o da politici, una serie di paroloni retorici che ti fanno venire sonno e che non riesci minimamente a far calare nella tua realtà lavorativa. Parole tipo “Rimettere al centro il lavoro”, cose così.

Davanti al palco c’erano delle bandiere che sventolavano. Sventolavano di continuo, tutto il tempo. Erano disposte a distanze in base alle quali se uno veniva da lontano sembrava una gran folla in mezzo allo sventolio, però se ti avvicinavi erano quattro gatti. Non so, saranno state trenta persone a sventolare, di continuo. Poi c’era un gruppetto più nutrito che aspettava che iniziasse Finardi ed era sotto il palco per quello.

Ad un certo punto hanno fatto partire “Bella Ciao”. Non la versione delle Mondine, la versione partigiana. Poi una tipa ha tentato di dire “Grazie” alla piazza. Le ci è voluto un poco perché il microfono era spento, poi alla fine l’hanno acceso e ha detto una cosa del tipo “Grazie ai partigiani che hanno fatto sì che ci fossero giornate come questa”. Dovessi tradurre in quello che in realtà ho pensato io era più o meno un “Visto che se mettiamo l’Internazionale ci prendono per il culo e probabilmente hanno pure ragione, cosa ne dite se mettiamo Bella Ciao, così ci attacchiamo il 25 Aprile che in fondo era solo la settimana scorsa e così riusciamo a fare una bella figura?”. A quel punto le bandiere con gli sbandieratori hanno sbandierato più forte, poi come è finita e doveva cominciare Finardi di colpo le bandiere non hanno più sventolato, si sono tutte abbassate quasi come se fossero state spente da un telecomando. A esser maligni sembrava che fossero state sbandierate da tipi a comando ai quali fosse stato detto di sbandierare a manetta in favor di eventuali telecamere e far sì che sembrasse che in piazza ci fosse tanta gente, che così le dichiarazioni dei politici e dei sindacalisti locali sui giornali locali fossero giustificate.

Quando ha cominciato Finardi invece ci siamo un poco tutti avvicinati al palco e a quel punto eravamo proprio di più, a stare attenti a quel che succedeva sul palco.

Non so bene perché ho voluto raccontare questa cosa. So solo che per me vuol dire qualcosa, anche se non so bene cosa.

Musica, giornali,web. Una bella cosa che mi è successa.

Si dice spesso che le riviste che parlano di musica siano, come tutte le riviste in generale, sempre più in crisi. D’altro canto in rete possono scrivere tutti e quindi proliferano le fanzine ma la qualità della scrittura spesso si abbassa drasticamente. Tutte cose che abbiamo già sentito più volte, non so fin quanto vere.

La cosa che mi ha sempre lasciato perplesso delle fanzine sul web è il loro voler essere delle scimmiottature delle riviste tradizionali. Credo che se uno vuole farsi leggere debba cercare di proporre qualcosa che sia un minimo diverso dalla classica rivista e invece siamo pieni di webzine che prendono le agenzie per dare le notizie e fanno i copia e incolla, fanno le recensioni dei dischi che possono stare in una colonna come se fossero riviste, fanno le interviste di rito mandando un file di word con dieci domande e magari ti tagliano pure le risposte perché sono “troppo lunghe”.

Strano perché sul web in teoria lo spazio non manca, anzi.

Però la soglia di attenzione, l’hype, quelle cose lì. Finiscono per fare una rivistina in miniatura, spesso senza adeguata professionalità. E infatti dopo non molto vengono trascurate, principalmente per mancanza di lettori e per conseguente frustrazione degli scrittori, esattamente come accade ad un gruppo che si fa il culo come una capanna e vede che ai propri concerti ci sono venti idioti che bevono lo spritz chiacchierando senza ascoltare una mazza e poi commentando il concerto sui socialcosi come se lo avessero ascoltato. Li chiamano come quelli che andavano a sentire il Be Bop, ma sarebbe ora di cominciarli a chiamare con il loro nome.

Il sottoscritto, al giro promozionale di “Togliamoci il pensiero” aveva pensato, per ovviare a questa monotonia del giro di interviste da dieci domande con le stesse identiche domande sempre, di fare una cosa particolare. L’intento era fintamente provocatorio, in realtà avevo voglia di riuscire a parlare dell’album in maniera compiuta. Per quella volta feci le “interviste alla rovescia”, su idea del Dottor Manicardi. In pratica intervistavo io i giornalisti, così avrei evitato domande del tipo “Quali sono le differenze tra questo disco e i precedenti?” (“Siamo entrati in studio camminando all’indietro” dei Mudhoney, rimane la risposta del secolo a questa domanda) oppure “Cosa credi che manchi alla scena musicale italiana per crescere?” (“Se lo sapessi no spedirei piastrelle, credimi” sarebbe l’unica risposta onesta e invece sono talmente ipocrita che non l’ho mai data).

Beh, non funzionarono, le interviste alla rovescia. Dopo un poco mi resi conto di quanto sia mortalmente noioso fare domande su un disco a perfetti sconosciuti o quasi e dopo poco tempo mollai l’iniziativa. Mi dissi anche che i giornalisti musicali e i fanzinari, che ti fanno interviste a nastro a te e a tutti, sono veramente dei martiri, fanno un lavoro noiosissimo.

Negli ultimi tempi non sono mancate le boccate di aria fresca. Trovo che un blog come BASTONATE, ad esempio, faccia spesso le uniche interviste che vale la pena leggere. Il tono è colloquiale, sono chiacchierate e non hanno paura di chiedere “Ma com’è che suoniamo tutti da vent’anni e abbiamo ancora le pezze al culo?” invece che “Cosa manca alla scena italiana…” e questo genera risposte interessanti e autentiche, spesso. Ragion per cui ogni tanto escono queste interviste che sono lunghissime, ma si leggono così bene che a confronto le mini interviste di 3 domande di Vanity Fair sembrano noiose come un’enciclopedia.

E’ successo di recente che la rivista (fanzine, webzine, chiamatela come cazzo volete) chiamata SENTIREASCOLTARE, che opera sul web da tempo, mi abbia recensito molto bene “Distacco”. In seguito a questo, Stefano Solventi mi ha chiesto, invece di fare la consueta intervista a pappetta, di scrivergli qualcosa sul disco. Mi ha detto che potevo scrivere tutto quello che volevo, senza limitazioni, dovevo raccontargli tutto. Mi ha detto che avrebbe pensato lui poi a sfrondare qui e là e a inserire commenti a quello che raccontavo. A quel punto ho accettato.

A chiunque fa piacere raccontare della propria musica.

Ho scritto qualcosa come sette pagine fitte di word, lui ha tagliato a destra e sinistra e poi ha inserito i suoi commenti. Gli avevo chiesto, prima di pubblicarlo, di mandarmi il file definitivo, giusto perché a volta tagliando qui è là magari finisce che uno, anche senza volere, estrapola frasi dal contesto e chi si ritrova a leggere poi capisce il contrario. Ieri sera mi è arrivato il file, l’ho letto, Solventi ha fatto un buon lavoro.

Dice che ha dovuto un poco discutere per farlo pubblicare, perché anche se lui ha comunque tagliato parecchio è venuta una cosa bella lunga per gli standard ai quali è abituata l’editoria musicale. Dice che gli hanno detto che sai com’è, la soglia di attenzione e l’hype attorno a un disco e blah blah blah.

Beh, io volevo complimentarmi con lui e con il suo direttore per avere avuto le palle di fare una scelta del genere. Credo che se la facessero per tutti gli italiani che recensiscono bene, dando loro la possibilità di raccontarsi compiutamente, a quel punto cresceremmo davvero. Magari non come pubblico, magari non saremo fighi e alla moda, ma saremmo cresciuti, così come da bambini si diventa ragazzi e poi, finalmente, adulti.

A giorni la lettura.

2001 – Odissea nel profumo

Abbiamo un deodorante per ambienti in casa. Di quelli che vanno da soli. Quelli che ci infili la fragranza e ogni tanto fa un rumorino e ZUFF!!! Fa lo spruzzo e deodora l’ambiente.

Nota: io quando sento che un commesso dice “la fragranza” lo guardo sempre fisso negli occhi e poi penso “Dai, cazzo. Ridi, stai resistendo ma adesso ridi!!!”.

Dicevo, abbiamo questo coso della Johnson & Son o qualcosa del genere, che ha comprato mia moglie (Lo comprano SEMPRE le donne una cosa così, per noi uomini “deodorare l’ambiente” in genere significa fare un rutto o toglierci le scarpe) e ci ha messo la fragranza denominata ZEN.

Ogni tanto il coso va da solo. Parte quando gli passi davanti, specialmente nel cuore della notte facendoti venire un infarto, e ZUFF!!!. Poi non è che si ferma, lo fa altre “n” volte e non abbiamo ancora capito quando smette e con che criterio. A volte se accendiamo la luce parte e ALEEEE”’, vai col liscio.

Dopo due minuti c’è un odore molto ZEN che però fa schifo, il tutto causa risate mica da ridere, scusate il calembour.

Di recente gli abbiamo dato un nome. Siamo soliti dare un nome alle cose, in casa nostra. Lo abbiamo chiamato HAL 9000, visto che ormai è completamente autonomo.

Stasera HAL 9000 è partito dopo la visione di un film a sputazzare fuori tutto il suo ZEN, fin quando la mia signora non si è decisa, preda dei miasmi del robo, a togliere la pila.

Attendiamo ulteriori sviluppi.

(Nel frattempo, ascolto consigliato, il Requiem di Ligeti:
https://www.youtube.com/watch?v=wawSCvuGj4o)