E così sabato se ne è andato Jason Molina.
Li avevamo chiamati “cantautori depressi” per tanti motivi. Forse perché a differenza dei cantautori degli anni sessanta e settanta, spesso impegnati politicamente e attivi e pieni di energia, questi erano impegnati solo nelle storie personali. Non c’era bisogno di interessarsi delle vite altrui e dei mondi distanti, avevano già abbastanza casino nel loro mondo.
Forse pure perché le atmosfere delle loro canzoni erano quasi sempre da catacomba, zeppe di accordi in minore che magari potevano esplodere in grida e crescendo scuri e apocalittici, mai rassicuranti, sempre con un alone di morte sopra a sovrastarle. Quando capitava che ci fossero dei passaggi armonici un poco più solari, il timbro della voce era quasi sempre rarefatto, come a voler sussurrare che in quel momento, anche se la musica era apparentemente allegra e accomodante, si stava assistendo comunque ad una soluzione temporanea e le catacombe sarebbero tornate presto.
La loro esistenza era fatta di concerti spesso bellamente ignorati dal grande pubblico, in posti piccoli e apparentemente inadeguati, soprattutto nel loro paese. Anche quando capitava di sentirli e vederli dal vivo in Italia, non era raro trovare torme di chiacchieroni che presenziavano al concerto soltanto per quelle piccole mode che in certi ambienti vogliono che un poco di disperazione non manchi mai, nella musica. Intanto però si stava con il bicchiere in mano, a parlare delle nostre piccole sciocchezze, mentre loro si consumavano sul palco.
Si segnalava un Vic Chesnutt in Romagna che, urlante dalla sua sedia a rotelle con una disperazione che lasciava annichiliti, poi intonava una cover di “Everybody Hurts” che suonava tremendamente autentica, canzone sul suicidio priva di ogni possibile leziosità dinamica che magari viene spontaneo trovare nell’originale. A Natale avremmo poi trovato conferma dell’autenticità dell’argomento da parte dell’interprete.
Si segnalava un Mark Linkous che prendeva dall’Italia la passione per le motociclette e un titolo, “It’s a sad and beautiful world”, frase che Benigni disse in “Daunbailò” e che colta come un fiore dalla sensibilità del cantante degli Sparklehorse, si trasformasse in una splendida ballata. Anche qui una sedia a rotelle, a causa di una reazione ad un insieme di farmaci potenzialmente letale ingerito dal nostro per motivi facilmente immaginabili durante un tour di spalla ai Radiohead. Noi che se avessimo suonato di spalla ai Radiohead avremmo probabilmente sorriso ventiquattr’ore su ventiquattro, anche dormendo, facevamo fatica a capire il tormento che viveva quest’uomo e magari ci veniva da sfotterlo pure un poco, come quando a Ferrara reinterpretò con rara sensibilità due brani di Nico nel tributo allestito da John Cale e i commenti furono in più di un caso frasi gentili come “Dio bono, sparati” o cose del genere. Alla fine Linkous si sparò davvero.
Sabato se ne è andato Jason Molina. Dopo averci fatto esplorare la sua eterna notte oscura con Songs:Ohia e Magnolia Electric Co. si erano diffuse voci allarmanti sulla sua salute, mai smentite dallo stesso. Molina e l’alcool erano compagni di viaggio fedelissimi, il primo aveva provato a troncare la relazione con il secondo, a volte sembrava con risultati ma le ricadute erano sempre dietro l’angolo. Si diceva fosse a lavorare in una fattoria, si diceva che la sua famiglia non sapesse dove si trovava, che la musica non lo interessasse praticamente più, ogni tanto si parlava di un ritorno sulle scene e non si sapeva mai se prendere sul serio la cosa. Tutto sommato non ci interessava sapere la risposta esatta, avevamo altra musica alla quale correre dietro. Ora la risposta è arrivata, chiara e definitiva come solo la morte sa essere.
Cadono uno dopo l’altro, i “cantautori depressi”. Noi possiamo pure goderci lo spettacolo della loro desolazione, come cannibali che si cibano del cuore dei loro simili, come palombari delle emozioni altrui, ma alla fine la soluzione sembra essere sempre quella.
Cadono come birilli. E quando succede rimane solo il rimpianto, sembra sempre troppo tardi.