La fabbrica delle muse

Nelle interviste a quelli che suonano da qualche tempo ha iniziato a prendere piede la cosa di dire che “Mi vedo più come un artigiano”. In genere significa che sei in china discendente e ti sei arreso alle dimensioni della tua piccola attività musicale. Quantomeno, il sottotesto è quello.

Poi ci sono quelli che invece loro sono degli artisti, che fanno arte, che non seguono le logiche di mercato, che non copiano gli altri, che aspettano la musa e la seguono.

Ecco, è sorprendente come le muse di quelli che suonano dicano sempre al loro artista che deve iniziare con la strofa e poi con il ritornello, più melodico e orecchiabile. Che il ponte va messo dopo il ritornello e mai dopo la strofa. Che se c’è un assolo non va mai messo all’inizio. Che il ritornello lo devi ripetere. Che dicono loro che il primo pezzo del disco deve essere carico, che il terzo deve essere quello più immediato, che quello lungo lungo con la coda finale deve essere l’ultimo, che deve uscire un disco ogni anno e nove mesi.

 

Queste muse. Chissà dov’è la fabbrica dove le fanno, in serie, tutte uguali.

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Mia moglie l’anno scorso, per il mio compleanno mi fa avere un pacchetto e mi dice che quest’anno mi ha fatto solo un pensierino, che le tasse del negozio, le ferie, eccetera. Lo apro. Dentro c’è la replica esatta della maglia di Johan Cruijff del mondiale del 1974. Ho provato a spiegarle che era tutta la vita che aspettavo che qualcuno mi regalasse questa maglia, ma secondo me non ha mica capito quanto ero contento. Ho i brividi adesso che lo scrivo.

Anni fa mi feci spedire da un olandese appassionato di calcio tutte le partite dell’Olanda del 1974. Un paio hanno il commento della ESPN sports classics ed è per questo che pagherei un centinaio di euro senza pensarci per avere una Olanda-Argentina 4-0 con il solo audio dello stadio. Su Youtube non c’è, ho controllato.

Vi siete mai chiesti perché questo blog ha lo sfondo arancione? Vi siete mai chiesti perché è il mio colore preferito? Vi siete mai chiesti perché sono stato in Olanda cinque volte senza bisogno di andare a puttane o farmi le canne?

Non mi ricordo quanti anni avessi, ricordo solo che vidi “IL PROFETA DEL GOL” di Sandro Ciotti in televisione. Erano ancora gli anni settanta. Di quel documentario ricordo ancora la musica della colonna sonora, che annovero tra le cose più malinconiche che io abbia mai sentito.

Io non li ho visti, i mondiali del 1974. Non in diretta, almeno. Io sono nato nel 1972. Il primo ricordo calcistico che ho è mio fratello in vacanza a Rapallo che piange dopo che l’Olanda ci ha negato la finale del mondiale in Argentina battendoci 2-1. Cruijff non c’era, si diceva non fosse andato per la dittatura, anni dopo avrei scoperto che non era andato perché dopo che gli erano entrati in casa minacciando di rapirgli la famiglia e puntandogli una pistola alla testa, aveva ridefinito le sue priorità.

All’epoca le immagini del calcio straniero praticamente non esistevano. C’erano tre canali tv. Internet manco riuscivamo ad immaginarcelo.

Mi ricordavo di Ciotti e del suo film, che riguardavo per intero ogni volta in cui mi capitava di inciamparci. E poi seguivo sui giornali e dovunque potesse capitare, almanacchi e tutto, il suo nome. Cruijff era un mondo intero che si apriva nella meraviglia di un gioco.

Ricordo che quando giocavo a pallone da ragazzino, se mi capitava di finire in panchina, allora insistevo per avere il numero 14. Da noi non si poteva scegliersi il numero. Lui poteva, quando nessuno poteva. Si diceva che avesse ottenuto un permesso speciale dalla federazione, dal gran che era fortissimo. In effetti di cose particolari ne aveva. Quando l’Olanda andò al mondiale del 1974, lo sponsor tecnico era l’Adidas e tutti avevano le tre bande nere laterali sulla maglietta. Cruijff aveva la Puma e pretese e ottenne di avere due bande nere e non tre. L’unico. I numeri dell’Olanda erano distribuiti in ordine alfabetico, tutti. Jongbloed, il portiere, aveva il numero 8, per dire. Cruijff aveva il 14. L’unico a non avere il numero in base all’alfabeto. E pensare che, se avessero dato retta all’alfabeto, in quella nazionale avrebbe avuto il numero 1. Non lo ebbe proprio perché era il numero uno per davvero. Quel mondiale doveva essere la sua assoluta celebrazione, ma mancò la ciliegina sulla torta. Il mondiale dove tutto il mondo si accorse della “Het Cruijff draai”, la finta alla Cruijff, il suo tocco più celebre.

E dire che aveva vinto tre coppe dei campioni, con l’Ajax. Non so quanti campionati olandesi. Una coppa intercontinentale. Una sola, perché le altre due edizioni alle quali avrebbe avuto accesso l’Ajax decise di non andare. La prima volta lasciò il posto al Panathinaikos e la terza alla Juventus. Ce la vedete una squadra che vince per la prima volta la coppa dei campioni e rinuncia a giocare la coppa intercontinentale l’anno dopo? Ecco, quello era l’Ajax, quello era Cruijf, quelli erano (e sono ancora) gli olandesi.

Dopo la terza coppa dei campioni Cruijff andò in Spagna, al Barcellona. Erano anni che il Barcellona non vinceva il campionato. Con Crujiff tornò a vincerlo. Fece il gol più incredibile che la storia del calcio ricordi, contro l’Atletico Madrid, un gol in acrobazia di tacco quasi dalla linea di fondo campo. Lo chiamarono “Il gol impossibile” ed in effetti gol così non li fa più nessuno. Quando alcuni giocatori dell’Atletico protestarono per un fallo, il loro allenatore Kubala disse che “Davanti ad un gol così non si discute, si applaude”. Il Barça vinse 5-0 in coppa del Re contro il Real Madrid, una cosa che chi c’era a Barcellona quell’anno non dimenticherà mai.

Dopo qualche stagione e dopo l’episodio di cui parlavo sopra, Cruijff decise di cambiare vita. Iniziò un periodo altalenante, che lo vide giocare a gettone (primo caso al mondo) nella squadra catalana del Levante, in seconda divisione. Andò in America, insieme a tanti giocatori a fine carriera, a cercare di lanciare il Soccer, la versione a stelle e strisce del Calcio. Giocò nei Los Angeles Aztecs e nei Washington Diplomats. Venne eletto miglior giocatore della lega, poi tornò in Europa. Era il 1981.

Fece una prova con il Milan in un Mundialito estivo. Fece cagare. Lo fischiarono tutti. Se ne tornò in Olanda. A casa. All’Ajax. Lo scetticismo era alto, ma alla prima partita contro l’Haarlem fece un gol evitando tre avversari e beffando il portiere avversario con un pallonetto da fuori area. Ad Amsterdam se lo ricordano ancora. Vinse il campionato. Giocò due stagioni con l’Ajax, poi alla terza stagione la dirigenza non gli rinnovò il contratto.

Cruijff allora decise di firmare con il Feyenoord. Per chi non mastica di calcio olandese, immaginatevi Totti che firma per la Lazio.

Alla prima amichevole venne fischiato da tutto lo stadio dei suoi nuovi tifosi. Un gigantesco striscione diceva “Feyenoord Forever – Cruijff Never”. Odiato da tutti.

Il Feyenoord non vinceva il campionato dal 1974 (vale a dire da quando Cruijff se ne era andato dall’Olanda). Lo rivinse quell’anno. Se andate su Youtube ci sono tutte le partite, in sintesi di un quarto d’ora l’una. Cruijff gioca con il numero 10, ormai fa il regista e non corre più granché, ma mi stupisce il fatto che nessuno citi mai quella stagione come una delle sue più incredibili. Se guardate le partite, ogni volta che tocca la palla, sembra che si accenda la luce. E’ sempre protagonista della manovra. Spesso segna, magari dopo aver dribblato quattro o cinque avversari. A 37 anni, senza mai aver smesso di fumare. Il video dell’ultima partita di campionato è il più emozionante. Ad un certo punto viene sostituito, tutti sanno che quella è l’ultima volta. La partita si ferma per cinque minuti, giocatori ed avversari lo portano in trionfo, gli stringono la mano, i tifosi che solo qualche mese prima gli tiravano i petardi e lo offendevano, si alzano ad applaudirlo.

Cruijff ha vinto pure da allenatore, con l’Ajax e con il Barcellona. La prima coppa dei Campioni del Barça vedeva lui in panchina. Lui che diceva che i giocatori dovevano muoversi liberamente dentro uno schema, esattamente come faceva l’Olanda del 1974 che (come l’Ungheria del 1954) fu l’unica squadra a far fare un balzo in avanti al calcio di 20 anni e a fare scuola senza vincere niente. Lui che da allenatore diceva ai suoi giocatori che “Arriverò nello spogliatoio sempre e solo venti minuti dopo la fine della partita, così che abbiate il tempo di insultarmi, di sfogarvi e di dire tutte quelle cose che non potrete ad un allenatore davanti a tutti nello spogliatoio”.

Poi i problemi di salute, dovuti al fumo. Bypass coronarici, la necessità di una vita tranquilla.

Deve essere stato strano per lui, visto che tanto tranquillo non è mai stato. Cruijff sapeva essere sbruffone come pochi. Come quando per spronare i suoi non esitò a ridicolizzare verbalmente il Milan di Capello, che poi gli rifilò 4 gol e facendogli fare una bella figura di merda.

Oppure come quando un giovanissimo Jorge Valdano (poi campione del mondo nel 1986) lo incrociò sul campo e gli disse, mentre stava litigando con l’arbitro, se gli poteva ridare la palla che dovevano giocare. L’olandese apostrofò l’argentino dicendogli “Quanti anni hai ragazzino?” e alla risposta “21” disse “Alla tua età a Johan Cruijff gli si dà del lei”.

Oppure come quella volta che si mise in testa, nel 1982, di battere un rigore in maniera indiretta. Segnò, i giocatori avversari non ci capirono niente. Con la Maglia dell’Ajax.

Cruijff aveva fatto tutto con quelle due maglie. Il rigore di seconda con la maglia del Barcellona mancava. Ma il 14 febbraio di quest’anno Messi e Suarez ci hanno pensato loro, contro il Celta Vigo. I social network sono subito impazziti nel commentare la notizia come una semplice sbruffoneria, non pochi tra quelli che conosco hanno detto che bisognava “spezzargli le gambe” e cazzate del genere.

A pochi era saltato alla mente che, dopo avere annunciato di essere malato di cancro ai polmoni (malattia che non lascia scampo), Cruijff proprio il giorno precedente, 13 febbraio 2016 aveva fatto la prima dichiarazione pubblica da malato di cancro. E puntuale, il giorno seguente, Messi e Suarez avevano fatto quel piccolo omaggio al campione.

Cruijff aveva detto “Contro il cancro siamo alla fine del primo tempo e per ora sto vincendo 2-0”. Anche nel momento della sconfitta definitiva, davanti ad un avversario imbattibile, non aveva rinunciato ad una finta da fenomeno, spavalda, sbruffona.

Una finta alla Cruijff.

 

Forse un giorno, la musica.

E’ curioso come per definire la musica che va dal rinascimento all’inizio del novecento, noi tutti utilizziamo un’unica parola.

CLASSICA.

Può essere musica da camera, musica orchestrale, inni religiosi, un quartetto che suona un adagio, un’orchestra intera che spara “La sagra della primavera” o qualche delizia Weberniana, di tutto un poco. Ma un’unica parola. Quando non è musica folk, allora è musica classica.

Due parole. FOLK e CLASSICA.

Poi hanno inventato il fonografo e passo dopo passo siamo arrivati alla musica distribuita registrata in multitraccia, dapprima su supporto fisico fino ad arrivare ai giorni nostri con la condivisione un file digitale su una piattaforma.

E’ curioso come le musiche prodotte negli ultimi settant’anni hanno avuto bisogno di parole sempre crescenti per essere definite. Blues, Rock’n’Roll, Rock e poi via via psichedelia, beat, punk, glam, disco, techno, rap, hip-hop, grunge, new wave, garage, crossover, funk, metal, hard rock, vogliamo andare avanti?

Immagino che questo percorso possa essere stato identico per la musica che oggi chiamiamo con un’unica parola. Penso che nei primi dell’ottocento, di fronte all’esuberanza compositiva di uno Schubert, ci sarà stato chi parlava di “Scuola viennese” come noi oggi parliamo della scena noise di Washington, delle differenze con Beethoven (che nacque trent’anni prima ma morì un anno dopo), di influssi mozartiani come noi oggi parliamo dell’eredità dei Sonic Youth, di romanticismo come oggi noi parliamo di tropicalismo brasiliano. Nei primi del novecento magari qualcuno non avrà tirato in ballo il “crossover”, ma Bela Bartòk pescava nel folk a piene mani per rielaborarlo in partiture arditissime che andavano a sposare dissonanze che facevano drizzare i peli ai conservatori e intrippavano i musicologi esattamente come qualche anno fa ci si intrippava per i campionamenti di Dj Shadow.

In ogni caso, basterebbe vedere nel jazz, più recente della classica ma che ha intrapreso più o meno lo stesso percorso. Partito con ragtime,  blues e swing, ha sviluppato una serie di correnti (Be Bop, Cool, eccetera)  che poi sono arrivate a non avere più parole comprensibili al grande pubblico per essere comprese con cognizione di causa. O si arrivava al “free jazz” per misurarsi con le tentazioni dell’atonalità oppure si cercavano nuove contaminazioni con linguaggi differenti arrivando alla “fusion”, per poi arenarsi nel vicolo cieco dell’indefinibile, con un’ultima agitata invenzione di termini che non riuscivano a mettere d’accordo nemmeno un condominio visto che erano pieni di “post”, di “pre” di indicazioni geografiche per divisioni superficiali.

E’ curioso come una musica fatichi a trovare un nome quando nasce, poi ad un certo punto diventa stile e si trova una parola nuova che la definisce, poi passa di moda e si confonde con le altre e torna, dopo un’ultimo colpo di coda con definizioni chilometriche, ad una parola unica già esistente che tanto va già bene, quella musica è cristallizzata e morta nell’immaginario collettivo. Sta accadendo pure alla musica rock, arrivata già stanca alla “new wave of the new wave” e che oggi è sempre “post qualcosa”. Anche la musica elettronica mi sembra che segua la stessa strada.

Ecco, credo che tra trecento anni (ma potrebbero volercene molto meno) ci sarà una parola unica che definirà un brano di Julia Holter, uno dei Rolling Stones, uno dei Rancid, uno dei Radiohead, uno dei Rage Against The Machine, dei Public Enemy o di Biagio Antonacci. Saranno tutti lo stesso genere. Forse quella parola potrebbe essere “Rock”, oppure “Pop”, ma chissà che altre parole avranno inventato tra trecento anni. Forse ritorneranno a “Folk”, che in fondo è sempre folk ma con la spina attaccata. Oppure potrebbero riutilizzare “beat”, per indicare il fatto che avere un ritmo pulsante e (quasi sempre) costante e regolare dall’inizio alla fine era, più che la presenza di chitarre o tastiere o altri strumenti, il suo marchio di fabbrica distintivo rispetto alle altre musiche, fossero essere del passato o a lei contemporanee.

Forse useranno i numeri e magari la risposta alla domanda “Che genere fate?” sarà “78”. Qualcuno, per darsi un tono, dirà che “Suoniamo come il minimo comune multiplo tra 41, 18, 63 e 29”, che forse non sarebbe neanche male, non fosse altro perché uno potrebbe rispondere “149814, potevi dirlo subito invece di fare tanto il difficile”.

Questo per dire che, probabilmente, ho detto solo una cazzata.

 

L’età della ragione – Il primo segreto di Rubiera (visto che il terzo di Fatima, diciamoci la verità, non era mica tutto ‘sto granché)

Da qualche tempo mi sono iscritto al gruppo di Facebook “SEI DEL BAR NECCHI SE”, segnalatomi all’epoca dal grandissimo Marco Tagliavini. In pratica è un gruppo di cultori della saga di “Amici miei”. Si parla quasi solo ed esclusivamente attraverso citazioni del film, rispondendosi l’un l’altro.

Siamo ad un livello talmente maniacale che credo plausibile affermare che, se ci mettessimo in testa di farlo seriamente, potremmo partire dalla battuta iniziale del primo film (che per la cronaca è “A quest’ora il Perozzi finisce il suo lavoro di capocronista ed esce dal giornale per andare a casa. Ah, il Perozzi son io. Son talmente abituato a sentirmi chiamare “Il Perozzi” dai colleghi, e soprattutto dagli amici, che quasi ho dimenticato che mi chiamo anche Giorgio”) e arrivare fino all’ultima dell’Atto Secondo. Forse anche del terzo, ma per me il terzo è una forzatura che a parte un paio di cose memorabili ha pochissimo da offrire e quindi in quel caso non potrei contribuire degnamente.

Ebbene, nel secondo episodio c’è una scena dove il personaggio del “Melandri”, interpretato da Gastone Moschin, entra nel Bar Necchi mentre gli altri quattro stanno giocando a biliardo e dice che il sabato seguente ha intenzione di battezzarsi. A quel punto gli altri gli rispondono in maniera apparentemente molto risentita. Il Mascetti (Tognazzi) dice “Io non ho parole”, il Necchi (interpretato da Montagnani, che sostituiva Duilio Del Prete) dice “Io ce l’ho, ma è meglio che non le dica” e il Perozzi (Noiret) dice “Il tu’ povero babbo si rivolterà nella tomba”. Melandri (Moschin) a quel punto dice che il padre non era credente ma gli aveva lasciato libertà di scelta e fa il verso al padre deceduto dicendo “QUANDO AVRAI L’ETA’ DELLA RAGIONE”.

Ora, quando cantavo in inglese, sia con i gruppi che ho avuto che all’inizio da solo, mi veniva chiesto spessissimo dai giornalisti e fanzinari di turno, nonché da parecchi di quelli che venivano a sentirmi, se avessi mai intenzione di cominciare a cantare e pubblicare cose in italiano. Io rispondevo sempre “Quando avrò l’età della ragione”, facendo il verso al Melandri che faceva il verso al padre.

Quando ho deciso di cominciare a pubblicare cose in italiano e dovevo scegliere un titolo per un disco da fare, mi tornò in mente che rispondevo sempre in quella maniera.

Quindi, e giuro che fu solo per quel motivo, decisi di chiamare l’album così.

Ad un certo punto decisi anche che il disco avrebbe dovuto avere una canzone che dava il titolo al tutto e quindi cominciai a scrivere il pezzo omonimo.

Ricordo che scrissi il testo in un paio d’ore, modificandolo un poco nei seguenti giorni.Inizialmente avevo in mente una ballata in stile “Don’t go back to Rockville” dei R.E.M., poi si sa come vanno queste cose e in studio io e Andrea Rovacchi finimmo per fare un arrangiamento diverso.

Ebbene, quella canzone lì venne registrata nel Novembre 2008 e ci rendemmo conto subito di avere per le mani un gran pezzo. Massimo Ghiacci dei Modena City Ramblers, che bazzicava lo studio in quei giorni, mi disse che era “Tra Battisti e i Pixies” e chiunque passasse di lì, quando partiva il playback smetteva di parlare e ascoltava.

Ancora oggi è la canzone che mi chiedono di più durante i concerti, che si becca l’applauso più grosso, che faccio sempre e sempre suonerò anche se dura sette minuti. Va a finire che se un giorno qualcuno dovesse ricordarsi del sottoscritto, musicalmente parlando, sarà probabilmente per quella canzone lì. Attendo con ansia la dicitura “Un classico minore della musica indipendente italiana” in qualche enciclopedia appoggiata sulla mia copertina di plaid a 70 anni mentre curo la mia artrosi alle terme della Salvarola.

Ebbene, ci tenevo a dire a tutti quelli che mi hanno sempre chiesto se il titolo venisse fuori dalla lettura del libro di Jean Paul Sartre, magari dandolo proprio per scontato, magari ccompagnando il tutto con dotte disquisizioni sulla letteratura francese, che le volte che ho magari anche fatto quello che sapeva di cosa stavano parlando, beh….ho mentito

Di Sartre ho letto solo, rigorosamente in età pre-servizio militare, che dopo il militare ho praticamente letto solo saggistica, i seguenti titoli: “La nausea”, “Nekrassov”, “La sgualdrina timorata” e un poco “I sequestrati di Altona” prima di addormentarmi, nel senso che ad un certo punto mi sono addormentato e l’ho piantato lì.

Il caro vecchio Jean Paul non c’entra nulla, manco lo sapevo che aveva scritto un libro con quel titolo lì. L’ho addirittura trovato in una bancarella a un euro un giorno. L’ho comprato, giusto per tenerlo lì sullo scaffale che se qualcuno entra in casa mia posso anche fare l’intellettuale a buon mercato. Magari un giorno lo leggerò.

Ecco…invece è tutta colpa del Melandri, che poi nel film diceva anche “Ho conosciuto un angelo” e alla richiesta degli amici di sapere se fosse “un angelo maschio o femmina” faceva seguire la considerazione che gli angeli non hanno sesso, ma il sempre belligerante Conte Nello Mascetti a quel punto controbatteva:

“Insomma, c’ha le poppe o non c’ha le poppe?”

Una sentinella deve saper fare il suo mestiere

Questo sabato a Sassuolo hanno manifestato le “Sentinelle in piedi”. Una volta, appena ne ho sentito parlare, ero preoccupato che contassero qualcosa. Che fossero un fenomeno in crescita esponenziale, una roba così. Poi ho capito che sono quattro gatti, quattro gatti in preda al panico che non hanno capito che il mondo va in una direzione e si mettono in testa di volerlo fermare, ma tanto non gli riesce. Una buona conferma l’ho avuta dal fatto che tre o quattro persone che conosco e stimo, di buona cultura generale e di sicura intelligenza, abbiano reagito alla mia domanda “Hai visto che ci sono le sentinelle in piedi a Sassuolo?” rispondendomi “Cosa sono le sentinelle in piedi?”.

In effetti, come dicevo, sono quattro gatti. Quattro gatti che un giorno si ritroveranno a dover spiegare ai loro figli che un giorno loro erano contro il matrimonio gay, così come oggi ci sono nonni che spiegano ai loro nipoti (quando non glissano sull’argomento o negano) che loro erano contro il matrimonio tra neri e bianchi. E i loro nipoti si chiedono come potessero essere stronzi i loro nonni, salvo poi perdonarli con un classico “Eh ma quelli erano altri tempi” (che funziona sempre e che secondo me, tutto sommato, è anche un modo sano di vederla).

Sono quattro gatti. Infatti, per sembrare in tanti, si mettono uno a un paio di metri dall’altro e stanno ritti in piedi. Tipo che in Piazza Garibaldi a Sassuolo, a far così ti metti in una settantina e hai già riempito la piazza. Sembrano i musicisti dilettanti italiani quando devono farsi fare le foto dagli amici (o dalla moglie, ehm…) per far sembrare che ai loro concertini sia pieno. E invece la scena musicale dilettantistica italiana rimane sempre lì, con numeri sempre più piccoli, a far finta di contare qualcosa e ormai ci crede solo il ragazzino che comincia a suonare, costretto a perdere tempo ad inseguire un sogno che non vale niente.

Già il nome. E’ sbagliato. “Sentinelle in piedi”. Voglio dire, la sentinella sta spesso nel punto più alto, seduta o sdraiata. Nella guerra di trincea stava aderente alla trincea, praticamente spalmata a terra o accucciata. Insomma, la sentinella che sa fare il suo mestiere sta comunque NASCOSTA. Perché deve vedere senza farsi vedere. Questi qui stanno in piedi. Ben visibili. Perché il loro problema è che si devono far vedere (perché sono quattro gatti). E visto che sono così impegnati nel dover farsi vedere, non riescono a vedere, infatti, che il mondo cambia. E che loro restano al palo. E una sentinella che si fa vedere è la prima a cadere, mettendo in difficoltà tutto il battaglione che, colto di sorpresa, in genere viene spazzato via.

Il casino ai concerti – L’illuminazione (Un chiodo ancora vuoto dentro al muro #2)

Questa sera sono andato alla Salumeria del Rock ad Arceto (RE), il posto dove vado spesso a bere qualcosa insieme a mia moglie. Siamo andati a cena approfittando del fatto che c’era un concerto.

Alla Salumeria del rock suonano spesso i cantautori. Vengono dall’estero, spesso. Max è stato bravo a garantirsi una frequentazione di artisti esteri che passano in Italia per piccoli tour. C’era un tizio chiamato Phillip Bracken che viene dall’Australia. Io non so manco chi sia, però il metodo che usiamo io e mia moglie è partire e andare a sentire uno, anche se non sappiamo chi sia. Se dopo quattro canzoni non ci piace, amen. Tanto siamo vicini a casa, è gratis, beviamo della birra buona, mangiamo bene.

Arriviamo, ci sediamo, un tavolo si riempie, poi un altro, eccetera. Poi arriva Bracken. In sala c’è un bel chiasso, un tavolo di fianco al nostro sta parlando di cavalli da mezz’ora molto rumorosamente.  Non sono gli unici a far casino.

Inizia il concerto e si ripete una scena che chi frequenta concerti di cantautori nei posti piccoli conosce bene. Le chiacchiere aumentano di volume non appena il tizio comincia a suonare, se aumenta di volume lui anche le chiacchiere aumentano di volume, in breve non si riesce davvero a sentire cosa stia cantando e suonando il tizio.

Io suono in giro, capita anche a me di iniziare un concerto così. A quel punto metto in pratica i trucchi del mestiere (dei quali ho promesso e un giorno vi parlerò) e in genere qualche cosina in termini di attenzione riesco a guadagnare. Bracken, stasera, non ci riesce.  Non gli hanno dato nemmeno una possibilità, all’australiano. Non è che hanno ascoltato i primi tre pezzi e hanno deciso “Fai cagare” e quindi lo hanno sommerso di chiacchiere tirandogli le bottiglie come nel film dei Blues Brothers. Quello sarebbe stato uno spettacolo che ancora ritengo dignitoso.

Semplicemente, stavano chiacchierando e, non appena lui ha cominciato, hanno chiacchierato più forte, come se nel locale qualcuno avesse alzato l’impianto stereo. La scena la conoscete bene, immagino.

L’ho detto mille volte. Quando mi capita che sto suonando io, non mi incazzo mai. Penso sia colpa mia. Penso di dovermeli tirare uno ad uno dalla mia parte. Penso sia un dovere sociale di ogni musicista.

Però quando sono un ascoltatore, allora mi incazzo. Perché penso che non posso fare niente, non ho un microfono e una chitarra con le quali combattere, sono semplicemente uno tra tanti e vengo infastidito. Sono lì e non riesco a sentire. Cosa sono venuto a fare allora?

Mia moglie, che è molto più coraggiosa di me, dopo un poco va a dire qualcosa ad un tavolo, poi va da un altro, poi va da “quelli dei cavalli”. Il tizio che fa più casino risponde che tra un poco si spostano, dicendo continuamente dei “Sì, sì” con quel modo che io personalmente capisco “Sì, sì, va bene, taci, stronza”. Io sto bollendo, mi alzo e decido che vado nella stanza accanto del locale, dove non sentirò il concerto ma nemmeno il casino. Non voglio mica fare a pugni, ci mancherebbe. Mentre sono di là, visto che sto bollendo, mi sfogo con Max, il barista. Parlo rumorosamente,  perdo pure un poco la brocca, mi sfogo. Lui mi dice che ha notato un peggioramento del pubblico negli ultimi due anni e non sa come fare. A Max la musica piace. Molto. Mentre mi sfogo dico alcune cose poco gentili sul pubblico di là, accennando non troppo velatamente in particolare ai “tizi dei cavalli” che hanno veramente scassato il cazzo (ma non erano gli unici, ripeto).

Mentre sono lì che semino improperi, ad un certo punto sento da dietro che due tizi dicono “Ora siamo qui a parlare di cavalli” e altre cose che non ricordo. A quel punto mi giro verso di loro e li mando abbastanza a cagare. Loro mi rispondono che ora sono io che sto parlando rumorosamente e quindi “ci impedisci di parlare di cavalli”. Rispondo loro che “Adesso parlo forte io nelle tue orecchie per una mezz’ora così capisci quanto hai scassato il cazzo”.

Poi l’illuminazione. Lo scatto, la cosa che mi apre gli occhi. Quasi mi reca fastidio che me l’abbia fatta notare uno dei cowboy.

Mi dice “Oh, io sono poi in un posto pubblico”, intendendo evidentemente che questo gli garantisce il diritto di urlare quanto cazzo vuole.

Eccola, la stortura logica. Quella che fa sì che noi italiani abbiamo 4 bidet ma appena fuori casa ci sentiamo liberi di scaricare un mare di merda sul marciapiede che tanto è PUBBLICO, mentre in (mettete un paese europeo che volete) non si laveranno il culo, ma guai a buttare una carta sul marciapiede perché è PUBBLICO, non si può.

Oh, insomma. PUBBLICO non vuol dire FACCIO COME CAZZO VOGLIO. Vuol dire L’OPPOSTO.

Pensateci bene. Volete un esempio concreto? Io ho un cane. Nel mio giardino il cane CAGA QUANTO CAZZO VUOLE, tanto è il mio giardino e a me non dà fastidio camminare come un danzatore sulle punte in mezzo ai suoi escrementi. Sono cazzi miei.

Invece, quando andiamo a fare la passeggiata al parco, mi porto dietro i sacchetti. Il cane caga e io LA TIRO SU. Non è che dico “Sono poi in un posto pubblico” e quindi faccio come mi pare.  Faccio come si deve fare perché tutti possano stare lì, anche quelli che non amano i cani e comunque anche quelli che non amano la merda. Che infatti, se non tiri su la merda, si incazzano (e fanno benissimo). Se uno non la tira su, anzi, quelli che di solito lo fanno si arrabbiano molto, perché basta uno stronzo (metaforico) che non tira su uno stronzo (letterale) e ci rimette tutta la categoria, almeno in termini di reputazione.

Quindi, quando qualcuno fa un casino della madonna durante un concerto in un posto piccolo, non abbiate paura di dirgli di smettere. Sarete voi a dovergli ricordare che “SIAMO IN UN POSTO PUBBLICO” e quindi dobbiamo garantire a tutti il diritto di usufruirne. Se il posto quella sera prevede che si suoni, bisogna garantire che chi vuole ascoltare riesca a farlo.

Perché come mi ha appena detto mia moglie, quando siamo arrivati a casa:

“Sai cosa mi fa incazzare? Che i primi quattro stronzi mi facciano passare la voglia di andare a vedere un concerto. Che abbiamo un posto vicino a casa nostra che è gratis, si sta bene, ci viene della gente da tutto il mondo che suona pure bene e io sono qui che sto pensando che la prossima volta che c’è un concerto, a me magari non verrà voglia di andarci, ma penserò che ho più voglia di stare in casa a vedere un film”

(Nel video de “IL CHIODO”, che ho pubblicato lunedì e che parla proprio del casino del suonare in giro quando nessuno ti caga, all’inizio del video io fingo di fare il macellaio. Faccio tre etti di macinato. Di cavallo. Pensa te)

Quando smettere di suonare? (Un chiodo ancora vuoto dentro al muro)

Ognuno di noi, intendo di noi che suoniamo, ha dei momenti nei quale decide di dire basta. Poi passa, in genere. E’ un poco come una batteria di un cellulare, più volte la ricarichi e meno dura, fin quando sei costretto a buttarla e a provare, magari, a cambiare batteria.

Succede che suoni in una band e ad un certo punto gli anni iniziano a farsi sentire e quindi il fatto di non andare da nessuna parte musicalmente inizia a pesare. Inizi a chiederti chi te lo fa fare, di andare a fare le prove ogni settimana per fare cose che nessuno vuole ascoltare.

La risposta, dopo qualche mese dove vai ugualmente e sempre con meno voglia, è che è ora di farla finita. In genere a quel punto uno del gruppo si prende la briga di causare il terremoto. Se il gruppo è compatto e unito, il tizio che dice basta viene rimpiazzato senza grossi problemi e questo potrebbe pure portare un poco di aria fresca e una nuova voglia di fare. Se invece il tizio che causa il terremoto non può venire rimpiazzato senza grandi traumi, allora il gruppo finisce.

A quel punto segue, in genere, un periodo di stop. In questo periodo pensi a quel che vuoi fare, musicalmente parlando. Hai tutto il tempo che vuoi, sei un dilettante della musica, puoi crogiolarti nel tuo dolore per quanto tempo lo ritieni giusto e nessuno si verrà a lamentare.

Ad un certo punto ritrovi la voglia. Ricominci con qualcosa di nuovo. Può essere un altro gruppo, può essere che ti metti a registrare in casa musica da film, insomma… ricominci. Dopo qualche tempo che ricominci, il tuo nuovo lavoro viene portato di nuovo in giro. Riparti dai contatti che avevi quando eri nella band, di solito. Mano a mano riesci ad incasellarti una serie nuova di contatti e di posti dove suonare, magari anche in ambienti che non ti saresti aspettato visto il tuo passato musicale. E’ questo il momento più bello. Quando qualcosa che vedi che hai creato sta crescendo e non sai fino a dove potrai arrivare. Magari arriverai solo un metro più in là, ma questa incertezza, unita allo stupore nel vedere che qualcuno è ancora disposto ad ascoltarti, è una carica che ti fa andare avanti con una gioia incredibile.

Quando ho smesso di suonare con una band e ho cominciato da solo, all’inizio non avevo idea di cosa mi aspettasse. Non sapevo nemmeno bene cosa avrei fatto sul palco. Iniziai in inglese, come avevo sempre fatto, poi visto che da un poco pensavo che forse ero anche capace di scrivere dei testi decenti, iniziai a cantare in italiano.

Durante un concerto a Pistoia capii che il destino di chi canta da solo è di affrontare una platea super rumorosa. Anche quando suoni con una band, in realtà, metà del pubblico si fa i cazzi suoi. Ma tu sei immerso in una mole di suono tale che non li senti, non te ne accorgi. Se te ne accorgi, non sembra comunque una cosa grave.

Quando suoni da solo, ti sovrastano. Se riesci a farli tacere, bene. Se non ci riesci, sei fritto.

E’ una battaglia. Ogni volta. Un giorno vi spiegherò anche le armi con le quali si combatte, questa battaglia. Almeno quelle con le quali la combatto io, non necessariamente le più adatte.

Ci sono momenti in cui la battaglia la vinci, in genere si accompagnano a momenti in cui il tuo nome gira un poco di più rispetto a prima. Magari gira meno di quanto girerà l’anno dopo, ma sei in crescita. Se, per fare un esempio, oggi sei a 30 e domani sei a 35, è più facile che vinci una battaglia rispetto a quando magari l’anno seguente sei a 70, ma ieri eri a 75. Capito? E’ proprio il modo, con il quale vai su a suonare.

Perché quando una cosa cresce, lo senti. Quando una cosa ristagna, ristagna. E’ come quando arrivano i CD la prima volta che fai un cd. Arrivano e sei gasatissimo, il primo giorno li porti negli unici 3 negozi che sono rimasti aperti, giri per le due radio che sono rimaste aperte, mandi post a destra e a manca e sei di buonumore.

Poi, mano a mano che fai un altro disco, poi un altro, poi un altro ancora, l’entusiasmo cala. Magari ne vendi pure di più, magari hai più gente a guardarti quando suoni. Però ti senti che sei “sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai stai lì”, come dice quello di Correggio.

Sono i momenti in cui ti chiedi quando arriverà il momento di smettere. I momenti in cui pensi che forse è arrivato, anche se poi trovi qualcosa che ti fa andare avanti ancora. Quel qualcosa che è come una droga il cui effetto dura sempre di meno.

LUNEDI 21 SETTEMBRE renderemo visibile il video di un brano chiamato “IL CHIODO”, che parla proprio di questa cosa qui. E’ girato da Corrado Ravazzini, un amico che con un suo corto chiamato “Perfetto” ha vinto qualcosa come 41 premi in diversi festival di cortometraggi. Protagonista del video sarà Vincenzo Maenza, medaglia d’oro nella lotta greco-romana 48 kg. a Los Angeles 1984, Seoul 1988, argento a Barcellona 1992, campione del mondo e d’Europa. Il più grande lottatore italiano di tutti i tempi, a dirla proprio come va detta.

(Oggi mi sono arrivati i CD del mio nuovo album, si chiama “TROPPO TARDI”. Nei prossimi concerti li avrò con me. Non ci sarà nessuna “PRESENTAZIONE UFFICIALE”, perché in realtà è un concerto come un altro e di prendere per i fondelli le persone mi sono rotto)

Chi te l’ha data tutta questa confidenza?

A me personalmente, e sottolineo personalmente, che non è mica che sia una regola ma è una cosa che sento io personalmente, dicevo a me personalmente arreca un certo fastidio vedere che c’è gente che si prende la confidenza di dare del tu o chiamare per nome uno che è morto e che non si conosceva per niente quando era vivo.

Mi ricordo che il giorno che morì Carlo Giuliani, era appena circolata la notizia su come si chiamasse la vittima ed io ero a vedere un concerto. Il tizio che cantava ad un certo punto disse “A Carlo, martire della rivoluzione”. Io non sapevo neanche chi era, Giuliani. Sapevo che era morto un paio di ore prima. Non sapevo ancora che faccia avesse. Manco il tipo che cantava, quasi sicuramente. Però ecco che Giuliani era subito diventato “Carlo”. Manco il cognome. Così, un amico. Volendo fare una battuta indelicata, basta che un carabiniere ti ammazzi ed ecco che diventi subito mio amico. Che bella aggregazione.

Abbiamo dunque assistito alle confidenze che il mondo si è preso con i vari Federico, Sakineh, Eluana,  con “il piccolo Samuele” il quale aveva un cognome, ma molto meglio “il piccolo”, anche se non serviva di certo a distinguerlo dal “grande Samuele”.
Adesso è il turno di “Aylan”.

Chiamato per nome, come se fosse il figlio del nostro vicino al quale andavamo a chiedere il sale che ci era finito. E via, gli si comincia a dare del tu. Ci sono quelli che sugli editoriali scrivono addirittura una lettera finta dandogli del tu, dicendogli “Ciao Aylan, magari quel giorno la mamma ti aveva aggiustato la camicia”.
Da vivo non sai chi è, non te ne frega nemmeno una mazza. Non ci hai mai parlato in vita tua. Però, come uno muore, subito a prendersi la confidenza. Tanto nessuno ti verrà a dire “Mi dia del lei”.
Capisco che accada per uno sportivo, un cantante, un personaggio che hai apprezzato da vivo per lungo tempo e che quindi senti un poco tuo, perché è stato davvero parte integrante della tua vita, anche se solo di riflesso.
Ma secondo me, quando si comincia a dare del tu a uno che non conosci, a chiamare per nome senza il cognome, a scrivere delle lettere che tanto il destinatario non le può mica leggere, sembriamo un poco il Geometra Calboni in quella scena di Fantozzi dove arrivano a Courmayeur e lui saluta tutti facendo finta di conoscere il bel mondo.

Poi, se non era per Fantozzi che aveva portato il libro alla contessa, alla festa manco li invitavano.

Hai visto che ha rotto la chitarra?

Il chitarrista dei Verdena ha rotto la chitarra e ha chiesto via Facebook se qualcuno aveva una chitarra da prestargli per la sera. Si è scatenato il dibattito su Facebook. Tutti che diciamo la nostra.

Non avete notato una cosa, noi che seguiamo quelli che suonano?

Non parliamo MAI di musica. MAI. Parliamo solo di stronzate. Come se me ne fregasse qualcosa del colore della chitarra dei Verdena, del fatto se sia loro o meno, se abbiano lo scontrino di quando l’hanno comprata, se ieri l’hanno rotta, se oggi l’hanno comprata nuova, come cazzo erano vestiti.

Tutti a scrivere “musicista” sul proprio status, ma non parliamo MAI di musica, solo di stronzate. Non che uno debba sapere per forza cosa sia una semibiscroma, una legatura, una scala modale.

In effetti non ce ne sarebbe nemmeno bisogno. La “popular music” viaggia su coordinate popolari. Ma nemmeno mai parlare di timbro, di dinamica, del perché suona bene uno e un altro no, del perché questo disco ci piace e questo no, cercando di parlare di musica.

E dire che sarebbe semplice, soprattutto per chi suona. Se suoniamo, se decidiamo di mettere questo o quell’accordo prima o dopo in quella sequenza, se questa o quella sequenza o linea melodica l’abbiamo già sentita in un disco e poi in un altro e ci piacciono quelle successioni di note. Se ci piace quel suono di chitarra, quella linea di basso, quel modo di suonare la batteria senza praticamente usare il charleston (oppure usandolo apertissimo che si senta, diobono).

Mai che senta fare questi discorsi. Essenzialmente perché per fare questi discorsi la musica vuole ascoltata. E invece no, siamo tutti ad aspettare di fare il primo click al nuovo My Bloody Valentine in tempo record per poter sparare la nostra stronzatina e poi ce lo dimentichiamo subito, non ne parleremo mai più, tanto che oggi manco il titolo e quanti cazzo di pezzi c’erano, figurati ricordarsi una linea di voce.

Non parliamo MAI di musica. MAI. Siamo come le clienti delle parrucchiere, che devono leggersi il loro Novella 2000 e affini del cazzo, sparare le prime quattro stronzate e poi passare ad altro. Siamo come i tifosi di calcio che misurano il loro intendersi di calcio dicendo “Tu taci che noi abbiamo vinto “n” scudetti e voi “n-8″ scudetti e quindi abbiamo ragione noi”.

Non parliamo MAI di musica. MAI, mi raccomando.

 

Carmen Consoli, David Byrne, Bob Dylan, Dave Van Ronk.

Quando Bob Dylan scrisse “Blowin in the wind” e iniziò a suonarla al Cafè Wha? nel Greenwich Village di New York, ci furono un paio di cantanti appartenenti a quella scena folk che si stava facendo strada che iniziarono a parodiarla istantaneamente prendendo in giro quel giovane cantautore puzzolente e sfrontato del Minnesota.

Cantavano tra loro “The answer, my friend, is blowin’ up you end” per prendersi gioco di lui.

Dave Van Ronk, eccellente folksinger anche lui facente parte della piccola comunità, drizzò le antenne e si mise a pensare. Pensò che se Dylan aveva cantato la canzone solo una volta e già girava la parodia tra i suoi “colleghi”, probabilmente questo voleva dire che la canzone era maledettamente buona e che sarebbe rimasta lì a lungo. Pensò che Dylan non aveva una gran voce, suonava la chitarra in maniera poco precisa, l’armonica non ne parliamo. Però aveva uno stile, lo sentivi subito che era lui e ti rimaneva impresso nella memoria talmente tanto che bastava un ascolto.

Carmen Consoli è stata invitata al Meltdown Festival a suonare, unica italiana. Il festival è curato da David Byrne, ex cantante dei Talking Heads. Qualcuno dice “Brava”, qualcuno dice che David Byrne si è rincoglionito, qualcuno dice che la Consoli fa schifo.

La Consoli ha uno stile. Canta in un modo che lo senti subito che è lei. Può anche farti schifo, ma capisci subito che non è nessun altro. Quei singhiozzini lì si fanno prendere in giro con enorme facilità, se uno vuole fare una imitazione della Consoli per ridere ci mette due secondi. Segno ulteriore che la signora ha uno stile. Il suo.

Non so chi sia Dylan e chi sia Van Ronk, in questa storia. Credo però che tutti quelli che stanno dicendo su alla Consoli e a Byrne siano come quei due cantautorini che cantavano “Is blowin’ up your end” al Café Wha?.

Due tizi dei quali non è rimasta alcuna traccia. Nessuno sa chi sono, perché effettivamente non sono nessuno.