Jovanotti, gratis, l’esperienza insegna.

Quando morì il mio amico Luca Giacometti detto “Gabibbo”, il mandolinista dei Modena City Ramblers, andammo al funerale. Fu un bel funerale. C’era un sacco di gente, il Gabibbo era uno che si sapeva far volere bene.
Luca era iscritto a Rifondazione Comunista. Un ragazzo della sede locale venne dunque al funerale con una bandiera con la falce e martello. Un altro venne con la bandiera della CGIL. Erano in mezzo al corteo funebre, non li avevamo neanche notati, a momenti, in mezzo a tutta quella gente.
La sera a cena accendemmo il telegiornale di TeleReggio e il tipo disse la notizia così:

“Tra bandiere di Rifondazione Comunista e della CGIL si sono svolti oggi a Correggio i funerali di Luca Giacometti”

Se non fossi stato lì mi sarei immaginato uno sventolio da perdere la testa. Poteva dire anche “Tra sciarpe del Genoa e carri funebri si sono svolti oggi a Correggio…” visto che c’era anche una sciarpa del Genoa e un carro funebre.

Ciao Luca, scusa se ti ho tirato in ballo.

Jovanotti, dicono, avrebbe detto che lavorare gratis nella cultura per fare esperienza non è poi tutta ‘sta tragedia. Non so se ha detto proprio così, ai titoli di giornale non credo più dopo la cosa del Gabibbo. Mai. O leggo tutto l’articolo oppure non me ne frega niente.

E’ molto interessante invece la levata di scudi nei commenti sui socialcosi, dove tutti dicono dietro al Cherubini perché lavorare gratis, la cultura, la musica è lavoro, bla bla bla.

Suonare a 300 km di distanza per 150 €uri, facendo un soundcheck alle 16 che poi ti aprono il locale alle 18 perché “arrivo subito”, che ti eri preso mezza giornata di ferie apposta. Restare nel posto fino ad un’ora tarda perché “Aspettiamo che arrivi un po’ di gente” in preda ad una noia mortale. Poi suonare, tieni basso mi raccomando che i vicini (se iniziassi prima, magari i vicini avrebbero meno da dire), poi litigare su una decurtazione del cachet fatta in nome di una non meglio identificata appartenenza ad una non meglio specificata “indipendenza” (si dice DILETTANTISMO, ma per darsi un tono questo e altro), tornare in notturna, dormire tre ore e tornare a lavorare. Al momento in cui ti scuce i soldi, sentirti chiedere “Ma perché tu hai anche UN ALTRO lavoro?” e resistere alla tentazione di dargli un cazzotto in faccia. I soldi, naturalmente, in rigoroso nero, che fa comodo a tutti. Il borderò della SIAE magari manco lo fai, che si sa che alla SIAE sono dei ladri. Firma qui che scriviamo che sei venuto gratis, scusa sai le cose burocratiche, che schifo l’Italia eh…

Se hai fatto almeno una volta queste cose qui, soprattutto se la continui a fare e se lo rifaresti domani che in fondo ti va benissimo, pensaci due volte prima di pontificare su un titolo di giornale.

Che al tuo funerale chissà cosa scriveranno. E tu non ci potrai fare un cazzo di niente, sarà troppo tardi.

25 Aprile – Fatela finita una buona volta. (La memoria condivisa)

A me quelli che si lamentano che “anche i partigiani uccisero della gente innocente” e dicono che “i partigiani si resero protagonisti di diverse vendette anche dopo il 25 Aprile” e che “poi hanno ammazzato Mussolini senza processarlo e quindi alla fine sono tutti uguali”, un poco mi viene anche da compatirli.

Mica che lo voglio negare io, che ci possa essere stata una giustizia sommaria. Così come vedo che i dittatori capita che li ammazzino anche oggi, mica sempre gli fanno fare il libro di aforismi per la Mondadori e l’intervista dalla Bignardi.

Il punto è che quelli che dicono così, io me li immagino. Tutti questi qui, che appena una famiglia straniera gli passa davanti in graduatoria all’asilo perché ha 6 figli e i nonni sono in Marocco, cominciano subito a dire che bisognerebbe gasarli tutti e sterminarli con la bomba atomica. Avete presente no?

Ecco. Io me li immagino, questi tizi qui,  esser presi per vent’anni a bastonate, botte, olio di ricino, sequestri e confische dei beni, gente che ti manda a morire a cazzo, la fame, la miseria, il mercato nero, le case che non ci sono più perché le hanno bombardate, qualche parente o amico trucidato davanti agli occhi, le mogli stuprate una volta alla settimana quando va bene, il tutto per vent’anni senza mai poter dire un cazzo altrimenti altre bastonate, botte, olio di ricino, sequestri e confische dei beni, gente che ti manda a morire a cazzo, la fame, la miseria, il mercato nero, le case che non ci sono più perché le hanno bombardate, qualche parente o amico trucidato davanti agli occhi, le mogli stuprate una volta alla settimana quando va bene, il tutto per vent’anni senza mai poter dire un cazzo.

Me li immagino che dopo VENT’ANNI COSI’ ad un certo punto uno dice “STOP”, tipo l’arbitro che fischia la fine della partita. E loro, belli come il sole… OPLA’, a stringere la mano all’avversario e tutti a fare il terzo tempo a bere insieme al bar. E se anche solo uno prova a toccarne uno dopo sentirsi dire “Eh no, allora hai menato anche tu. Quindi uguale”. E naturalmente loro a quel punto a dire “Eh sì, hai proprio ragione. Uguale, uguale” abbassando la testa e sorridendo chiedendo magari anche scusa.

Me li immagino. Ce li vedo proprio.

Stando a quanto dice un saggio piuttosto bello chiamato “Il continente selvaggio – L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale”, che è un libro di Keith Lowe che sto leggendo adesso e che vi consiglio anche se ci vuole dello stomaco, parecchi ebrei liberati dai lager nazisti (giusto per fare un esempio) si resero protagonisti di episodi di violenza su diversi civili tedeschi, spesso massacrando donne e bambini in branco con particolare efferatezza solo perché erano tedeschi. Andate in Israele a dire ai loro nipoti che “i loro nonni allora erano uguali ai nazisti”. Fossi in voi mi porterei dietro delle garze.

 

Allievi di Allevi.

E’ uscito un libro di Saturnino, il bassista di Jovanotti (e non solo, ma si fa per capirsi). Parla di un sacco di colleghi, dicono parli bene di tutti più o meno.

Parla male di Allevi.

Dice, in sostanza, che era un tignoso rompicazzo e che spara un sacco di balle. Tipo che racconta che questo o quel pezzo sono stati scritti in una particolare occasione e invece li aveva già nel cassetto. Dice che sua moglie, che gli fa da manager, è una cagacazzi. Ovviamente non dice così, il tutto è più circostanziato e attendibile.

C’è un passaggio che mi è rimasto impresso. Quando parla del manager di Allevi che lo ha fatto emergere, un tale che si chiama Vitanza, una di quelle figure del music business che nessuno conosce tranne gli addetti ai lavori e che spesso fanno la differenza tra un artista famoso e uno no.

Dice che Vitanza era un maestro della comunicazione e che, per fare un esempio, ebbe la grande idea di fare un concerto al Blue Note di New York e poi dire “Tutto esaurito al Blue Note di New York”. Il che era vero, badate bene. C’è che poi il Blue Note è un buco che (parole di Saturnino, più o meno) se ci metti quelli dell’ambasciata italiana e del consolato su invito, allora è già pieno.

Questa cosa qui, del fare sembrare la cosa di più di quel che si è, la facciamo tutti. Ognuno fa quel che può, però ad esempio io potrei dire che ieri sera al Pantagruel di Casale Monferrato (dove ho suonato) non c’era un tavolo libero. Tutto esaurito. Altre volte ci ho suonato (tre o quattro) e c’erano persone in piedi ammassate all’entrata.

Ora, vi sembra una cosa molto figa, in realtà ieri sera al Pantagruel c’erano venti persone. Il posto è molto piccolo, se uno occupa un tavolo da solo, in un altro sono tre, in un altro due, insomma…. Il posto sembra pieno. O meglio, lo è. Ma se dico “posto pieno” fa un certo effetto, se dico “Ieri sera erano in venti” sembra una schifezza.

Il concerto ieri sera è stato molto bello. Le venti persone che c’erano erano molto contente, hanno tutti comprato qualche disco, è stata una serata molto piacevole dove ci siamo divertiti tutti. Un tizio è venuto da Torino, da solo in macchina, fino a Casale Monferrato apposta. Era contento come una pasqua e io non lo avevo mai visto in faccia in vita mia. Che figata. Penso che il Pantagruel sia uno di quei posti dove io suonerò sempre, mi basterà chiedere quando sono liberi. Ne sono contento. Molto.

Ecco, questa cosa qui, dello svelare le cose, del cercare il più possibile di dire la verità, io la vado predicando da tempo. Sono perfettamente cosciente che a dire la verità ci si rimette, a fare come fa il Vitanza si fa il proprio lavoro come si deve fare. Non è mica che io sono un santo. Ho sparato balle per un sacco di tempo, pure io. Oggi non ho niente da perdere, ho deciso che è ora di cambiare rotta.

Perchè?

Perché credo che, se non avete vent’anni e ormai le prospettive che avete davanti sono quelle di una vita di lavoro e di suonare soltanto nel tempo libero, guidati dalla vostra passione, sia un dovere sociale cercare di dire la verità.

CERCARE, perché i vizi sono duri a morire e come si può stare vent’anni senza fumare e poi ripartire di colpo, anche il vizio di ingigantire una bella cosa può ripresentarsi in maniera involontaria.

Però credo che noi che abbiamo passato i 35-40 dovremmo cercare di farlo sempre. Perché credo che lo dobbiamo alle nuove generazioni. Se noi raccontiamo loro la verità, a loro non toccherà perdere tempo inseguendo sogni che non valgono nulla, trovandosi con un pugno di mosche in mano quando magari si erano fatti un’idea sbagliata. Un’idea che gli avevamo dato noi. Inoltre, in questo modo chi verrà dopo di noi riconoscerà prima i mille trucchetti del caso.

Forse in questo modo faremo davvero crescere una scena musicale consapevole. Forse no. Quantomeno, avremo meno Allevi tra i coglioni.

L’abitudine

Io, quando suono, ho delle persone che vengono a sentirmi apposta.
Non sono mica tante, ma vengono apposta. Mi hanno sentito una volta e dopo tornano a sentirmi, sentono che canzoni nuove ho scritto e riascoltano quelle vecchie.
A volte succede pure che muovono la testa ritmicamente e a volte succede che con la coda dell’occhio vedo che cantano le canzoni che sto suonando.
Non sono mica tante. A volte vengono a sentirmi suonare e poi non vengono più per tanto tempo, che io mi dimentico anche chi sono. E mi si presentano davanti e mi dicono “Sono xyz” e io non mi ricordo e mi sento anche un poco una cacca, a non ricordarmi. Quando non mi ricordo lo dico, che non sta bene dire che ti ricordi se non è vero. Però qualche volta l’ho fatto, di dire che mi ricordavo e invece no, ma mi son pentito subito e oggi non mi capita quasi mai.
A volte ci sono delle persone che vengono a sentirmi un sacco di volte, che mi sentono anche dieci volte in un anno, che si fanno dei km apposta. Mi è anche capitato che venissero da lontano e si prendessero un albergo. Mi capita anche che ci sono dei posti che quando ci torno, ci sono quelli che mi avevano sentito la volta prima e tornano ogni volta, si comprano il disco nuovo, lo ascoltano, gli piace.

Non sono mica tanti. Ci sono di quelli che ne hanno a centinaia, anzi a migliaia, così. Delle volte ne hanno talmente tanti che il fatto che succedano queste cose qui gli sembra una cosa normale.

Io so che non mi ci abituerò mai.

Che bello.

Natale in fumo

L’autunno del 1992 di colpo vide lo sciopero del monopolio tabacchi.

Non avevamo capito subito cosa avrebbe significato. Io fumavo da tre anni, non avevo idea di essere completamente dipendente dalle sigarette al punto di esserlo anche dalle mie sigarette preferite. Avevo cominciato con le Marlboro Rosse a 17 anni, poi ero passato brevemente alle Lucky Strike per poi virare verso le Diana Rosse, che assomigliavano alle Marlboro e costavano molto ma molto meno.

Poi di colpo il monopolio tabacchi fece sciopero. Le sigarette iniziarono a diventare introvabili. Inizialmente iniziavano a diventare introvabili le marche più usate e ti dovevi sciroppare le marche più scrause. Iniziavi a sentire dei nomi che manco sapevi che esistessero. Passi per fumarsi le Milde Sorte (una stecca comprata all’inizio dello sciopero, quando ancora non avevamo capito come sarebbe andata a finire, mi salvò per due settimane circa), ma quando arrivi a fumarti le ALFA e le Nazionali, capivi che erano cazzi da cagare.

Poi si passò al trinciato forte messo nelle cartine. Ad un certo punto c’era solo quello. Tabacco schifoso che ti rullavi nelle cartine. Quando incontravi uno che fumava una sigaretta vera lo guardavi come se fosse stato uno che ti sbandierava in faccia che lui aveva il Porsche Carrera e tu una Panda.

Ricordo che si andava a fare le macchinate, tra fumatori, nei paesini di montagna. Perché nei paesini di montagna le sigarette andavano via più lentamente e quindi trovavi dei bar tabacchi che ne avevano ancora. Macchine cariche di 5 persone, spesso due macchine. Si partiva e quando si avvistava una “T” bianca su sfondo nero dopo 6 km di tornanti sentivi salire nel petto la speranza. Poi entravi e scoprivi che le davano razionate. Tipo che ne vendevano ad una singola persona non più di un pacchetto. Allora si parcheggiava a un centinaio di metri di distanza, si entrava uno alla volta, se un non fumatore aveva deciso di unirsi alla banda anche lui doveva entrare e comprarsi delle sigarette per la comunità e sarebbe stato premiato offrendogli da bere una volta ritornati a casa.

Ricordo che quando si usciva dal bar tabacchi di montagna dopo in macchina si dividevano le sigarette, nel caso che ne fosse risultato meno di un pacchetto a testa. Sembravamo degli eroinomani.

Lo sciopero intanto andava avanti, ormai anche il trinciato forte era un lusso e lo razionavi, fumando il meno possibile fin quando proprio non ne potevi più. C’erano scene veramente patetiche, da parte di fumatori pluridecennali che ti insultavano quando ti chiedevano una sigaretta e tu dicevi “NO”, perché magari ne avevi quattro e non sapevi fino a quando ci avresti dovuto tirare avanti.

In una fase ancora embrionale di questo tracollo psicologico e morale di stampo paraproibizionista, i più abbienti arrivavano ad avere le sigarette che fumavano loro e quelle da offrire. Più tardi avrebbero anche loro pagato pegno, arrivando ad avere un unico pacchetto vecchio che avevano tenuto per conservare una sigaretta o due di varie marche. Quindi capitava che assistessi a frasi del tipo “Ti posso dare due PAK AL MENTOLO per una NAZIONALE”. Chi aveva amici stranieri se le faceva spedire di contrabbando.

Arrivò Natale e ancora la situazione non si era sbloccata, le sigarette non si trovavano, le scene di cui sopra all’ordine del giorno. La sera della vigilia di Natale andai a trasmettere a Radio Antenna Uno per lo speciale natalizio, poi tornai a casa per cenare. Non facevamo un cenone alla vigilia, non lo abbiamo mai fatto. Ricordo che mangiammo gli spaghetti al tonno, che mia madre fa degli spaghetti al tonno che secondo me se il tonno sapesse che finisce lì dentro sarebbe talmente orgoglioso che si consegnerebbe ai pescatori di sua spontanea volontà.

Poi mia madre mi disse “Toh, il tuo regalo”. Era tempo che i regali non ce li facevamo praticamente più, ma mia madre finiva sempre per tirare fuori qualcosa. Un accappatoio, un maglione di lana, cose così. Quell’anno mi passò questo coso incartato in una roba rossa. Strappai e la vidi.

Una stecca di Marlboro rosse.

“Le ho comprate un poco di tempo fa, non appena è iniziato lo sciopero. Le ho tenute lì nascoste”.

Ne fumai una subito. Poi mi sistemai, andai in bar dove ci trovavamo sempre, con tre pacchetti. Uno in tasca a me e due che buttai sul tavolone dove si riuniva la mia compagnia, dicendo “Ragazzi, non litigate, buon Natale”.

Mi sentivo come Marlon Brando ne “Il padrino”, o qualcosa del genere.

E’ stato il Natale più bello della mia vita.

40 anni fa – La fine della seconda guerra mondiale.

Si chiamava Teruo Nakamura, anche se il suo nome aborigeno era Attun Paladin. Veniva dall’isola di Taiwan ed era nato nel 1919. Arruolato nell’esercito giapponese, venne spedito nella piccola isola indonesiana di Morotai come parte di un’unità militare chiamata “Volontari di Takasago”. Morotai fu teatro di una cruenta battaglia nel 1944, al seguito della quale tornò sotto il comando alleato.

Nakamura non venne catturato, rimase nascosto insieme ad altri suoi commilitoni fin quando, in circostanze mai completamente chiarite, li abbandonò e si costruì un piccolo campo solitario. Una capanna, una decina di metri di terra recintata.

Aspettò lì che le cose si mettessero meglio. Resistette, fin quando un pilota non si accorse di questo curioso accampamento e chiamò le autorità, che non senza qualche difficoltà procedettero al suo arresto e lo costrinsero ad arrendersi.

Era il 18 dicembre del 1974.

Nonostante il Giappone avesse firmato la resa il 2 settembre 1945, erano molti i soldati giapponesi che erano stati ritrovati dopo quella data. Anzi, proprio nel 1974, in febbraio, era stato catturato Hiro Onoda, un ufficiale dell’esercito giapponese rimasto nascosto nelle Filippine. Visto che era tanto tempo che non se ne trovavano più, Onoda era stato riportato in patria, il suo nome fece il giro del mondo, scrisse un libro, tenne conferenze, la sua storia diventò celebre.

Il Giappone non aveva voglia di un secondo “ultimo soldato ad arrendersi”. Non si trattava solo del fatto che quando una storia viene promossa dalle televisioni e dai media, poi non hai voglia di un altro ritrovamento che la smentisca. E’ anche che Nakamura era un soldato semplice e non un ufficiale. Ma più di ogni altra cosa, era di Taiwan, isola che nel frattempo era tornata sotto la Cina dopo la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale. L’ultimo ad arrendersi, ad incarnare l’eroismo cieco nipponico, non poteva essere un cittadino cinese.

La posizione della Cina stessa su Taiwan appariva (e ancora oggi appare) un tantino controversa, ragion per cui anche il governo cinese non gradiva eccessiva pubblicità.

Nakamura venne dunque rimpatriato direttamente a Taiwan, per lui non ci furono parate militari, gloria e onore. A Taiwan, Nakamura incontrò di nuovo una moglie che nel frattempo si era abituata all’idea del marito morto in guerra e da vent’anni si era risposata.

La sua nuova, confusa vita, vide un’imbarazzante querelle tra i governi di Cina e Giappone su chi dovesse accollarsi la paternità della sua missione e su chi dovesse provvedere al suo sostentamento. Nakamura infatti al momento del suo arresto era ufficialmente un apolide.

Alla fine di questa tragicomica farsa, Teruo Nakamura venne liquidato dall’esercito al quale aveva prestato servizio in completa solitudine per 29 anni più del necessario.Egli rimane, al momento, l’ultimo giapponese ad essersi arreso, visto che i successivi ritrovamenti di soldati nelle varie aree di guerra si sono poi rivelati falsi per attirare i turisti o semplici errori di ricerca.

Il compenso per la sua abnegazione e la sua fedeltà fu nient’altro che la pensione minima di un soldato semplice. Sessantottomila yen, più o meno l’equivalente di mille euro al giorno d’oggi.

Nakamura è morto di cancro, nel 1979, soltanto cinque anni dopo il suo rimpatrio.

Natale dell’odio.

1. Il momento, inevitabile, in cui sei in giro da qualche parte e da un qualsivoglia altoparlante parte “All I want for Xmas is you” cantata da Mariah Carey. Se poi fai tanto di beccare anche il momento in cui il pezzo sta finendo e (se passa per radio) arriva il Dj a parlare con quel modo di parlare scemo che ha la maggioranza dei Dj, allora capisci perché Ted Bundy, Charles Manson, il mostro di Firenze e compagnia bella hanno fatto quello che hanno fatto.

2. Il momento in cui sei a tavola con la famiglia e uno innesca la famosa diatriba sul fatto che da una parte del Secchia si chiamano “tortellini” e dall’altra parte del Secchia si chiamano “cappelletti”. Il fatto che sia sempre, inevitabilmente, un parente a farlo. Sangue del tuo sangue.

3. Il momento in cui arriva uno a dire che “Il tortellino vero è in brodo” e ti voglia fare passare per idiota perché lo mangi alla panna. Naturalmente il brodo “è di gallina” e non appena è stato detto che è di gallina, naturalmente,”si sente che il brodo è di gallina”. I più ardimentosi chiedono “Ma di gallina o di cappone?”. Lì, se io fossi un giudice del tribunale, direi che è “colpa grave”.

4. Il momento in cui arriva uno e ti dice “buona fine e buon principio”. Il resto sperano che ti vada di merda.

5. Il momento in cui uno dice che “Ormai lo spirito del Natale si è perso”. Io non so cosa sia, lo spirito del Natale. Lo dimostra il fatto che, almeno da quando ho memoria, “Ormai lo spirito del Natale si è perso”.

6. Il momento in cui i mezzi di comunicazione dicono che sarà un Natale dove gli italiani dovranno tirare la cinghia ma “Non rinunceranno a pranzi, cene…” e cazzi vari. Ovviamente, lo spumante vincerà sullo champagne, che noi amiamo il medinitali, la qualità, vaffanculo.

7. Il momento in cui uno ti dice che “Noi quest’anno solo regali utili”. Poi te ne elenca un paio e a quel punto ti viene la curiosità di sapere che cosa si regalassero quando valevano anche gli inutili. Non insisti sull’argomento per paura che il tuo interlocutore continui a parlare.

8. Il momento in cui ti chiedono “E te…sei stato a messa?”.  Ancora con questa storia?

9. Il momento in cui ti dicono “Buon Natale a te e a tutta la famiglia” che a momenti non sai neanche chi sono e se ce l’ho, una famiglia. Per fortuna te la cavi con un “altrettanto”. Breve, coinciso, educato, funzionale.

10. Il momento in cui ci si lamenta tutti, inevitabilmente, di aver mangiato come merde. E il giorno dopo si rimangia come merde. Come se ci obbligassero.

Al contrario

Ieri ho sentito dire “Questo è razzismo al contrario”.

Ho pensato: il razzista presuppone che la propria “razza” sia superiore e quindi dichiara la propria superiorità sulle altre, oltre che attraverso le parole, anche nei fatti. Con l’autorizzazione di soprusi e prevaricazioni.

Quello al contrario, ho pensato, presuppone che la propria “razza” sia inferiore alle altre e quindi dichiara la propria inferiorità sulle altre, oltre che attraverso le parole, anche nei fatti. Con l’autorizzazione di soprusi e prevaricazioni.

Mi è venuto mal di testa. Secondo me il razzismo è alla dritta. E secondo me quando diciamo “razzismo al contrario”, oltre al fatto che ci smascheriamo da soli, ne rivendichiamo anche la paternità con un certo orgoglio. Certe volte siamo proprio delle merde. Anche al contrario.

L’ora di religione – Una domanda ingenua.

Mi è venuto da pensarci per una cosa letta su un blog, quello di Leonardo.

A scuola, durante l’ora di religione cattolica, quasi sempre non si fa religione cattolica. In effetti anche ai tempi in cui andavo a scuola, almeno dalle medie in avanti (prima c’era proprio il prete che ti parlava di tutta l’organizzazione nei secoli dei secoli), non è che si facesse religione.

Veniva uno a parlarti un poco della società, si parlava di temi di attualità. Quel qualcuno era l’insegnante di religione e non è che lo mettesse lì (per dire), il PCI.

Perché durante l’ora di religione non si fa religione?

Chiaramente, quando ero a scuola pensavo che fosse bello che non si facesse religione ma si chiacchierasse del più e del meno. Più che altro perché i vangeli e tutto l’ambaradan religioso sono stati sempre da me considerati una cosa di una noia mortale.

Noiosa QUASI quanto la formula uno, per intenderci.

Perché c’è l’ora di religione, se non si fa religione? Non è un poco come fare storia durante l’ora di ragioneria? Non sarebbe meglio, se della religione non ce ne frega niente, tirarla via e metterci un’ora di un’altra cosa?

Ok, è facoltativa. Ma perché tanti genitori fanno fare l’ora di religione se poi non si fa religione e va bene così? Mistero della fede?

I miei me la facevano fare “così stai insieme agli altri, tanto cosa te ne frega che son tutte cazzate, al limite studiati le altre materie”, più o meno. Ma eravamo all’inizio dell’ora “facoltativa” e quindi le scuole non sapevano mai bene come fare e quelli che non facevano religione li spedivano in un’aula da soli con il bidello, cose così.

Ma se si fa qualcos’altro, non potremmo metterci qualcuno che faccia qualcos’altro senza dover passare per forza dal Vaticano?

Io di programmi ministeriali e quelle robe lì non so nulla. Però ricordo, ad esempio, che la nostra prof di religione scriveva della cose sul registro del tipo “La funzione della cristianità nel (riempite voi lo spazio)” e invece parlavamo di quello che leggevamo sui giornali. Una volta facemmo dei cruciverba, per dire. Cosa scrivono oggi sui registri? Qualcuno lo sa?

(Stasera siamo a IL POSTO a Modena, con K.Butler & The Judas, a parlare di Blood on the tracks di Bob Dylan. Facciamo anche un pezzo da “Infidels”, forse. Giusto per stare a tema con il post)