Porco cane.

Alla domenica mattina vedo un articolo online di Repubblica dove un certo Ettore Livini dice che in Grecia è morto un cane. Questo cane, del quale si è parlato molto, sarebbe (secondo Livini) un cane pericolosissimo per l’establishment greco. L’articolo comincia dicendo che

“La Troika e le pattuglie di poliziotti antisommossa di Atene possono tirare un sospiro di sollievo. Il loro avversario più pericoloso non c’è più”

riferendosi al cane. L’avversario più pericoloso è il cane. Mi immagino che i poliziotti dicano proprio “Che culo, avevo paura che mi mordesse”.

Proseguendo nell’articolo, il Livini attribuisce anche ai “cattivi” la parziale responsabilità della morte del cane, attribuendo le parole al veterinario. Infatti dice che (le maiuscole sono mie)

“Il decesso, secondo il veterinario, è legato ANCHE ai problemi polmonari causati dai gas lacrimogeni inalati in tanti anni passati in prima linea nel cuore della guerriglia urbana sotto il Partenone.”

Livini dice che il cane “Irrompe SULLA SCENA POLITICA nel 2009”.

E’ lì che è iniziata la leggenda di “uno dei tanti randagi (censiti dal Comune e coccolati dalla cittadinanza) che vivono per le strade della capitale ellenica”.

Che la cittadinanza COCCOLA. Ma lascia lì, randagio, ad Atene. Fin quando non diventa famoso, allora dopo se lo piglia. Insomma, ad Atene il randagismo canino è una cosa ordinaria.

Dice anche il Livini (maiuscole sempre mie) che “Nessuno è mai riuscito a capire come facesse a indovinare giorni e ora degli appuntamenti politici più caldi. Fatto sta che ogni volta che una manifestazione anti-Troika ad Atene degenerava in scontri di piazza, lui era lì. OCCHIO ATTENTO, abbaio rauco, pronto a scattare con i manifestanti e scagliarsi per primo contro i cordoni della Mas, l’addestratissima polizia anti-sommossa ateniese. Salvo poi sparire nel nulla appena il fumo dei gas si diradava e in strada tornava la calma. La sua capacità di distinguere tra buoni e cattivi (dal suo punto di vista, ovvio) è mitica. Qualche mese fa è finito in mezzo agli scontri tra poliziotti in borghese impegnati a manganellare i loro colleghi che scioperavano contro i tagli agli stipendi delle forze dell’ordine. HA ESITATO SOLO UN ATTIMO, confuso. Poi si è schierato con le zampe ben piantate per terra di fronte ai contestatori.”

Avete capito? Il cane capisce chi ha ragione. Non serve che pensiate. Lui sa sempre chi sono i buoni e i cattivi. Esita solo un attimo quando la disputa è tra poliziotti in borghese che protestano e poliziotti in divisa. Perché il poliziotto, probabilmente, comunque puzza di sbirro, secondo Ettore Lavini. Che non lo dice, se non implicitamente. Facciamo governare gli animali, dunque. Altro che Orwell. Secondo Repubblica, insomma, quando Caligola nominò senatore il suo cavallo, ci aveva preso. Caligola era matto, Repubblica è di sinistra.

Quando i cronisti si mettono a cercare i buoni e i cattivi è un casino. Quando poi decidono di fare i poeti, dimenticandosi che sono cronisti, il giornalismo ci perde. Tanto. C’è un bellissimo libro di Federica Sgaggio (che oggi compie gli anni, auguri!) che si chiama proprio “IL PAESE DEI BUONI E DEI CATTIVI” e che parla di questo. Ma andiamo oltre.

Dopo aver letto questo mare di (riempite voi lo spazio) al mattino, nel primo pomeriggio io e mia moglie andiamo a Cavriago al mercatino del riuso. Quando stiamo tornando a casa, sulla statale c’è un cane di taglia piccola che corre lungo la strada, attraversandola ripetutamente durante la sua corsa e rendendo la faccenda molto pericolosa. Per lui in primis, ma anche per le macchine i cui autisti fossero costretti, trovandoselo davanti, a manovre pericolose che potrebbero causare un incidente.

La strada infatti è estremamente trafficata.

Decidiamo di rallentare e seguire il cane, andiamo piano piano mettendo le doppie frecce a lato, dietro di noi si forma la fila, dall’altra parte lampeggiamo e notiamo che alcuni vedono il cane solo dopo che hanno fatto a caso al nostro lampeggiare. La cosa dura circa un minuto, poi il cane si infila, piuttosto terrorizzato, in un viottolo. Ci leviamo dalla strada principale e andiamo nel viottolo pure noi. Sulla strada principale riprende il traffico.

Notiamo che il cane cammina male. La zampa posteriore sinistra fatica ad appoggiare a terra. Il cane corre, peraltro, e va spedito. Ogni tanto si gira per guardarci. Decidiamo di provare un poco a seguirlo che tanto la strada laterale è sgombra e anche se sappiamo che lo stiamo spaventando un poco, probabilmente, il gioco vale la candela. Magari è un cane abbandonato per strada, speriamo di no.

Il cane prosegue e dopo circa cento metri arriva nel cortile di una azienda agricola bella grossa di Codemondo. “LA COLLINA”, si chiama. C’è un bel negozione gigante di NATURASI, la catena dei supermarket bio.

Scendiamo, mia moglie chiama il cane che arriva scodinzolando e si fa accarezzare. Dopo essersi fatto accarezzare, il cane trotterella verso i campi. Lo seguiamo e arriviamo in un capannello di gente che chiama il cane per nome. Stanno facendo delle pizze, ridono e scherzano. Il cane è loro. Tiriamo un sospiro di sollievo.

Mia moglie spiega che era sulla statale. Loro non la fanno manco finire di parlare e dicono “Avete vinto una bella pizza con pasta madre”, belli sorridenti.

Mia moglie dice che grazie ma la pizza no, però state attenti perché era finito sulla strada e c’è un bel po’ di traffico.

Una tipa allora, sempre con la risposta al volo che manco mia moglie ha finito di parlare a momenti, dice che “Eh ma qui oggi noi abbiamo avuto più di (mettete un numero a tre cifre) persone” e dice che per questo avevano chiuso il cane in casa e si vede che dopo quando abbiamo aperto ne ha approfittato.

Mia moglie a quel punto si raccomanda di stare bene attenti, che la statale è vicinissima ed è parecchio rischioso. Non fa in tempo a dire “rischioso” quasi che il tizio che fa le pizze, sempre sorridente, allarga le braccia e dice

“Ah beh. Ma sulla strada poi rischiam tutti eh?” come se a lui non gliene fregasse una mazza, tanto ha la pasta madre biologica della natura e quando deve succedere succede, signora mia.

A quel punto io, che sono molto meno diplomatico di mia moglie, spiego al tipo che se io faccio un incidente per colpa di un cane che viene lasciato in giro bello libero a venti metri da una statale e quando mi risveglio trovo uno che mi viene a dire che “Sulla strada poi rischiam tutti”, poi non mi ricordo più esattamente parola per parola quello che ho detto ma penso che il tipo abbia capito.

Pensateci quando andate a fare la spesa. E anche quando leggete Repubblica. Che altrimenti finiamo come in Grecia.

Compressione

Secondo me non è tanto quello che dice il genitore di un figlio che infila il compressore dove non dovrebbe.

Secondo me è quello che gli porge il microfono, al genitore, e gli chiede un’opinione su quella cosa lì proprio al genitore, come se ce ne fregasse qualcosa di cosa pensa il genitore, che il microfono poteva metterselo lui, in quel posto là.

Secondo me.

Sostituzioni

C’è stato un tempo in cui quando c’era un pezzo e c’era una parola inglese che si scrive “Featuring” e all’epoca si pronunciava proprio così, “Featuring”, che era il tempo quando THE non era ancora usato come sostantivo ma THE BEATLES erano I BEATLES, non come adesso che si dice I THE BEATLES, che secondo me è principalmente colpa del fatto che quando tagghi qualcosa su un socialcoso ti viene anche il THE e allora mica lo stai lì a togliere e poi pian piano il linguaggio si è modificato, c’è stato un tempo in cui quel “FEATURING” si diceva proprio “featuring” e non “ficiurin”, che infatti se scrivevano “FEAT” tu dicevi “FEAT”, che era più o meno il tempo in cui c’erano quelli che dicevano “ZE” per dire “THE”, non si diceva quella specie di “V” con la lingua tra i denti per fare gli inglesi, ed era più o meno il tempo di ZEUOL che voleva dire “The Wall”, il disco dei Pink Floyd, il disco intero e non “ZEUOL LA CANZONE” che voleva dire “Another brick in the Wall Pt. 2” che si diceva “PARCIU’ ” che lì fare gli inglesi si poteva, dicevo c’è stato quel tempo lì che FEATURING voleva dire spesso che c’era un assolo di chitarra di uno figo, che magari non era nemmeno questo granché però era di uno figo e allora ci mettevano il FEATURING. Perché oggi quel FEATURING e’ diventato FICIURIN e finisce che vuol dire più o meno sempre “Adesso arriva un tamarro e ci tira su una rappata tamarra dove dice cose del tipo SONO QUI A FARE LA RAPPATA CON IL FICIURIN CON IL TIPO CHE MI HA CHIAMATO CHE E’ UN SUPERFIGO E IO SONO UN SUPERFIGO DI RIFLESSO”.

E a me, anche se non sono sicuramente i primi, mi viene in mente quando in “Crosseyed and painless” nel 1980 i Talking Heads hanno fatto la rappatina “Facts are simple and facts are straight…” e io ho sempre pensato che tutto sommato quel pezzo lì, se invece di metterci il FINTO FICIURIN che tanto poi era sempre David Byrne, ci avessero messo una roba diversa, tipo le percussioni oppure un assolo di chitarra di Belew (come in “The great curve”, forze ancora ZEGREITCHIURV) forse sarebbe stato più figo e magari il mondo oggi sarebbe un posto migliore o quantomeno nei pezzi con il FICIURIN non avremmo sempre ‘sti cazzo di inizi di canzone con un afroamericano (che sono POLITICALLICORRECT) che fa “UH Yeah, c’mon, UH” come se stesse provando quel cazzo di microfono di merda.

Ma i tempi cambiano. E come “Remain in light” mi fece schifo al cazzo per circa 6 giorni quando lo comprai a 8900 lire da “Quartieri” a Sassuolo nel 1986 per poi diventare inspiegabilmente il mio disco preferito di colpo la sera del settimo giorno, magari un giorno anche questa cosa qui la digerirò come si deve.

I\’m still waitin\’…

Il bufalo può scartare di lato e cadere (e il mio nome era Buffalo Tom)

E’ stato un lampo, qualche giorno fa. Arrivare a capire che forse i Buffalo Tom non si erano mai sciolti, avevano solo aspettato un poco dopo le due raccolte che avevano fatto uscire, come ogni tanto un guerriero deve fermarsi a riposare.

Perché il sospetto era lecito. Forse però la fregatura è stata attenderlo così tanto tempo, questo “Three Easy pieces”. Ed è una delusione. Non che non fossi abituato alle delusioni, soprattutto quando si parlava di gruppi che si riuniscono dopo parecchio tempo. La delusione più grande di tutte fu vedere la reunion dei Velvet Underground a Bologna, nel 1993. In prima fila, contro la transenna davanti a Lou Reed. Una folla quasi oceanica, i pezzi suonati con un suono addomesticato, non facevano più male. Certo, Moe era uno spettacolo, in piedi a smazzare su quei tamburi. Però come mai durante il crescendo di “Heroin” c’erano centinaia di persone che saltavano ritmicamente urlando “he, he, he” come se fossimo allo stadio? Quella canzone parlava di un tossico che ha deciso di stare definitivamente dall’altra parte, qualunque conseguenza comporti. Cosa c’era da esultare?

Idealizzare è pericolosissimo. La realtà prima o poi arriva e ti chiede di colmare lo scarto e non sempre la tua vita è pronta per compiere tutta quella distanza in così poco tempo. A volte arrivi impreparato.

Ma i Buffalo Tom dal vivo erano stati grandi. Li avevo visti a Baricella, tra Bologna e Ferrara, in un palestrone chiamato Kryptonight, in mezzo alla nebbia emiliana. Nello stesso posto avevo visto pure i Nirvana, nei giorni in cui, anche se stavano esplodendo proprio in quel periodo, uno poteva pure vantarsi di essere andato lì per vedere gli Urge Overkill, che fecero un set con un’acustica terribile. Noi sì che eravamo snob come si deve, mica come quelli che si vantavano di essere venuti per i Melvins, nel 1994. L’eccitazione non era paragonabile, tanto che la sera dei Nirvana chi era rimasto fuori sfondò una porta di sicurezza e volarono botte da orbi, la capienza arrivò ad essere ben oltre il limite di sicurezza, era tutto molto pericoloso e quindi molto eccitante, come a 19 anni chiede di essere eccitante subito e senza possibilità di appello, una serata fuori.

I Buffalo Tom avrebbero potuto essere ancora più eccitanti. Fino al punto che ancora oggi c’è chi sostiene di ricordarsi il gruppo spalla e di essere andato lì apposta per loro (“Bravi. Com’è che vi chiamate? Black Babies? Ah no…Blake, come William Blake, ok”).

Una sera, nella discoteca dove andavo a ballare di solito in quel periodo (Albert Hall) perché ci metteva i dischi Antenna Uno, dove avevo appena cominciato a trasmettere, dopo aver riempito la pista con “Smells like teen spirit”, il dj (Giuliano Ghini) aveva messo “Velvet Roof” per cercare di lanciare un pezzo nuovo che potesse, con la dovuta insistenza sabato dopo sabato, diventare una hit da ballo. La pista si era vuotata quasi già al primo break con l’armonica, ma quel riff, quel ritmo, quella melodia, mi avevano fatto sentire come se ci fosse la possibilità che i Buffalo Tom riuscissero a diventare una cosa tipo “I nuovi Nirvana” o “I nuovi R.E.M.” o comunque a vendere un sacco di copie.

Invece a Baricella saltò la luce. Una, due, forse tre volte. Il gruppo dopo un poco ne ebbe abbastanza e suonò il minimo sindacale, una cosa simile avrebbe fiaccato anche un bufalo vero, figuriamoci un trio della costa est degli USA.

Eppure quell’ora di concerto fu memorabile. Bill Janovitz aveva una gibson SG color rosso vino e un amplificatore alto come un armadio, dal quale usciva un volume allucinante a tal punto che Janovitz stesso aveva due enormi tappi per le orecchie, di quelli che si vedono a distanza, che ti fanno sembrare la creatura di Frankenstein e che rendevano ancora più antieroiche le smorfie e il sudore che quel viso da nerd con i capelli rossi e le lentiggini era costretto a fare per aver ragione di quella massa di suono. Al centro un sassofonista, un ospite che si portavano in tour per rafforzare il suono dal vivo e che soffiava dentro ad uno strumento che era peraltro sempre completamente sommerso da basso, chitarra e batteria, tanto che ad un certo punto ci si iniziò pure a chiedere se servisse a qualcosa, tra le prime file.

Di quella serata ricordavo soprattutto una canzone, una delle canzoni che in realtà amavo di meno, almeno fino a quel giorno: “Enemy” si chiamava.

C’era un gruppo di amici miei che, non appena il brano cominciò, si mise a urlare sconnessamente e a cantare come una banda di ubriachi. Per un attimo ci si sentiva una tribù indiana e Buffalo Tom era il nostro grande capo a tre teste più sassofono.

Arrivò un nuovo album, qualche tempo dopo. Si chiamava “Big red letter day” e odorava di muffa. Era bello, per carità. Ma sembrava una copia di “Let me come over”, l’album prima. Era quello il perfetto equilibrio tra rumore, melodia, sonorità acustiche ed elettriche, da lasciare senza parole. Lo zenit.

Forse, pensai una notte poco dopo l’uscita del disco mentre indossavo una divisa dell’esercito italiano, con “Let me come over” le carte erano ormai tutte scoperte. Il suono del gruppo era perfetto e oltre non era consentito andare. I confini dei Buffalo Tom erano dunque quei guaiti sofferti di Janowitz, quel basso eternamente sulle frequenze medie mai troppo presente, quella batteria che apriva il charleston quando doveva riempire e lo chiudeva nelle strofe, potente senza mai essere granitica e fantasiosa senza mai suonare se non al servizio della canzone. Quell’equilibrio distorto/acustico che i Grant Lee Buffalo non sono quasi mai riusciti ad avere, e dire che l’animale delle praterie ci aveva riprovato a infilarsi nel nome e nelle sonorità.

Forse i confini di tutta quella meraviglia erano quegli accordi di Sol suonato aggiungendo un dito che sulla corda del SI tocca il terzo capotasto, quel suo cambiare tra Mi minori, Re, Do, La maggiori e minori, cercando il più possibile di non muoversi con mignolo e anulare dal terzo capotasto del MI cantino e del SI ed evitando i barrè come la peste, in modo che il centro tonale del pezzo fosse scandito dagli acuti e da qualche corda vuota sulle medie, non da qualche insulso power chord sulle frequenze basse come accade di solito nella musica rock che decide di essere rumorosa e distorta.

Forse era quello che dava quel gusto epico alle canzoni, pensai. In fondo quel sapore lì, quello che ad un certo punto non basta nemmeno urlare e ti vengono i lucciconi agli occhi e ti sembra proprio di volare, ce lo avevano anche le cose degli U2 migliori, ce lo avevano anche gli Afghan Whigs di “Turn on the water” e di un sacco di altre canzoni. Andai a verificare mentalmente le posizioni di diversi brani sulla chitarra con la mano sinistra e quasi mi scappò il fucile di mano. Nessuno se ne accorse, peraltro, tanto in porta centrale non c’era nessuno. Erano tutti andati a letto e finalmente mi ero potuto guardare la rotazione notturna di Videomusic, all’epoca una cosa molto figa in senso metaforico, senza essere costretto dagli altri a sorbirmi un’ora di pubblicità di telefoni erotici, all’epoca una cosa molto figa in senso letterale. Il tempo di pensare a tutto questo, poi il video di “Sodajerk” era già finito e ne era partito un altro. Forse gli Stone Temple Pilots, forse i Lemonheads, chi se ne frega.

Si,  non era poi brutto “Big Red Letter Day”. E’ che era tutto come ti aspettavi. Era come ritornare a casa in licenza e non saper bene di cosa parlare con nessuno.

Ci volle un nuovo album, un singolo come “Summer” a rialzare un attimo la testa. Ma ormai era andata, l’amore si fa in due e da parte mia non c’era più forse la voglia, in quel momento.

Quindi è inutile che oggi cerchi di rivivere i miei vent’anni solo perché una band di Boston ha fatto un nuovo album dopo cinque o sei anni di silenzio. Certe cose, penso, non te le ridà nessuno. Conviene rimettere “Three Easy Pieces” nello scaffale dei cd e lasciarlo lì. Magari venderlo, tanto il rammarico di aver capito che quei brividi sono rimasti per sempre un ricordo ormai si è già stampato nella memoria, non occorre un simbolo a ribadire il concetto. Forse un giorno me lo ricomprerò in qualche bancarella a 3 euro e scoprirò che la musica poi non era male, vuotata da ogni aspettativa e analizzata più freddamente.

In fondo, se mi guardo indietro, al momento non mi importa nulla. Dopo “Smells like teen spirit” nessuno ha mai messo “Velvet Roof” per cercare di non vuotare la pista. Oggi anche “Smells like teen spirit” è scomparsa dalle scalette, andando a cercare casa in quei locali dove, se dici “Buffalo Tom”, credono che sia il fratello di Buffalo Bill. Quei posti dove non trovi persone che abbiano urlato tutta la propria disperazione cantando “Stymied” a squarciagola in una camera chiusa a chiave e quindi cosa vuoi che ne sappiano loro del fatto che dopo “Stymied” arriva la beatitudine solare di “Porchlight” a sollevarti il morale e poi con “Frozen Lake” giungi alla pace dei sensi e ogni colpo di tamburello che viene dopo che Janovitz dice “IN” (sciaf) “A FROZEN LAKE” (sciaf) “SHE COMES AND TAKE” ti ricorda che per il momento tu non hai bisogno di niente altro al mondo. Cosa ne sanno loro della tua vita? Al massimo, se proprio hanno un poco di orecchio, gli fai sentire “Taillights fade” e ti va già bene che si accorgono a malapena che ha gli stessi accordi di “Don’t Cry” dei Guns ‘n’ Roses, soltanto con anulare e mignolo bloccati sulle corde più acute.

Oggi non ha proprio più importanza, sapere se i Buffalo Tom si siano riuniti ufficialmente, o se avessero solo preso una pausa. Così come quando una storia d’amore è davvero superata quando non ti importa più di cosa cavolo stia facendo il tuo ex, anche qui ormai è tutto finito, ognuno va per la sua strada. Troppo tardi.

 

Come birilli

E così sabato se ne è andato Jason Molina.

Li avevamo chiamati “cantautori depressi” per tanti motivi. Forse perché a differenza dei cantautori degli anni sessanta e settanta, spesso impegnati politicamente e attivi e pieni di energia, questi erano impegnati solo nelle storie personali. Non c’era bisogno di interessarsi delle vite altrui e dei mondi distanti, avevano già abbastanza casino nel loro mondo.

Forse pure perché le atmosfere delle loro canzoni erano quasi sempre da catacomba, zeppe di accordi in minore che magari potevano esplodere in grida e crescendo scuri e apocalittici, mai rassicuranti, sempre con un alone di morte sopra a sovrastarle. Quando capitava che ci fossero dei passaggi armonici un poco più solari, il timbro della voce era quasi sempre rarefatto, come a voler sussurrare che in quel momento, anche se la musica era apparentemente allegra e accomodante, si stava assistendo comunque ad una soluzione temporanea e le catacombe sarebbero tornate presto.

La loro esistenza era fatta di concerti spesso bellamente ignorati dal grande pubblico, in posti piccoli e apparentemente inadeguati, soprattutto nel loro paese. Anche quando capitava di sentirli e vederli dal vivo in Italia, non era raro trovare torme di chiacchieroni che presenziavano al concerto soltanto per quelle piccole mode che in certi ambienti vogliono che un poco di disperazione non manchi mai, nella musica. Intanto però si stava con il bicchiere in mano, a parlare delle nostre piccole sciocchezze, mentre loro si consumavano sul palco.

Si segnalava un Vic Chesnutt in Romagna che, urlante dalla sua sedia a rotelle con una disperazione che lasciava annichiliti, poi intonava una cover di “Everybody Hurts” che suonava tremendamente autentica, canzone sul suicidio priva di ogni possibile leziosità dinamica che magari viene spontaneo trovare nell’originale. A Natale avremmo poi trovato conferma dell’autenticità dell’argomento da parte dell’interprete.

Si segnalava un Mark Linkous che prendeva dall’Italia la passione per le motociclette e un titolo, “It’s a sad and beautiful world”, frase che Benigni disse in “Daunbailò” e che colta come un fiore dalla sensibilità del cantante degli Sparklehorse, si trasformasse in una splendida ballata. Anche qui una sedia a rotelle, a causa di una reazione ad un insieme di farmaci potenzialmente letale ingerito dal nostro per motivi facilmente immaginabili durante un tour di spalla ai Radiohead. Noi che se avessimo suonato di spalla ai Radiohead avremmo probabilmente sorriso ventiquattr’ore su ventiquattro, anche dormendo, facevamo fatica a capire il tormento che viveva quest’uomo e magari ci veniva da sfotterlo pure un poco, come quando a Ferrara reinterpretò con rara sensibilità due brani di Nico nel tributo allestito da John Cale e i commenti furono in più di un caso frasi gentili come “Dio bono, sparati” o cose del genere. Alla fine Linkous si sparò davvero.

Sabato se ne è andato Jason Molina. Dopo averci fatto esplorare la sua eterna notte oscura con Songs:Ohia e Magnolia Electric Co. si erano diffuse voci allarmanti sulla sua salute, mai smentite dallo stesso. Molina e l’alcool erano compagni di viaggio fedelissimi, il primo aveva provato a troncare la relazione con il secondo, a volte sembrava con risultati ma le ricadute erano sempre dietro l’angolo. Si diceva fosse a lavorare in una fattoria, si diceva che la sua famiglia non sapesse dove si trovava, che la musica non lo interessasse praticamente più, ogni tanto si parlava di un ritorno sulle scene e non si sapeva mai se prendere sul serio la cosa. Tutto sommato non ci interessava sapere la risposta esatta, avevamo altra musica alla quale correre dietro. Ora la risposta è arrivata, chiara e definitiva come solo la morte sa essere.

Cadono uno dopo l’altro, i “cantautori depressi”. Noi possiamo pure goderci lo spettacolo della loro desolazione, come cannibali che si cibano del cuore dei loro simili, come palombari delle emozioni altrui, ma alla fine la soluzione sembra essere sempre quella.

Cadono come birilli. E quando succede rimane solo il rimpianto, sembra sempre troppo tardi.

Aisbachetciallengie. (Dai, la roba che ti tiri i secchi d’acqua in testa)

Stamattina ho visto sulla gazzetta di Reggio un articolo che parlava di una istruttrice di fitness che ha fatto l’Ice Bucket Challenge, che per chi vivesse sulla luna è quella roba dove ti tiri un secchio di acqua gelata in testa e poi dai dei soldi per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica.

E’ un poco che va avanti questa storia qui, la secchiata se la sono tirata tutti quanti. Vip, meno vip, persone comuni, persone comuni che volevano sembrare dei vip, eccetera.
Tutti, secondo la voglia e la possibilità, si sono tirati la secchiata, hanno nominato tre persone e poi hanno dato dei soldi alla ricerca.
La cosa ha alimentato polemiche, di varia natura, blah blah blah.

La cosa adesso sta un poco passando di moda, perché avendola già fatta tutti quanti più o meno non è che uno si tira una secchiata di acqua gelata in testa tutte le settimane.

Ecco, stamattina, mentre ho letto che una tipa ieri si era tirata l’acqua in testa per l’Ice Bucket Challenge, io per un attimo, ma proprio per un attimo che non sono riuscito a controllare, ho pensato “E va bé, basta con questa cosa, che palle. E’ una roba vecchia”.

Non mi ha visto nessuno. Probabilmente non sono nemmeno stato l’unico a pensarlo.

Ma l’odore di merda che sento ovunque vado stamattina, mi sa che sono io.

Riflessioni da una mattina passata a fare le pulizie ascoltando i Beatles

Secondo me a quelli che dicono che i Beatles sono il gruppo più sopravvalutato della storia o che dicono che i Beatles fanno schifo o cose così non è che ricorderei soltanto che per essere sopravvalutati bisogna innanzitutto essere “sopra” ed essere valutati piuttosto bene in generale da tutti, che non è mica facile…

E’ che secondo me, poi posso bagliarmi ma credo di no, tra quelli lì e quelli che dicono che gli aerei buttano le scie chimiche, che non siamo mai andati sulla luna, che i bambini vanno allattati al seno fino a quando ne hanno voglia loro e che non vanno vaccinati io non ci vedo, oggi come oggi, tutta questa grande differenza.

 

(Dis)Unità

L’Unità chiude.

“Quando chiude un giornale è comunque una sconfitta” è il ritornello che sentiamo ogni volta che un giornale chiude. Quando si tratta di un giornale storico, il ritornello si ripete più di una volta, come nelle canzoni. Quando il giornale è il simbolo di un’appartenenza, il ritornello diventa anche strofa, ponte, assolo e si sente solo quello.

Stiamo tutti a ricordare quando il giornale diede questa o quella notizia. Stiamo tutti a ricordare che nostro padre, nostro nonno…noi no.

E’ questo il punto. L’Unità, ma ogni giornale, ogni cosa in genere, saluta e se ne va quando non interessa più.

E’ un poco come quando noi suonatori da due soldi non andiamo mai a vedere un concerto in uno dei posti dove ci chiamano a suonare e poi un bel giorno, quando il posto chiude, diciamo “Che peccato”, ma in realtà siamo stati noi a far chiudere quel meraviglioso localino che era talmente meraviglioso che non ci siamo mai sognati di metterci piede.

Le cose non si cambiano piangendo e dicendo “Ooooh”. Si tengono vive, oppure muoiono.

Quand’è stata l’ultima volta che avete comprato e letto l’Unità? E la penultima? Ecco, bene. Ecco il motivo. Chiude per quello.

A me oggi non interessa, se chiude l’Unità.

Idem per qualsiasi altro giornale, non è una questione di appartenenza. Non li compro mai, i quotidiani. Al limite dò una letta alla stampa locale in un bar, al sabato, mentre faccio colazione.

Posso anche dire che mi interessa, posso anche dire “come sarebbe bello se mi fosse interessato per davvero”, ma la realtà è che non me ne frega niente, anche se magari mi viene da dire “Che peccato”.

Che peccato, vero?

Fischia il vento.

Ieri a Mantova c’è stato “ANCORA”, un piccolo festival dedicato ad Enrico Fontanelli, degli Offlaga Disco Pax. Ad un certo punto, durante il finale del set di “Spartiti”, Max Collini ha terminato il set con un pezzo dei Massimo Volume, poi è sceso giù dal palco e si è messo di fianco a noi. Mia moglie si era commossa e stava piangendo come una fontana. Max aveva la lacrimina che aspettava solo di scendere e quando ha visto Cristina piangere ha sorriso ed è andato ad abbracciarla. Intanto il finale sul palco era affidato al solo Jukka Reverberi, che con la sua Fender Telecaster cavava fuori suoni distorti e pieni di echi, in un crescendo emotivamente parecchio forte, pieno di trasporto. Si percepiva che pure lui era emotivamente scosso dalla cosa ed è partito con una scala ascendente su una singola corda fino ad arrivare alla fine del manico della chitarra, fin quando non ci sono state più note da suonare perché il manico della chitarra era finito. Allora ha indugiato sull’ultima posizione possibile andando a grattugiare le corde con la mano destra con tutta la forza possibile e poi ha accennato, per tentare di salire ancora, un bending, poi è ritornato su quell’ultima posizione perché comunque le sue dita e la sua chitarra non potevano andare a gridare più in là. A quel punto eravamo idealmente tutti con Jukka, rapiti dalla sua telecaster e complici di quello strano insieme di passione, impotenza, rabbia e amore che a volte riescono a stare in una corda di chitarra. Come si faceva ad arrivare più in là?

In quel momento lì, preciso, si è alzata improvvisamente una folata di vento. E secondo me abbiamo pensato tutti la stessa cosa.

Hai un bel da dire che…

Ieri a Rubiera c’è stato il lutto cittadino perché è successo che un’automobilista ha investito un bambino e sua madre. Il bambino è morto. La mamma non sta niente bene. In quel punto lì ogni tanto capita. Non sto a dire il perché, secondo me adesso faranno qualcosa.

Ieri in negozio da mia moglie c’erano alcune signore che si sono un poco scandalizzate che mia moglie non abbassasse la serranda per la durata del funerale del bambino in segno di lutto. Ieri alcune signore si sono scandalizzate addirittura perché mia moglie teneva aperto invece che chiudere in segno di lutto.

Dopo che hanno finito di scandalizzarsi si sono fatte fare i capelli belli in ordine, perché dicevano che al funerale c’era la RAI.

Quanto a me, ieri passavo per quel punto lì, ci passo tutti i giorni 4 volte al giorno.

Proprio su una delle sagome tracciate dalla polizia, un tipo ha messo la freccia per andare a prendere l’acqua al distributore dell’acqua pubblica. Da dietro gli hanno clacsonato e lo hanno offeso in malo modo con il braccio fuori dal finestrino.

Il tipo ha risposto in modo ancora più schifoso. Il tipo che ha clacsonato, tre metri dopo, ha inchiodato per non investire una signora sulle strisce.

Ieri sera sul pedonale che va da casa al negozio di mia moglie c’erano cinque persone che aspettavano di attraversare ma nessun autista le faceva passare.

Ogni giorno mentre torno a casa, e io lavoro a neanche un km da casa, vedo almeno cinque persone che hanno il telefono in mano e scancherano con il telefono mentre guidano.

Io ieri la cosa della clacsonata che vi ho raccontato qui sopra l’ho raccontata subito ad un mio collega, con il quale ero al telefono mentre stavo guidando.

Stasera suono a Fabbrico, alla Trattoria dell’Acero. Dice che chi ci va in bicicletta gli danno il dolce gratis.