Musica strana, parole strane.

Ogni tanto passo la fase “Adesso ascolto soltanto musica classica”. La prima volta mi è successo dopo aver letto “Il resto è rumore” di Alex Ross. I libri di Alex Ross sono una cosa incredibile. Una roba che li leggi e ti viene voglia di ascoltare un sacco di cose. Alcune di queste cose poi le ascolti e ti vien voglia di tornare soltanto a leggerne. Ma non è questo il punto.

Mi sono avvicinato, da profanissimo e senza una istruzione musicale formale degna di tal nome, a parecchia della musica classica del ventesimo secolo. Ci sono cose davvero notevoli, cose che non capisco, cose che non capisco perché dovrei capirle, cose che capisco che non voglio capire. Da lì ho cominciato la lettura anche di altra bibliografia a riguardo. Alcune cose anche legate all’educazione musicale in senso formale.

Di recente, sapendo di questa mia flippa, il grande Luca Zirondoli (Socio del Dottor Manicardi nel blog BARABBA che vi consiglio di frequentare) mi ha regalato un libro che ha trovato a poco in un mercatino. Un libro di tale Armando Gentilucci chiamato “GUIDA ALL’ASCOLTO DELLA MUSICA CONTEMPORANEA”. E’ un libro del 1969, con successive ristampe e integrazioni. Questa copia, che mi è stata consegnata dopo il concerto al Kalinka venerdì scorso, è del 1983. Quindi Cage, Nono, Stockhausen… sono ancora tutti vivi. Il libro è un utile compendio visto che ci sono 105 schede di altrettanti compositori, comprendendo anche quelli poi considerati minori. Ad esempio, che ne sapevo io che esisteva MARIO ZAFRED (Triestino, è l’ultimo in ordine alfabetico. Non ho ancora sentito nulla, poi un giorno vi dico)?

Poi è successa una cosa che mi ha fatto ridere. Apro il libro a caso e mi capita la scheda di Mauricio Kagel, un argentino che ha fatto delle robe piuttosto fuori di testa.

Cito testualmente:

“Assistiamo in Mauricio Kagel al graduale dissolvimento della musica intesa come fatto esclusivamente inerente alla categoria del “sonoro” e invece al progressivo sopravvenire della “gestualità”. Contrariamente a Cage, però, egli proviene dall’esperienza del materismo informale e dalla ricognizione della fonicità inesplorata, e questo lo porta a tentare di risolvere l’antinomia tra sovrabbondanza bruitistica e riduzione al silenzio; così Kagel aspira a comporre un organismo che secerna il gesto e lo integri rappresentativamente organizzando una rete di rapporti ben precisi, tale da non negarsi, almeno nei pezzi migliori, alla compiutezza dell’organismo sonoro e teatrale (o para-teatrale). La poetica, conclude, nell’esito musicale, alla radicalizzazione degli opposti atteggiamenti: dalla coagulazione materica violentissima, dall’immagine squassata e frutto di un gesto omicida, ai borborigmi inarticolati, allo squallore degli oggetti sonori squisitamente inerti e proiettati in un universo astratto, senza contesto plausibile.”

Giro e leggo la quarta di copertina del libro:

“Questo volume, scritto in uno stile discorsivo, con un linguaggio volutamente accessibile anche ai non addetti ai lavori…”.

Si, certo. Come no… Ma vaffanculo, va.

(Ottima lettura da cesso, comunque. Grazie Ziro. Davvero.)

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Quando la giornata indica la memoria, lo stolto guarda il calendario.

Nel 2006 sono andato a trovare il mio avvocato a Schwabhausen. No, che avete capito? Non ho un avvocato tedesco. Il mio avvocato è anche il mio migliore amico, si chiama Lara Mammi, è stato il mio testimone di nozze, adesso ci vediamo poco che è anche diventata mamma ma bastano trenta secondi e siamo sempre in sintonia. E’ la ragazza che vedete sulla copertina de “I sonnambuli” e nel libretto interno. Per gli uomini che stanno leggendo, si lo so. Gran gnocca. Ma non volevo dire questo.

Andai a trovarla a Schwabhausen, che è un paesino fuori Monaco dove lei era in vacanza insieme al suo ragazzo. Passammo tutti una serata in una birreria incantevole dove bevemmo come se non ci fosse un domani, facemmo amicizia con una tavolata di tedeschi (Ricordo distintamente solo uno che si chiamava FRITZ e che era stato al Lingotto a Torino e a Venezia. Poi c’era un altro tipo che beveva dei MASS (I bicchieroni da un litro di birra, avete presente?) di COCA E RUM. Ne avrà fatti fuori almeno cinque. Non scherzo. Era imperturbabile. La cosa mi sconvolse. Andammo a letto la mattina presto e ci svegliammo con il mal di testa, per dirla con Vasco Rossi.
La mattina seguente andammo al campo di concentramento di Dachau, che era nelle vicinanze. Non ci ero mai andato in un campo di concentramento. E dire che Fossoli è vicinissimo a casa mia. Girammo per il campo, vedemmo le camere dove dormivano i prigionieri, le dimensioni del campo davvero imponenti. Poi andammo a fare un giro dentro dove c’era una specie di museo con vari reperti d’epoca. Si andava dalla piccola utensileria ai giornali del tempo. In seguito, come gran finale, una bella scritta “KREMATORIEN” ti fa capire che ti stai avvicinando ai forni. Dopo il giro dei forni ce ne andammo.

Oggi quando sento che hanno istituito la giornata della memoria, dentro di me sento due cose. La prima è che sono contento che ci sia una “giornata della memoria” e la seconda è che “mi fa proprio incazzare che ci sia la giornata della memoria”.

Sembra una cosa da pazzi? In realtà, pensandoci bene, la cosa si può tranquillamente ricondurre a due cose che vidi quel giorno a Dachau.

La prima, quella che mi fa essere contento che ci sia una giornata della memoria, è che i ragazzi giovani si possano rendere conto di quel che era tramite la visione diretta di un campo di concentramento. Per quelli della mia generazione è stato un bel casino il fatto che gli insegnanti non ti spiegassero MAI il novecento in storia. In questo modo ci sono orde di quarantenni che oggi credono che Auschwitz sia stata liberata dagli AMERICANI, perché in tutti i film quelli che vanno a liberare qualcosa o qualcuno sono gli AMERICANI. Anche lo sbarco in Normandia lo hanno fatto naturalmente soltanto gli AMERICANI (i Canadesi, per dirne una, mica li vorrai contare?) e anche l’Italia l’hanno liberata tutta GLI AMERICANI. Che poi uno va a Pistoia e scopre che c’è un cimitero brasiliano e che l’hanno liberata i brasiliani e ci rimane malissimo.

Insomma, ristabilire le cose come stanno non fa mai male. Inoltre permette ai ragazzi di verificare il punto di rottura. Perché nei campi di concentramento hai sempre un punto di rottura. Il mio personale fu, lì a Dachau, quando vidi i forni crematori. Erano forni da pizza. Roba che ne dovevano incenerire al massimo 4-5 alla volta. Onestamente pensavo ad una cosa un poco più industrializzata. La dimensione “artigianale” del lavoro mi sconvolse. Di colpo mi sembrava di vederle lì, le scene. E’ una cosa difficile da spiegare, anzi impossibile. Il dottor Manicardi ad esempio, che lui è stato proprio ad Auschwitz, mi raccontò che il suo punto di rottura fu una stanza PIENA DI CAPELLI. Dalla porta alle 4 mura, dal pavimento al soffitto, solo CAPELLI. Guardate il vostro soggiorno e immaginatelo pieno di CAPELLI. Insomma, son cose che son convinto che lascino il segno.

Poi c’è la cosa che mi fa incazzare. Che corrisponde a quel che vidi a Dachau quando andammo a vedere i giornali dell’epoca. Ora, io parlo tedesco, non benissimo ma se vado in Germania so cosa mangio e un lavoro lo trovo, per darvi un’idea. Quindi un giornale lo leggo. I titoli dei giornali mi sconvolsero per il fatto che NON MI SEMBRAVANO NIENTE DI SCONVOLGENTE. Avete presente quei bei titoloni che fanno giornali tipo “La Padania” o “Libero” o anche “Il fatto quotidiano” delle volte, oppure “Il resto del Carlino”. Ad esempio, quest’anno in un giornale locale di Reggio si titolava “I CINESI CI RUBANO ANCHE IL PRIMO NATO DEL 2013” (Si noti il raffinato uso della parola “anche”).

Ecco, quello mi faceva incazzare. Il fatto che noi fossimo già pronti a ricascarci di nuovo. E allora mi incazzo come una iena (ma poi mi passa, sia chiaro) quando vedo tutto questo frinire di cicale in memoria delle vittime dell’olocausto. Perché poi sono le stesse persone che “io la roba dai cinesi non la compro”, gli stessi che “Oh, i neri puzzano. Non lo dico per essere razzista, è che hanno un odore diverso” oppure, ancora più subdolo, quelli che “Ti serve una badante per tua madre? Guarda, io ne conosco una che prestava servizio a mia nonna e che adesso è senza lavoro. E’ UCRAINA, PERO’ E’ UNA BRAVISSIMA PERSONA!”. Il tutto in un paese dove siamo ancora nel G8, dove c’è una crisi economica ma l’occupazione ancora tiene, eccetera eccetera eccetera.

I tedeschi hanno combinato il casino che hanno combinato anche perché erano usciti malissimo dalla prima guerra mondiale, dove li avevamo costretti a pagare un dazio che sapevamo benissimo dal momento in cui ci siamo seduti in quel cazzo di tavolo a Versailles (perchè la storia non comincia mica nel 1939, sia chiaro) che non sarebbero stati in grado di pagare. Infatti avevano una crisi economica talmente forte che lo stato era abbondantemente a ramengo e il tesoro emetteva banconote da VENTI MILIARDI DI MARCHI, che il giorno dopo andavano bene per pulirsi il culo. (Che guarda caso è quello che è accaduto pure in Jugoslavia prima che cominciassero a guardare se il colore del sangue tra le varie etnie fosse lo stesso, ma senza voler far la fila per il prelievo all’ASL e quindi si sono scannati che si faceva prima).

Per evitare di essere un domani i nazisti di noi stessi, credo che non serva dire MAI PIU’. Credo che serva ragionare un attimo tra passato e presente. Non basterà guardarvi “Schindler’s List”, che peraltro è un signor film.

La giornata mondiale del (Riempite voi lo spazio) è stata creata per ricordare. Se ne abusiamo, può diventare un ottimo alibi per dimenticare. Insomma, quando la giornata indica la memoria, lo stolto guarda il calendario.

Il voto è segreto

Mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) una volta quando ero piccolino mi porto con sè a votare. Non capivo cosa dovesse votare, lei mi spiego che erano le elezioni, che si andava a votare chi governava il paese, che c’erano i partiti e che ogni tanto c’era un giorno che dovevi andare a votare. Quindi prendemmo la macchina e andammo. Io non potevo votare, mi spiegò. Non avevo ancora 18 anni. Quando avrei avuto 18 anni avrei potuto votare anche io. Arrivati al seggio elettorale aspettammo in fila, poi ad un certo punto mia madre (proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) mi disse che dovevo aspettarla lì (immaginatevi una panchina con un carabiniere) che quando si votava si votava da soli, non si poteva entrare in due. Lei entrò e due minuti dopo ce ne andammo. Io, mentre aspettavo, avevo dato una guardata a tutti i simboli dei partiti con le liste appese ai muri e così quando mia madre (si, proprio quella che si metteva alla finestra a urlare) uscì le chiesi subito, ad alta voce come fanno i bambini “Mamma, chi hai votato?”. Il modo in cui rispose me lo ricorderò sempre. Mi disse “Shhhh. Il voto è segreto.”

Nel corso degli anni, a parte brevi periodi di infervoramento che penso siano fisiologici (alle elezioni del 1994 quando vidi il coso “scendere in campo” persi la testa, lo ammetto. Niente ti rende forte un’idea come un nemico. Ci ho fatto pure una canzone sopra, per fare ammenda) uno dei più grandi complimenti che mi son sentito fare è stato “Ma te per chi voti? Perché non l’ho mica capito”, cosa che mi viene ripetuta sempre più spesso in periodo elettorale e della quale mi vanto pure un poco, perché la vanità è un difetto che chi monta su un palco ha in un qualche cromosoma, probabilmente. A questa domanda io in genere rispondo come mi rispose mia madre. “Il voto è segreto” cari miei.

Ecco, invito tutti quelli che cominciano a stra-fracassarmi il cazzo (scusa mamma, lo sai che dico le parolacce) con le tribune elettorali da bar, oggi estese anche sui socialcosi in discussioni e liti più sterili di una garza in un ospedale, di piantarla e di tenere la bocca chiusa. Il voto è segreto e se non siete capaci di mantenere un segreto, allora di voi non ci si può fidare granché.

Qui le domande le faccio io: Intervista alla rovescia ad ENRICO TALLARINI (Osservatori Esterni)

Enrico Tallarini l’ho conosciuto all’estero. Ero a San Marino. Lui e Anita Magnani realizzarono un video reportage di un mio concerto al “Localino del Giulietti” che potete vedervi su OSSERVATORI ESTERNI, la webzine dove Enrico scrive. Poi l’ho incontrato altre volte. Mi è venuto a vedere suonare 3 o 4 volte, non ricordo esattamente. Una volta ha scritto che sono “alto e magro”. E’ la più bella cosa che abbiano mai scritto di me. Nel senso che quando nella vita sei stato un obeso, come sono stato io, vedere scrivere che sei alto e magro è una bella soddisfazione. Vado a mangiarmi una pasta alla crema, così metto su chili.

La recensione dell’album è qui: http://www.osservatoriesterni.it/novita/giancarlo-frigieri-togliamoci-il-pensiero

Eccovi l’intervista. Io domando, Enrico risponde

1. Hai parlato di “pugno nello stomaco” per definire il brano conclusivo dell’album (Criceti). Spiegami meglio.
Non “pugno”, ma “cazzotto nello stomaco”, che fa ancora più male.
“Perché per domare un uomo non c’è metodo migliore che farlo lavorare ogni giorno sulle nove o dieci ore.” Non è per pigrizia, ma c’è davvero poco da spiegare. Facciamola ascoltare a un operaio che ha passato gli ultimi quarant’anni della sua vita a fare qualcosa che non gli piace fare e vedrai che cazzotto che gli arriva. Spesso si passa il tempo a scivolare, perché le domande fanno male e spesso come risposta danno: “hai sbagliato tutto”. Ecco, “Criceti” più che la risposta è la domanda. Ma è la risposta che è la stessa.

2. Quand’è stata l’ultima volta che ti sei davvero vergognato in vita tua? Ti va di raccontarcelo? Ma non una vergogna di cinque minuti. Intendo una roba che a pensarci ti brucia ancora adesso.
Guarda, potrà sembrare strano ma è da diverso tempo che ho smesso di vergognarmi, di qualunque cosa. Cerco di esorcizzare ogni aspetto che mi riguarda, compresi handicap, problemi e debolezze, senza tabù o filtri di sorta. È una delle cose di cui vado più fiero. E poi basta guardarsi in faccia per capire che non c’è niente di cui vergognarsi, che facciamo tutti schifo allo stesso modo.

3. Parlando dopo un concerto, mi avevi detto che ti eri un poco disilluso sulla scena musicale indipendente (o come dico io, la “messinscena indipendente”). Mi dici, pane al pane e vino al vino, le tre o quattro cose più patetiche e ridicole che hai incontrato lungo il cammino dello scrivere di musica?
La più patetica, una telefonata di prima mattina per chiedermi di ammorbidire una recensione non proprio entusiastica di una band spalla a un concerto di un cantautore inglese piuttosto famoso, che era di una bruttezza tale che quasi andrebbe preservata. Hanno anche minacciato di dare fuoco alla mia macchina (la band un’altra ma il motivo lo stesso). Per il resto niente, cerco di restare fuori il più possibile dalla scena (?), anche perché da buon claustrofobico evito i circuiti chiusi . Senza una ragione precisa. Solo che odio le scene e resto indifferente alle mode. Preferisco ascoltare Paolo Conte, tanto per dirne uno, più indipendente di tutta la scena indipendente messa assieme.

4. Quanti sono gli “Osservatori esterni”?
Siamo sei, più vari collaboratori e “osservatori” occasionali. Siamo pochi ma siamo ovunque, come le malattie veneree.

5. Perché si scrive di musica? Mi dici un giornalista italiano musicale che ti ha influenzato quando hai cominciato?
Il perché non te lo so proprio dire. Forse “perché non avevo niente da fare”, tanto per citare Tenco, che le citazioni fanno sempre il loro effetto. E comunque è nato tutto per caso. Non faccio altro che ascoltare dischi e andare a concerti da quando ho quindici anni. Lo facevo prima, e lo faccio adesso, con lo stesso piacere.
Detto questo, l’unico giornalista musicale che mi viene alla mente, anche se non credo abbia avuto poi tutta ‘sta influenza, era Zombie Kid, alter ego di nonsochi che aveva una rubrichetta stronca-demo sul Rumore di una decina di anni fa.
Puniva e massacrava i demo di giovani band e mi faceva ridere. L’unico vero stroncatore di classe che abbia conosciuto, non a caso sotto falso nome.

6. Mi trovi un difetto nel mio disco? Argomentando, chiaro.
Adesso che scrivo mi trovo in Emilia. Il tuo disco è a più di trecento chilometri da qui. Ma se non ne ho trovati al tempo della recensione, non vedo perché dovrei trovarne ora.

7. Mi trovi il pregio del mio disco che non trovi in nessun altro disco? Sempre che ci sia, chiaro.
Vedi sopra.

8. Lo sai, vero, che nella recensione hai scritto “WALZER” per dire “Valzer”? E mi spieghi in che pezzo suono un valzer? (Se dici “Il nemico”, sappi che è una beguine, stavolta ti ho incastrato).
Potrei entrare subito in amministrazione e cancellare per sempre ogni traccia di questo refuso. Anzi, l’ho fatto.

9. Sull’onda della domanda precedente. Ma non pensi che per scrivere di musica un pochino di musica a livello teorico, anche solo una piccola infarinatura sia necessaria? Altrimenti a cosa si guarda? Quali sono gli elementi che ti fanno dire “Questo si, questo no”?
Allora, anche no, dipende da come la si vede e la si propone. Osservatori Esterni nasce con l’intento di staccarsi da una visione tecnicistica e assolutistica del trattare la musica, il cinema e compagnia artistica.
Siamo prima di tutto appassionati, e di conseguenza preparati. E questo sono io, uno che si guarda tre concerti a settimana e si ascolta una marea di dischi. La tecnica è fondamentale per farla, la musica. Per ascoltarla e consigliarla bastano un paio di orecchie, passione ed esperienza, soprattutto per la musica che sono solito trattare.
I tecnicismi mi hanno sempre dato il voltastomaco. Se una cosa mi piace, è sì. Altrimenti no. Non sono un critico, piuttosto un dispensatore di consigli. E la musica a livello teorico la conosco anche. Porto avanti la tradizione dell’artista mancato e frustrato e passato all’altra sponda.

10. Durante una conversazione preparatoria a questa intervista mi hai beccato le somiglianze evidenti tra “Grappoli” e “Gambadilegno a Parigi” di De Gregori e ti riconosco un grande orecchio. Fra l’altro della cosa mi accorsi anche io (Dopo averla scritta, “Grappoli”) e decisi di fregarmene, come già ti avevo raccontato. Mi ripeti il giochino con altre 3 canzoni che hai sentito quest’anno da artisti indipendenti italiani?
Occhio, che De Gregori ha già sguinzagliato i legali. A parte gli scherzi, su due piedi non mi vengono in mente altri casi sospetti.

11. Carta di identità. Nome, cognome, data e luogo di nascita, titolo di studio.
Enrico Tallarini
15/04/1983 Urbino (PU)
Laurea Magistrale in Editoria, Media e Giornalismo

12. I tre migliori locali per la musica dal vivo in Italia dove sei stato, tra quelli che non hanno bisogno di un biglietto di ingresso. Sul migliore in assoluto metti anche il motivo.
3. Il “Dalla Cira” di Pesaro,
2. Il “Neon” di Rimini
1. L’”Hana Bi” di Marina di Ravenna, versione estiva del Bronson, in assoluto il posto più incredibile dove ascoltare musica dal vivo e gratis. Sulla sabbia a due passi dal mare, in un palco alto si è no 15 centimetri, ci ho visto suonare Steve Wynn e Robyn Hitchcock, Bonnie Prince Billy, Wovenhand, dEUS, Iron & Wine, Liars, Anna Calvi, Akron Family, Badly Drawn Boy, Destroyer, Massimo Volume, Local Natives e chissà quanti ne sto saltando e chissà quanti ne ho persi, tutti gratis a venti centimetri dal palco e con una birra in mano. Se non è un paradiso, poco ci manca.

13. Secondo te quali sono i miei progetti per il futuro, musicalmente? Insomma, farò una virata acustica intimista oppure un album grind-core?
Continuerai a fare quello che stai già facendo, ovvero scrivere belle canzoni fregandotene di chi le andrà poi ad ascoltare. E non è poco.

14. Un disco di cui non parla nessuno e che invece è bellissimo.
“The Soul of Spain”, degli Spain. Non sono italiani e non ci azzeccano niente, ma non ne parla nessuno ed è un album fantastico.

15. Un disco di cui parlano tutti e che invece è una cagata pazzesca. (Motivando, si capisce)
Le cagate pazzesche le lascio ascoltare ad altri. Non ci perdo neanche tempo.
PS: ma chi sono sti “tutti”?

16. Il disco dell’anno del 2013 potrebbe essere quello di?
Nick Cave & The Bad Seeds. Lo sarà di sicuro.

17. Fammi una domanda tu.
La prima volta che ci siamo incontrati ti avevo consigliato di ascoltare più a fondo i dischi di Francesco Guccini, che è molto di più di un cantautore “impegnato” e “La Locomotiva” ecc ecc. L’hai fatto? Se sì, ne è valsa la pena?

(Sì. L’ho fatto. Sì. Ne è valsa la pena, porco cane)

INTUDEUAILD – Ricordi.

(Dico il finale del film “Into the wild”, quindi se non l’avete visto e ci tenete smettete di leggere.)

C’è una scena di “INTO THE WILD”, il film di Sean Penn sul tipo che va a vivere in mezzo ai boschi, dove il tipo che va a vivere in mezzo ai boschi e che è un tipo figlio di genitori benestanti, che vogliono che il tipo che va a vivere in mezzo ai boschi faccia l’università e poi si trovi un lavoro come si deve invece di andare a vivere in mezzo ai boschi, dicevo c’è una scena dove il tipo abbandona tutto e si dedica al vagabondaggio per prepararsi meglio ad andare in mezzo ai boschi. C’è una scena dove lui brucia dei soldi. Prende delle banconote e le brucia. E poi inizia a girare a caso, scroccando da dormire e da mangiare, che tanto tutti gli vogliono bene. Trova un paio di fricchettoni che lo ospitano e gli vogliono bene, trova una strafiga che casualmente gliela molla lì, anche perché nel film lui è uno strafigo pure lui.

Non è che il tipo va dai fricchettoni con quella mazzetta di banconote e gliele allunga dicendo “Tutti amici”. No. Le brucia. Così. Un simbolismo da Mallarmé alla quarta pinta di Guinness.

Poi il tipo, che per tutto il tempo è stato nella “società civile” a farsi i cazzi suoi che tanto il mondo andava avanti e lui si poteva attaccare alla mammella di qualcuno quando gli pareva (anche a quella della strafiga), ad un certo punto va finalmente nei boschi. A contatto con la natura aperta, lui e la natura da soli. Into the wild.

Il tipo dura due ore, in mezzo alla natura. Ammazza un animalazzo gigante ma non sa come conservarlo e quindi spreca tutto quel ben di Dio. Poi mangia delle bacche che non sa essere velenose e schiatta. Perché con la natura non si scherza, la natura lo sa benissimo quando la tua è una velleità e comunque anche se non lo sa non è che gliene frega niente. La natura non è madre, è matrigna. Ed è anche un poco zoccola.

Usciti dal cinema, ricordo alcune frasi sentite a mezz’orecchia su “La bellezza della natura” sugli “spazi sconfinati”, su “Ma però deve essere bello vivere così”, con quello sguardo trasognato di chi tanto poi torna a casa sua, in città. Dove accende il computer, la tv, la lavastoviglie, la lavatrice, il forno a microonde. Che son cose fighissime, sia chiaro. Infatti una volta arrivati a casa rimane giusto la colonna sonora di Eddie Vedder.

Il tipo che voleva andare nei boschi invece, alla fine si vede la foto vera del tipo che è andato a morire nei boschi.

Bel coglione.

 

 

 

L’isola dei famosi (The recruiting sergeant)

Tra poco ci saranno le elezioni. Nascono partiti come funghi. Ora si chiamano “Movimenti” perché la parola “Partito” fa schifo e puzza, ma in realtà sono “Partiti”. Nel senso che hanno cominciato. E la cosa, se ci pensate, è poco rassicurante. Ve lo dicono in faccia, che sono partiti? No, preferisco tenervi sulle spine. Sono “Movimenti”. Si stanno muovendo, se partiranno ve lo diranno poi. Intanto si muovono. E’ come quando avete qualcosa nello stomaco che vi arreca fastidio e non sapete se mangiando qualcosa vi passi o vi aumenti. Tu chiamali, se vuoi, “Movimenti”.

In periodi di cambio generazionale della politica i movimenti si moltiplicano. Ognuno pensa che forse è la volta buona e che quando grande è la confusione, si può pure tentare. Qualcuno ci potrebbe cascare. Ma non è di questo che voglio parlare.

Voglio parlare del reclutamento. Lorsignori parlano della “scelta” degli uomini e donne più capaci per “guidare il paese fuori dalla crisi”. A dirla tutta, più passa il tempo e più mi convinco che la “crisi” sia una condizione permanente, come la guerra in “1984” di Orwell. Serve da giustificazione per ogni porcata che tolga spazio allo stato sociale. Ma non è di questo che voglio parlare.

Dico “reclutamento” perché la scelta presuppone che si prendano le menti migliori. Invece il “reclutamento” indica bene come si vada a pescare nel mucchio quelle che sono vere e proprie calamite da voto, specchietti per le allodole. Il metodo è più o meno quello de “L’isola dei famosi”.

Un metodo del genere portò Berlusconi a mettersi dietro soubrettes, attricette e cose simili. Ci siamo trovati Ferrara ministro (“La cosa più bella di Ferrara è la Spal. E gioca in serie C” disse mio fratello all’epoca), ci siamo trovati la Carfagna ministro (“La cosa più bella della Carfagna non la posso vedere se non in fascia protetta” disse un mio collega) e la Carlucci parlamentare (“La cosa più bella della Carlucci è quando non c’è” disse non so chi, riferendosi probabilmente a Milly).

Insomma, la destra reclutava persone in grado di dare un’immagine familiare e rassicurante di allegria e spensieratezza. Il tutto con calciatori e sportivi (Alberto Cova, il campione che si faceva cambiare il sangue da Conconi e quando ha smesso di farlo non entrava più neanche in una finale. Pietro Mennea, la “freccia di Barletta”, Iva Zanicchi, Ombretta Colli e cose così).

Anche a  sinistra  si attua, a volte lo stesso metodo. Gigliola Cinquetti (che adesso l’età ce l’ha), il calciatore Massimo Mauro, cose così. Ma a sinistra prevale un altro metodo ancora più subdolo, un metodo che definirei “parafulmine”. Visto che a sinistra si è per definizione diversi e si è più intelligenti e più profondi di pensiero, visto che si è più solidali eccetera eccetera eccetara… Ecco, a sinistra si prediligono le disgrazie. Perchè siamo di sinistra e noi siamo “cuori agitati nel vento” come cantava Leonard Cohen (o Ramazzotti? Va bene, non stiamo a sottilizzare, non è questo il punto).

A sinistra si prende il protagonista di una disgrazia e lo si candida. Se non puoi farlo con lui direttamente, allora si prende uno dei suoi parenti. L’essere parente di un morto celebre automaticamente ti fa diventare un genio, uno che risolve tutti i tuoi problemi, uno capace di decidere su scuola, sanità, amministrazione, tutto. E guai a dire qualcosa, perché mica vorremmo togliere il diritto ad un disgraziato di essere eletto “come qualsiasi italiano”. Mica hanno meno diritti degli altri? Certo che no. Però il discorso mi ricorda molto quello dei figli dei registi e degli attori che guarda caso fanno i registi e gli attori anch’essi e poi ci chiediamo perché quando gli stranieri parlano del nostro cinema dicono “Rosi, Fellini, De Sica” (Non intendono Cristian De Sica, almeno credo). Inoltre, cari “Sergenti reclutatori”, mi chiedo come mai queste menti illuminate non siano apparse in tutto il loro splendore prima della disgrazia di turno. Come mai ve ne siete accorti soltanto dopo, voi che avete in mano il termometro del paese (e per provarci la febbre siete soliti infilarcelo là, come si fa con i cani)?

Per fare qualche esempio. Come mai Rita Borsellino è stata candidata soltanto nel 2005, quando suo fratello è stato disintegrato nel 1992?  Nel 92 lei aveva 47 anni. Era forse troppo giovane?

Certamente Sabina Rossa era troppo giovane nel 1979 quando le Brigate Rosse uccisero suo padre (aveva solo 17 anni) e si è dovuto aspettare il 2006 per candidarla. Ma come mai è finita alla sesta commissione permanente Finanze e Tesoro, lei che è laureata in Scienze Motorie e diplomata all’Isef? Dovevano fare sedute di stretching mattutine prima di cominciare? Il sospetto di una candidatura di facciata, francamente, affiora.

Giuliana Sgrena è stata candidata nel 2009 per “Sinistra e Libertà”. Venne rapita nel 2005, nelle circostanze ancora oscure delle quali tutti abbiamo sentito parlare. Scriveva per “Il manifesto” dal 1998 e anche per “Die Zeit”, pregevolissimo giornale tedesco. Insomma, una mente fine. Come mai ci se ne è accorti solo nel 2009, cari i miei segretari di partito? Viene francamente il sospetto che il suo merito, “partitocraticamente parlando”, sia stato quello di farsi rapire.

Parole grosse che però sembrerebbero confermate dal tentativo recentissimo del PD di candidare Rossella Urru. Circostanze analoghe a quelle della Sgrena (Un rapimento) e PUFF… ecco la candidatura pronta. Parola di Franco Marras, responsabile del PD in Sardegna che già due mesi fa (Secondo il “Sardinia Post”) aveva incontrato a Samugheo la Urru dicendole che era pronta per lei una poltrona. La Urru però ha detto no. Ma passano due mesi e il PD ci riprova, con pressioni da parte del segretario nazionale. La Urru risponde ancora picche, dicendo che per lei “Non è il momento opportuno”. Perché quando sarà il momento opportuno state tranquilli, una poltrona arriverà. Naturalmente prima del rapimento la Urru non era nei piani del PD né di nessuno. Non era un “nome”. Non era “spendibile”.

Ecco, io dei parafulmini mi sono rotto il cazzo. Tuoni e fulmini, lampi e saette. Basta con le candidature dei VIP e con quelle delle “VIPTTIME”, per parafrasare un bel libro chiamato “Ricordare stanca” di Massimo Coco, figlio di un giudice assassinato delle BR.  Avete visto com’è semplice usare qualcuno da parafulmine? L’ho appena fatto. Funziona sempre.

(Mi viene in mente sempre la coppia Gaber-Luporini quando disse “Un politico qualunque, basta che gli abbia sparato un brigatista e diventa subito statista”. Non sto criticando la possibilità di candidarsi di nessuno. Non sto criticando le vittime del terrorismo o quelle di mafia e i loro parenti. Semplicemente chi usa questa sofferenza per scopi strumentali mi fa schifo. Lo dico perché di solito “Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Lo disse Confucio. Fosse vivo, la cittadinanza italiana in 24 ore trovando un finto nonno di Reggio Calabria e uno scranno al Senato non glieli leverebbe nessuno.)

 

E se fossimo noi a dare l’esempio, una volta tanto?

Il calcio mi piaceva tantissimo e ora non lo guardo più. Magari mi capita pure di vedere una partita, ma in generale non lo guardo più. L’ultima partita che ho guardato intera è stata Italia-Germania agli ultimi europei, ma forse giusto perché ero in vacanza e me la son vista in agriturismo, con un paio di birre in mano mentre cenavo in totale relax. Per dire, nel 2006 durante la finale del mondiale, quando ho visto che andavano ai rigori mi sono messo in macchina per tornare a casa. Così schivavo il casino, che secondo me una finale del mondiale non deve finire ai rigori. A dirla tutta, nel 1994, quando perdemmo contro il Brasile, sentivo tantissimi che la pensavano così. Ovviamente adesso la pensiamo diversamente :-)

A me il calcio piaceva. Tanto. Tantissimo. Pensate che ogni tanto guardo su Youtube, per nostalgia pura, come fanno i tossici, le partite del mondiale 74 o delle vecchie coppe europee. Non perché “Una volta il calcio era pulito”, che non ci credo. Semplicemente perché ogni tanto ho nostalgia dei giorni in cui io guardavo il calcio in quel modo lì. So dirvi tutti i risultati delle finali dei campionati del mondo (a parte gli ultimi due forse, avevo già smesso), spesso con i marcatori, se vi si rompe wikipedia chiedete a me. Non scherzo.

Il calcio ha un grosso problema, secondo me. Il tifo. Io il tifo non l’ho mai capito del tutto. Capisco sì… Ma penso che allo stesso tempo sia un’abitudine che dovresti cercare un poco di toglierti, come tracannare una bottiglia di rosso a cena o fumarti 20 sigarette al giorno. Non ho mai capito, nemmeno da piccolo, perché uno debba scegliersi una squadra a 4 anni o giù di lì e poi tenersela tutta la vita. Mi sembra che sia un poco come i matrimoni combinati in India. Una puttanata micidiale. Si lo so…”LA FEDE”. A parte che la fede è quella cosa che vi fa credere che una donna vergine possa partorire un figlio (se capitasse a vostra moglie vedi dove ve la mettete la fede) oppure che non potete mangiare carne di maiale (il pollo sì, il maiale no. Siete ben strani…) e poi per me “la Fede” è una mia collega che fa l’oltremare, che vi devo dire? Se l’avete scelta a 4 anni è UN TRAUMA INFANTILE.  Tipo aver visto i vostri genitori che scopano, cose così. Riuscire a rimuoverlo quanto prima è indice di sanità mentale. Poi certo, gli individui maschi si tengono tutti il trauma e quindi alla fine è una cosa socialmente accettata, ragion per cui non è che la meni tutti i giorni e riesci comunque ad andare d’accordo con persone che in questo trauma infantile ci sguazzano. Nella mia vita sono riuscito ad andar d’accordo con tossici da eroina, gente che votava Rauti, miserie varie. Figurati uno che ha una malattia che ho avuto anche io, facilissimo.

Comunque: in questi giorni è successo che un giocatore del Milan sia stato offeso da qualche coro razzista o cose del genere e la squadra abbia lasciato il campo. Un gesto simbolico. Un grande gesto. Era ora, ho pensato. Poi si è saputo che era una partita contro la Pro Patria che non contava nulla. Il sindaco di Busto Arsizio (Gigi Farioli, si chiama) ha posto l’accento su questo, dicendo che “Al Bernabeu non sarebbe successo”. Può essere. Sicuramente quando non ci sono interessi economici pesanti in gioco è più facile, esattamente come il Farioli avrà dovuto metaforicamente ingoiare qualche barile di merda ogni tanto, altrimenti qualche azienda del varesotto delocalizzava. Plausibile, no? Diciamo che in genere, almeno secondo me, quando la tua città fa una figura di merda e tu sei sindaco, ti prendi la figura di merda e te la porti a casa, ma saranno cazzi di quelli di Busto Arsizio che il Farioli se lo vedono tutti i giorni in giro.

In questi giorni si parla molto di questa cosa e si discute proprio su questo. Le fazioni si dividono in chi dice che il Milan “ha fatto bene e basta” e chi invece dice che la scelta è ipocrita perché “Al Bernabeu non sarebbe accaduto”. La cosa è pesantemente influenzata dall’essere o meno tifoso del Milan. Se fosse stata la Juve, l’Inter, il Torino, il Pizzighettone, sarebbe identico. La cosa è palesemente influenzata dalla tifoseria. Pensi a quello che fa più comodo, esattamente come i rigori del 1994 e quelli del 2006.

Intanto si noti la genialità di spostare il punto della questione così che il problema non venga affrontato; infatti, invece di parlare delle curve degli stadi dove l’ultradestra va ad arruolare vere e proprie orde di miliziani armati fino ai denti, si punta il dito verso “Il negro” che sarebbe ipocrita. Lui. E così il dito resta puntato su di lui e noi siamo comunque assolti.

Ecco, secondo me l’ipocrisia sta invece in casa nostra. Mentre discutete in tutti i bar, in tutti i luoghi di lavoro, dappertutto insomma… Chiedetevi cosa farete VOI la prossima volta che sentite un “BUUUU” oppure diecimila persone che imitano il verso di un gorilla non appena un africano tocca palla. Perché cari miei tutti, forse sarebbe il caso di abbandonare VOI il campo. Anche se la partita va avanti. Uscite dallo stadio. Spegnete la tv. Non andate per due o tre domeniche nel bar che fa vedere la partita e che paga l’abbonamento a Sky. Spiegate anche il perché. Spiegate che vi dispiace, ma state provando a disintossicarvi.

A cosa potete rinunciare, per dare l’esempio?