VU.

Era il 4 luglio del 1989, avevo quasi 17 anni. Stavamo andando a sentire “Piastrella Rock”, che era un festival con gruppi locali che suonavano a Fiorano. Lo presentava Stefano Covili di Radio Antenna Uno, detto il Cocco. Siamo saliti sulla macchina (non mia, non potevo) e abbiamo messo sui 104.7, la frequenza di Antenna Uno Rock Station. C’era la nastroteca ed è partita una canzone con un pianoforte che picchiava come un martello e una batteria ancora più ossessiva, delle chitarre che friggevano, poi una voce secca e impietosa attacava dicendo “I’m waiting for my maaaaaaaannnnnn”. Mi andò il cervello in pappa, un suono così non lo avevo mai sentito. Nicola Caleffi, che all’epoca di anni non ne aveva ancora 16 ma già trasmetteva ad Antenna Uno e che era il mio “compagno di dischi” dell’adolescenza mi disse che quelli erano i Velvet Underground. Mi disse che erano fighissimi, che i pezzi erano tutti così, andavano avanti secchi e dritti al punto. Niente assoli inutili, niente virtuosismi particolari o numeri da circo. Mi disse che il testo del pezzo parlava di uno che aspetta il suo spacciatore e che nello stesso disco c’era una canzone che si chiamava “Heroin”. No, dico. EROINA, punto e basta. Se mia madre mi avesse chiesto “Come si intitola questa canzone?” avrei avuto il coraggio di risponderle? Il giorno dopo Nicola trasmetteva in radio e quindi lo passai a trovare e mi feci tirare fuori il disco. Aveva in copertina UNA BANANA e sotto c’era scritto ANDY WARHOL. Non avevo mai visto niente del genere, a parte forse la copertina di “In the court of the Crimson King”. Ma qui la musica era allucinante. E chi cacchio era NICO, che veniva citata in copertina? “Una cantante tedesca”. Ricordai che ne avevo sentito parlare per il fatto che era stata con Morrison. Qui di Morrison ce n’era un altro, si chiamava Sterling ed era chitarrista e bassista. Poi c’era uno che suonava la viola e si chiamava JOHN CALE. Io conoscevo solo J.J. Cale e per un microsecondo mi chiesi se c’entrasse qualcosa. Poi alla batteria c’era scritto un nome. MAUREEN TUCKER. Una donna. Strano anche questo. Partì il primo brano. Nico cantava in tre pezzi, mi aveva detto Nicola. Credetti che il primo fosse “Sunday Morning”, un errore che fanno tutti visto che poi mi dissero che “No, quella è la voce di Lou Reed”. Cosa? Io Lou Reed lo avevo sentito, era quello che cantava “Walk on the wild side”, che faceva “DU DU DU DU DU” nel ritornello. Non poteva essere quello. E invece si. Poi arrivò “I’m waiting for THE man” che io credevo si chiamasse “I’m waiting for MY man” visto che nel testo lo diceva. Strano anche questo, soprattutto perché la voce era sempre quella di Reed, ma stavolta la riconoscevo come tale. Poi arrivò “Femme Fatale” e Nico fece la sua comparsa. Non ci stavo capendo niente ma era tutto bellissimo. Quando attaccò “Venus in furs” il mio cervello andò definitivamente in frantumi. Io una cosa così non l’avevo veramente mai sentita. MAI. C?era una viola distorta che faceva il diavolo a quattro e intanto un tamburello marziale, con questa voce gelida che cantava “Shiny shiny, shiny boots of leather…”

Nessuno ha un suono del genere. Nessuno.

Non ricordo se arrivai a “All tomorrow’s parties” o a “Heroin”. Ricordo che uscito dalla radio andai in un negozio di dischi e comprai “The Velvet Underground & Nico”. Chiesi “Quello con la banana” per essere chiaro, poi scoprii che quel disco è per tutti “La banana”. Quel disco rimase sul piatto fino a settembre. Prima un lato e poi l’altro. Senza soluzione di continuità. Non riuscivo ad ascoltare altro. Ogni tanto pensavo “Adesso cambio disco”, ma poi finivo per mettere SOLO QUELLO. A settembre comprai “Velvet Underground Live With Lou Reed VOl 1” e feci la conoscenza di “Pale Blue eyes” e di un altro aspetto dei Velvet. Quella era una canzone dolcissima e il loro terzo disco, il “disco nero”, ne era pieno. Lo comprai. Lo consumai (quasi) quanto la banana. Poi comprai ogni disco dove trovavo scritto “Heroin”. Comprai “Rock’nRoll animal” di Lou Reed e anche se era pieno di chitarroni roboanti supertecnici mi piacque molto. C’erano alcune canzoni stupende, come “White Light White Heat” e “Lady Day”. Scoprii che la prima era nel secondo album dei Velvet Underground, che però all’epoca non si trovava in vinile neanche a pagarlo oro e quindi me lo feci registrare su cassetta. Era RUMOROSISSIMO. C’era una canzone di 17 minuti che si chiamava “Sister Ray” e scoprii che non era dei Joy Division, visto che l’avevo sentita su “Still” e non mi aveva detto niente, ma mi ricordavo il titolo. C’era “Lady Godiva’s Operation” che era una cosa incredibile. C’era un racconto chiamato “A GIFT” di uno che si fa spedire dentro ad un pacco postale alla sua ragazza per farle una sorpresa e lei nell’aprirlo con due cesoie gli apre la testa in due. Ormai avevo un libro dei testi, di Lou Reed e i Velvet Undeground. Feci la conoscenza con i testi di “Berlin” e lo comprai fiducioso visto che lessi che era prodotto da Bob Ezrin, che aveva messo le mani dentro a “The Wall” dei Pink Floyd. Era un disco bellissimo, di una tristezza cruda e cupa che avrebbe scandito il tempo di parecchie serate dei miei lunghi inverni. Un disco di quelli che quando hai finito di ascoltarlo la tua vita non è più la stessa. Di quelli che esci con i tuoi amici in bar e tutti ti chiedono “Cos’hai?” e allora che gli rispondi? Che hai ascoltato un disco e che ci stai ancora pensando? Poi toccò ad altri album. A “Street Hassle”, che aveva il pezzo che intitolava tutto che durava l’ira di Dio e parlava di uno stupro e di storiacce di strada su un tappeto di archi talmente soave che il contrasto rischiava di annichilirti. Poi “Loaded”, che ora lo salutano tutti come un classico, ma all’epoca ne parlavano tutti male ed in effetti suonava troppo normale, per essere un disco dei Velvet (ma avercene, sia chiaro). Da lì in avanti arrivarono pure “Songs for Drella”, comprato il giorno stesso dell’uscita così come “Magic and Loss”, la cui tournèe mi vide in seconda fila al teatro Storchi di Modena per uno dei concerti più belli della mia vita. Poi ci fu la reunion, che non mi piacque per niente perché quando metti qualcosa su un piedistallo e lo idealizzi poi non dovresti mai farlo scendere sulla terra. Ma la soddisfazione di vedere dal vivo Moe Tucker che suonava in quel modo folle oggi mi rende contento di essere stato là, contro la transenna al centro ovviamente. Arrivai persino a comprare i tributi ai Velvet Underground su Imaginary, dove i Nirvana facevano “Here she comes now” ma la parte del leone erano la versione IMMENSA di “All tomorrow’s parties” dei Buffalo Tom e “What goes on” degli Screaming Trees. Ogni band che faceva una canzone dei Velvet per me era dalla parte giusta (e quante erano, madonna mia). E poi ogni volta che si finiva a suonare con qualcuno e non si sapeva cosa suonare bastava che uno dicesse il titolo di un pezzo dei Velvet Underground oppure di Lou Reed che si poteva suonare alla grande, senza bisogno di essere dei mostri dello strumento.

Non riuscirò mai a spiegare cosa sono stati per me i Velvet Underground. Di sicuro mi hanno cambiato la vita. La vita e la concezione stessa di cosa potesse essere una canzone.

Però, mercoledì 31 Luglio (cioè stasera, per tanti che stanno leggendo) al SUN AGOSTINO di Modena ci saremo proprio io, Nicola Caleffi e i ragazzi di Radio Antenna Uno. Proveremo a parlarvene e a suonarvene, sicuramente tralasceremo qualcosa e argomenteremo in maniera scomposta, sconnessa e inopportuna. Però, con un poco di fortuna, magari potremmo anche cambiarvi la vita. Venite a provare.

JJ

Il 26 Luglio, giorno del mio 41esimo compleanno, è morto JJ Cale.

Aveva 74 anni ed ha sempre avuto uno stile assolutamente inconfondibile, che quando possibile ho cercato di copiare.

Non sono stato mica l’unico.

Senza JJ Cale, Eric Clapton oggi farebbe probabilmente il casaro (e viceversa, visto i soldi di royalties di “Cocaine” e di “After Midnight”). Inoltre, tutti quelli che ascoltano i Dire Straits e amano lo stile di Mark Knopfler spesso non sanno che viene tutto da lì, in maniera quasi imbarazzante. Con la differenza che a Cale bastava suonare 3 note dove gli altri ne devono fare 300 per dimostrare di essere dei chitarristi.

La voce di JJ Cale era roca e suadente, come una carezza ruvida, velluto e carta vetrata. L’indolenza del suo suono particolarissimo e inconfondibile è stata fonte di ispirazione anche di insospettabili come gli Spiritualized, che rubarono la sua “Call me the breeze” rivisitandola in un brano chiamato “Run” dal loro primo album, “Lazer Guided Melodies”.

Se dovete cominciare da un disco, cominciate da “Naturally”. Compratelo, se possibile, in vinile. Ha una di quelle copertine dove ci si perde a guardare i dettagli, mentre intanto sul piatto scorre la musica più intima e avvolgente che abbiate mai sentito. Musica raccolta in canzoni che raramente passano i 3 minuti netti di durata, musica che non indulge in assoli e orpelli inutili, musica dove ogni nota è al suo posto e sembra esserci stata da sempre. Musica che ad ascoltarla distrattamente non sembra niente di speciale, ma della quale sentirete sempre il bisogno di tanto in tanto. Musica dove si sentono anche le note che non vengono suonate, se capite cosa intendo. E se capite cosa intendo e non conoscete JJ Cale allora vi invidio molto, perché state per cominciare un’esperienza incredibile.

Addio JJ, il tuo stile inconfondibile durerà nel tempo. Ogni chitarrista e ogni scrittore di canzoni ti deve qualcosa.

E’ solo un gioco. (Drogati, dipendenze, quelle cose lì).

La giornata di oggi, domenica 21 Luglio 2013, inizia con me che mi sveglio dopo un doppio concerto a Livigno. Mi alzo, vado a fare colazione con Matteo, che è quello che mi ha chiamato a suonare. Ci facciamo due risate, poi vado a comprare della bresaola in un posto che mi consiglia lui, faccio il pieno di gasolio che a Livigno costa 1,1 € al litro. Parto verso casa, il che significa passare dalla Svizzera, fare il “Pass dal Fuorn” e attraversare il “Parc Naziunal Svizzer” ascoltando RADIO RUMANCIA, dove parlano soltanto in romancio. Rido tantissimo, soprattutto quando il DJ mette una cover di “A hard day’s night” dei Beatles cantata in romancio. Poi arrivo in dogana in Italia. O meglio, in Sud-Tirolo, a Tubre. Il doganiere mi ferma, mi chiede la carta d’identità, mi chiede da dove arrivo e io rispondo “Livigno”. Allora mi chiede se ho comprato sigarette, alcool e robe varie. Mi fa aprire il baule della macchina e vedendo la chitarra mi dice “E questa?” e io gli spiego che sono andato a Livigno a suonare. Lui allora mi dice “Ah, lei suona, eh?” con quel tono da chi vuol intendere che se tu suoni sei un drogato, un poco di buono, un mezzo barbone sbandato. Io a quel punto rispondo solo “SI”. Lui non dice più nulla.

Mi è sempre stato mortalmente sul cazzo questo modo di vedere noi che suoniamo come dei mezzi barboni, straccioni, drogati, parassiti della società: Mi è sempre stato sul cazzo perché io ho un lavoro, una casa di proprietà, faccio una vita normale e perfettamente borghese, tutto sommato. Solo che per hobby mi piace girare l’Italia (anche passando per la Svizzera) cantando le mie canzoni. Forse al doganiere e a tutte queste persone per bene, piace andare allo stadio, oppure fare bricolage, magari fanno la collezione di “Tex” e spendono centinaia di euri per la prima stampa di “Uno contro venti” (Il numero 2 di Tex). Eppure a loro nessuno rompe le palle con quel tono che lascia intendere chissà quale modo di vivere.

Mi sta mortalmente sul cazzo ancora di più quando poi queste brave persone vanno in vacanza e magari se ne stanno in piazzetta a mangiarsi un gelato e c’è qualcuno che suona e allora sono contenti, che in centro c’è un poco di musica e “che bella voce ha quella ragazza lì, che faceva le canzoni di Elisa che era proprio uguale” che allora a quel punto lì non sei più un brutto parassita perdigiorno, solo perché ti fa comodo.

Entro in Sud Tirolo, mi sparo tutta la statale fino a Merano ascoltando le radio di Blasmusik,l’equivalente del liscio in lingua tedesca, una mia passione insana. Adoro sentire queste canzoni melense con testi un poco sempliciotti e adoro vedere come fanno le rime in lingua tedesca. In genere al terzo ritornello sto cantando la canzone da solo in macchina, come un imbecille e rido. Chi mi vede pensa che io sia pazzo e stavolta forse ha ragione.

Poi prendo l’autostrada a Bolzano e vado verso casa. Mi fermo a mangiare qualcosa, poi riparto e ad un certo punto, visto che sono stanco, mi fermo di nuovo in un’area di servizio a prendere qualcosa di rinfrescante e a fare un’ultima pausa.

Sono all’area di servizio MAGLIONE SRL POVEGLIANO OVEST, al Km. 240 dell’A22. Il telefono è 045/7925360. Sono le ore 14, almeno questo dice il mio scontrino, che ho prontamente conservato.

Mentre sono in fila alla cassa, vedo che ogni persona davanti a me che compra qualcosa si sente dire “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?” dalla cassiera. Non so se sia legale, mi dico, incitare al gioco d’azzardo.
Ogni persona, qualsiasi cosa compri, prima ancora di sentirsi dire l’importo, si sente dire “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?”.

Arriva il mio turno. La tipa mi dice “VUOLE ANCHE UN GRATTA E VINCI?”.

“Mi può togliere una curiosità?”
“Dica”
“Lo fate anche con le sigarette?”
“In che senso?”
“Vuole anche una stecca di Marlboro? Vuole cominciare a fumare?”
“AHAHAHA” (la tipa ride)
“No, perché volevo capire se lo facevate anche con il fumo o solo con il gioco d’azzardo”
(La tipa smette di ridere)
“Guardi, io lo so che non è colpa sua e che a lei danno degli ordini, lo so che se lei non esegue gli ordini probabilmente finisce anche nei guai. Però mi piacerebbe vederlo in faccia l’imbecille che le dà questi ordini”

La tipa di colpo dice “3,94. Grazie e buon viaggio anche a lei, salve”. La tipa a fianco a lei le chiede “Cos’ha detto?” ma intanto la ragazza che mi ha servito è già uscita dalla cassa (la fila c’è ancora, notare) e parte spedita verso un punto dell’area di servizio, entra in un punto che non so cosa sia, ma immagino sia andata a segnalare l’accaduto.

Ecco, io in un posto dove una chitarra fa pensare a qualcosa di illegale e dove invece si incita a giocare d’azzardo chiunque ti capiti davanti senza che nessuno protesti o dica niente, penso che ci vorrebbero più chitarre. E penso che le dogane dovremmo tenerle nel nostro cervello, non necessariamente dove dice una cartina geografica.

777

Quelli che mi hanno visto dal vivo lo sanno. Se c’è una cosa che non mi piace dei concerti definiti “indipendenti” (di noi poveri) è la faccenda del bis.

Nei concerti fighi uno esce, il pubblico chiede automaticamente il bis, torna fuori e via.

Noi no. Quando abbiamo finito accade che ci mettiamo di lato, nessuno ci richiama fuori se non un piccolo e sparuto gruppo che in genere organizza il concerto, tu te ne stai lì come un pirla fino a quando quello che organizza ti viene proprio a stanare. Allora tu torni fuori, quelli che sono lì ti guardano come uno sfigato e tu fai un paio di canzoni ancora in un’atmosfera patetica.

Per ovviare a questa cosa veramente squallida, ho inventato “la buffonata del bis”. In pratica mi metto d’accordo prima con il pubblico. La cosa è nata in maniera spontanea fino a ripetersi talmente tante volte che ormai è proprio un momento del concerto a parte, con tutta una serie di gag che ripeto con un’aria da vecchio mestierante, come un cabarettista fa con i numeri del repertorio che sa che funzionano.

In genere lascio al pubblico 3 opzioni. La “A” prevede che faccio un brano e poi fine. La “B” prevede che faccio un pezzo e poi esco, vado in bagno e torno a farne un paio. La “C” prevede che esco, tutto il pubblico grida “fuori, fuori” e io torno fuori facendo finta che mi abbiano chiamato per davvero.

Manco a dirlo, 95 volte su 100 il pubblico sceglie la “C”, perché trova la cosa divertente e perché al pubblico piace partecipare agli scherzi. Ragion per cui l’esposizione delle tre opzioni è una faccenda che occupa quei dieci minuti, nei quali in genere si ride parecchio. Per alcuni il momento da ricordare del concerto rimane quello, mica quando canto.

Solitamente, per far capire che se dicono “Fuori, fuori”, lo devono fare proprio bene ma bene, una roba che sembri vera, tipo stadio, individuo un tavolo che fino a quel momento si è fatto completamente i cavoli suoi e dico una cosa del tipo “Dovete farlo talmente forte che quei 3 lì al tavolo che è tutta la sera che si fanno i cazzi loro devono pensare di essersi persi un concerto della madonna”, il tutto magari condito con qualche battuta sui malcapitati che, in genere, nel frattempo continuano comunque a farsi i cavoli loro, salvo poi risvegliarsi al “fuori, fuori”. Insomma, una cosa da vecchio mestierante, come dicevo.

Ieri sera ero all’80° Miglio, un locale di Modena molto carino sulla Via Emilia. Arrivo al punto della buffonata del bis, espongo le 3 opzioni, quando parlo della “C” dico “Ma così bene che quei 4 beoni lì al tavolo di fianco che è tutta sera che non ascoltano e si fanno i cazzi loro si danno una svegliata”. Vedo che le facce del resto del pubblico, che in genere a questa frase ridono apertamente, hanno uno strano stupore. I tipi intanto continuano bellamente a farsi i cavoli loro, non sono nemmeno gli unici, a dirla tutta. Ma ormai ho scelto quelli, sono vicini al palco, li vedo bene, eccetera.

Visto che i tipi continuano, continuo anche io “Vedi, guardali lì. Anche adesso proprio non ci cagano pari. Quindi adesso li svegliamo in modo che pensino “GUARDA CHE CONCERTO MI SONO PERSO” e cose così”.

Le facce del resto del pubblico ridono, ora. Alcune ridono TANTISSIMO. I tipi continuano a parlare tra loro, in maniera molto animata, penso io. Infatti, come i classici italiani, muovono tantissimo le braccia quando parlano. C’è un detto di non so che paese che dice “Se vuoi far tacere un italiano, legagli i polsi”.

Io continuo e rincaro la dose, ironizzo pesantemente. Poi ad un certo punto, è una frazione di secondo, realizzo. Proprio mentre uno del pubblico mi fa un segno inequivocabile.

Ho scelto un tavolo di sordomuti e, manco a dirlo, io sono nel mezzo della “madre di tutte le figure di merda”, per dirla con il generale Schwarzkopf.

A quel punto comincio a ridere, in maniera quasi isterica. Io e il resto del pubblico ridiamo tanto, ma tanto, della cosa. Loro quattro ovviamente tirano dritto, non si sono accorti di nulla.

Per fortuna non hanno sentito…

Figure di Mare.

L’anno scorso ho suonato al Bagno SOLOSOLE di Cervia (RA), in spiaggia. Suonare d’estate in riviera in uno stabilimento balneare implica che chi si trova lì non presti troppa attenzione ad un concerto. Sta lì, si gode la vacanza, si ascolta qualcosa mentre beve qualcos’altro. E’ giusto così.

Quest’anno ci sono andato in vacanza per una settimana, al bagno Solosole. Conosco i proprietari, si sta bene, nonostante il tempo inclemente ma questo non è colpa di nessuno.

Sono lì che mi godo la vacanza quando un signore sulla sessantina inoltrata (direi) viene lì e parliamo del più e del meno mentre intanto accendiamo il televisore per vedere Uruguay-Brasile, confederations cup.

Mi dà in mano i telecomandi dicendomi di pensarci io che son più esperto. Poi, vedendo che ci salto fuori ma prima arranco un poco tra telecomandi e robe varie mi dice che forse non sono così esperto come credeva.

Gli rispondo che io a casa non ho il televisore e quindi sono rimasto ai tempi in cui il telecomando era uno solo.

Lui sgrana gli occhi e da quel momento lì per due giorni mi chiede come faccio a stare senza tv. Tutti quelli che entrano vengono a imparare che io a casa non guardo la tv, perché lui glielo dice subito.

Mi è venuta in mente una scena de “La grande bellezza” dove una tipa dice “Te lo avevo detto che non ho la televisione?” e un’altra gli risponde che sta facendo i coglioni così al mondo sull’argomento. Noto che ogni tanto c’è anche sui vari socialcosi (copyright Marco Manicardi) questa critica alla presunta “ostentazione del fatto di non avere la tv”.

Ebbene, non ho nemmeno la lavastoviglie. Soltanto che quando lo dico nessuno si stupisce. E dire che ce l’hanno tutti. In genere però può scappare un “Che due maroni, lavare i piatti a mano” e poi finisce lì.

Se invece dici che non hai la tv vieni tempestato di domande sul “E come fai?”. La cosa ti fa sempre sembrare molto intelligente, quando in realtà tra passare una serata davanti a una puntata de “Il grande fratello” e una davanti alle bacheche di Facebook non è che ci sia tutta questa differenza, almeno secondo me.

In ogni caso, il tipo va avanti così tutto il tempo. Da lì per il resto dei giorni mi dirà sempre cose del tipo “Ah, però in vacanza guardi la partita, sei l’italiano medio”. Oppure “Ah, però in vacanza, gelatino, pennichella sulla spiaggia, sei l’italiano medio” e sempre avanti in questo modo. Io ogni volta sorrido e rispondo “Chiaro, sono in vacanza in riviera, mica sono andato alle Grotte di Lascaux ad ammirare le pitture rupestri”.

Poi ad un certo punto, il tipo dice “Oh, sabato sera quelli del bagno fanno una serata all’Hotel Vienna”. Io sabato sera sarò già a casa mia, purtroppo.

Il tipo dice “Ci saranno le birre artigianali e poi c’è anche uno che suona. Ma uno bravo, mica quel pelato di merda che è venuto l’anno scorso, che ha fatto venire due maroni…”

Al che realizzo che in effetti, vuoi per il sole, vuoi per non so cosa, finora davanti a lui non mi sono ancora levato il cappello.