Questa è la recensione di Togliamoci il pensiero scritta da Federico Guglielmi per il Mucchio di Novembre:
Da quando ha “scoperto” i testi in italiano, cioè da quel 2009 in cui ha debuttato nella lingua nazionale con L’età della ragione (dopo l’esordio solistico e quattro dischi alla guida dei Joe Leaman, tutti in inglese), Giancarlo Frigieri confeziona un album all’anno. Quest’ultimo, il primo non autoprodotto, inquadra efficacemente le numerose sfaccettature della poetica del cantautore rock emiliano: nelle musiche mai così eclettiche e “colorate”, nei testi (ora più ispirati dalla società in cui viviamo che non dalla sfera privata) sempre in bilico – con ironia – fra disillusione e deplorazione, in un approccio di fondo volutamente un po’ sgraziato e imperfetto come nell’indole del suo personale eroe Bob Mould (o come, ma il paragone è quasi solo attitudinale, Federico Fiumani). Nei nove pezzi di Togliamoci il pensiero c’è parecchio Giorgio Gaber, c’è cinismo senza possibilità di redenzione, ci sono anche dettagli non pienamente a fuoco e piccole cadute di tono… ma alla fine ogni cosa ha il sapore agrodolce della genuinità e della coerenza.
Intervistare Federico Guglielmi significa intervistare uno dei nomi storici della critica musicale italiana. Guglielmi mi sembra di averlo sempre letto da quando leggo di musica, e oggi che mi trovo in chat con lui per inaugurare il giro di “interviste alla rovescia” è un poco come alla prima mano di una partita di Briscola trovarsi l’asso in mano e calarlo all’istante. Allo stesso tempo è un poco come l’imprimatur papale: se va bene farla con Guglielmi, anche le altre “religioni” non oseranno dire di no. Ecco qui il resoconto di una chiacchierata via skype, dove si parla di musica ma anche di puttanate. Una chiacchierata integrata con qualche domanda via mail il giorno successivo, visto che siamo due persone piuttosto impegnate.
Prima domanda: Hai parlato nella recensione di “suoni mai così colorati”. Cosa intendevi dire?
Che, rispetto ai tuoi standard, si avvertiva una maggiore ricchezza sonora, sia in termini di quantità (quindi, arrangiamenti più ricchi), sia di qualità (più brillantezza, più sfumature).
Mi dici la porcata più grande che hai fatto ad una donna con la quale stavi e che lei ancora non sa?
Non lo direi mai neppure sotto tortura. Comunque, nulla di cui debba seriamente vergognarmi o che io stesso non abbia probabilmente subito.
Ho visto che ti sei tolto dei sassolini dalla scarpa, ultimamente. In un ambiente dove nessuno parla mai male di nessuno se non dietro le spalle, questo ha causato un bel putiferio. Personalmente ho trovato lo sfogo su “Lo stato sociale” assolutamente sbagliato. Mi spiego meglio: quel pezzo lì non piace nemmeno a me, però mi sono venuti in mente quei discorsi che si leggevano sulle pagine dei vari “Gong” e “Muzak” quando i vecchi soloni della critica inseguivano la Musique Concrète e il Free Jazz, dicendo che i Ramones erano solo dei poveri fessi che non sapevano suonare e facevano tre note. Il che era vero, ma oggi i Ramones sono considerati giustamente un classico, grazie ai giovani che si affacciavano al mondo della critica all’epoca (che eravate poi voi). Insomma, corsi e ricorsi?
All’epoca del primo punk, per fortuna, non esistevano Internet e social network… ci fossero stati, il punk sarebbe morto nella culla perché sarebbe stato stambiato per l’ennesima pagliacciata o miseria di stagione. Figurati che può mai fregare, a un punkettaro come me, che quelle nullità non sappiano suonare… il punto è che certe esperienze musicali e culturali – mi riferisco alla New York dei ’70, ma anche alla Londra di poco dopo – nascevano spontaneamente e, comunque, derivavano da “spinte” un po’ più consistenti della speranza di essere recensiti da Rockit e di suonare al Miami. Dopo il tuo paragone, Joey, Johnny e Dee Dee si stanno rivoltando nella tomba…. e pure Malcolm McLaren, nonostante lui sia stato un pianificatore: una cosa è il situazionismo e un’altra la merda, consentimelo.
Mi dici quali sono le canzoni che ti sono piaciute di più nel mio disco? Un paio di titoli, oppure di più se sono di più quelle che ti hanno colpito particolarmente.
Insomma, mi è parso un disco più curato, nel complesso…
Mhhh… fai l’evasivo… Quante volte te lo sei ascoltato? La verità.
Ma dammi il tempo di rispondere! L’ho ascoltato sei o sette volte. Comunque “Togliamoci il pensiero”, “Il nemico”, “L’altra”, “Criceti”. Se vuoi ti dico anche che non mi piace “Senza canditi”,
Spiega perché. Usa pure la scimitarra.
Non è un discorso di testi. Non mi convinci con una base fusion.
Fusion? Uno prova a copiare spudoratamente James Brown ed esce fuori una base fusion? Allora ho sbagliato qualcosa. Pensa che un tuo collega mi ha detto che lì sembro Daniele Silvestri.
Penso che tu abbia compiuto, in generale, uno sforzo di eclettismo musicale. È un pregio ma può anche essere considerato un difetto, se le cose non vengono – a pare di chi ascolta – bene. Fusion era improprio, la fusion è più “leccata”. Diciamo che hai fatto una base funk-jazz. Non mi ha convinto. Sì, poteva essere un po’ Silvestri, ma lui è più pop. Quindi, per rispondere alla domanda di prima su cosa non mi è piaciuto… Secondo me hai provato a essere più vario, e non tutto ti è riuscito benissimo. Cosa che ci sta.
I cinque dischi da isola deserta che hai scritto nel corso degli anni e che oggi non ti porteresti assolutamente dietro. (Questi vanno scritti al volo, senza pensarci troppo, così poi puoi pentirti ulteriormente)
Non penso che potrei mai rinnegare le mie scelte di dischi da isola deserta… Cioè… “Goodbye And Hello” di Tim Buckley, “Velvet Underground And Nico”, il primo degli Stooges, il debutto solistico di Stan Ridgway, “Crossing The Red Sea With The Adverts”, “Forever Changes” dei Love… come fai a toglierne anche solo uno? Sono molto serio anche in questi “giochini”, ci rifletto parecchio su, e difficilmente cambio idea. Magari un giorno potrei esprimere preferenze differenti, ma non ce n’è nessuno che potrei abiurare al punto di non volere assolutamente portarmelo più dietro.
Non abbiamo ancora parlato dei testi. Quali sono i testi che ti sono piaciuti di più e scendendo nel dettaglio, dimmi cosa ti è piaciuto di quei testi, se c’è qualche verso nel quale ti sei proprio identificato.
Mi piacciono più o meno tutti, e amo il fatto che siano piuttosto lunghi e articolati… oltre spesso gaberiani. Adoro, in particolare, quando dai addosso al clero. Se devo citarne uno dico quello di “Criceti”, meravigliosamente amarissimo. Un paio di versi? “Frano a valle sui detriti del tuo amore”, “i nostri fossi sono pieni di salti sbagliati”… quando ti ci metti sei un maestro di desolazione, più di te solo Claudio Lolli.
Per quanto riguarda i testi, nella recensione hai parlato di cinismo. È una cosa che mi dicono in tanti mentre io onestamente non mi sento per niente cinico. Certo, il gusto sarcastico e dissacrante del voler sempre dir la mia è una cosa che ho, ma non credo sia cinismo. Puoi spiegarmi perché hai usato quella parola lì?
Tendi a tirar fuori concetti molto espliciti, e il modo in cui li esprimi/canti non danno l’impressione che ciò che racconti ti faccia particolarmente soffrire. Prendi atto che tante, troppe cose non ti piacciono, ma in fondo non te ne frega nulla. Magari è solo disincanto, ma l’impressione del cinismo c’è. A me arriva come cinismo, seppur non sempre terribilmente caustico.
Cacchio, mi sa che comunico esattamente il contrario di quello che vorrei comunicare. Dannata eterogenesi dei fini! Cambiando discorso: su “Fuori dal mucchio” recensite tantissimi dischi e pochissimi concerti. L’impressione che se ne riceva è che “dei dischi in fondo posso anche parlartene bene, ma col cacchio che vengo a vedere un tuo concerto che farai schifo, brutto dopolavorista della musica.” Quanto ci ho preso e quanto no?
Sulla rivista, in “Fuori dal Mucchio”, recensiamo solo dischi, perché nove al mese su centocinquanta che mi arrivano sono già pochi… anche se una selezione accurata è meglio del dare spazio a chiunque. Per quanto riguarda il “Fuori dal Mucchio” in Rete, ormai fermo da quasi un anno, le recensioni dal vivo erano in effetti poche… ma non era una scelta strategica. Io vedo tantissimi concerti di area “Fuori dal Mucchio”, e così gli altri collaboratori… credo che, in generale, scrivere report di concerti non piaccia granché a nessuno. Credo, eh. A me, detta papale papale, rompe le palle: amo assistere ai concerti, ma se devo preoccuparmi della scaletta o di prendere appunti me li godo meno.
Non pensavo che non piacesse a nessuno. Comunque, mi hai convinto.Giuro, senza ironia. Ma il criterio di un disco su “Fuori dal mucchio” qual’è esattamente, se c’é? Ho visto dischi autoprodotti e dischi su major.
Su “Fuori dal Mucchio” vanno emergenti, autoprodotti, esordienti, sotterranei, di culto, sfigati assortiti (detto con ironia, va da sé). Sul giornale “normale”, al di là delle “star” conclamate, occasionalmente “proòuovo” gente di “Fuori dal Mucchio” che sta emergendo più concretamente o avrebbe tutte le carte in regola per aspirare a qualcosa di più: non parlo solo di qualità della musica ma anche di carisma, motivazioni, genere più appetibile, strutture di sostegno professionali. E poi non posso riempire ogni numero del Mucchio di italiani, sono troppi.
Sì, sì. Nessuno dice di riempire il giornale di italiani. Anzi, siete stati i primi a dare spazio a noi sfigati assortiti, a parte le finestrelle sui demo e questo penso vi vada riconosciuto. Mi interessava sapere se “facevate un po’ come cazzo vi pare”, cosa che sarebbe peraltro legittima, secondo me.
La “linea” è mia, ma ovviamente tengo conto dei preziosi suggerimenti dei miei collaboratori. Però, lo ribadisco, c’è un metodo: dall’esterno non è sempre facile capire quale sia, ma sarei in grado di spiegare ogni singola scelta compiuta. Scelta che magari, in qualche circostanza, può anche essere stata “sbagliata”, sia chiaro.
Cosa ne pensi del crowdfunding? A me sembra un inganno colossale. Ho scritto anche un post fresco fresco sul mio sito che uscirà tra qualche giorno. Mi sembra che si voglia mettere a pagamento tutto facendolo passare per un favore. Perché le “chiacchierate via skype” date come premio? E poi che premio è pagare in anticipo qualcosa che invece puoi permetterti di pagare alla consegna? E gli “accessi nel backstage”? Ma chi si credono di essere? Non sta tutto in antìtesi con quel sistema di valori che una volta si definiva “indipendente”?
Il sistema di valori del quale parli, ammesso che sia mai davvero esistito, non c’è quasi più, fatta salva qualche lodevolissima eccezione. Rispetto al crowdfunding, per come la vedo io è solo l’ennesima “brillante” trovata per farsi pubblicità e sommergerci ulteriormente sotto inutili dischi di merda. Non avere voglia – perché è di voglia che si tratta, non prendiamoci per il culo – di investire poche migliaia di euro nel proprio progetto musicale è a dir poco ridicolo. Nonché un’ulteriore dimostrazione di come, ormai, il disco sia un concetto svalutatissimo. Sia chiaro, contribuirei anch’io all’album di qualche genio incompreso che fa il barbone, ma mai darei un solo euro a qualche figlio di papà che trova “cool” chiedere l’elemosina ai suoi fan. Andate a lavorare, cialtroni.
Mi spieghi che cacchio vuol dire “suoni stratificati”? Lo usate tutti. E che significa usare “destrutturazione della forma canzone” se poi quando vai a sentire la canzone c’è la strofa e il ritornello? Insomma, ma ‘sti critici musicali se non sanno di musica, di cosa scrivono?
Ahahahah… sì, capisco, in effetti alle volte saltano fuori espressioni di “slang da addetti ai lavori” che possono risultare un po’ fumose. Fondamentalmente, per come l’ho capita, si parla di “stratificazione di suoni” quando in un pezzo si butta dentro un sacco di roba, spesso tutta assieme. La destrutturazione sarebbe un modo anomalo, non classico, di organizzare una canzone.Che so, Le Luci della Centrale Elettrica destruttura, i Numero6 no. Poi è vero, però, che molti colleghi o aspiranti tali usano questi termini un po’ alla cazzo… ma che pretendi, ci sono tanti sedicenti giornalisti musicali che non solo conoscono al massimo trecento dischi, ma hanno anche un rapporto seriamente conflittuale con la grammatica e la sintassi di base.
Eh, appunto. Mi sembra ci siano dei termini di moda, che si usano per quattro o cinque mesi senza sapere bene cosa vogliano dire, poi si passa ad altri. Mi chiedevo “ma dove li leggono”?
È vero, è così. Te ne racconto una?
Come resistere? Spara.
Per decenni tutti, ovunque, hanno scritto, a proposito di un’etichetta, DELLA Warner, DELLA Urtovox, DELLA Controrecords… Mesi fa, all’improvviso, tre o quattro dei miei collaboratori hanno iniziato, più o meno all’unisono, a scrivere DI Warner, DI Urtovox, DI Controrecords. Ho chiesto spiegazioni, e nessuno ha saputo darmene. Io ovviamente ho rimesso i DELLA. Come quando qualche testa di cazzo ha deciso che DECADE era sinonimo di DECENNIO: cosa che non era ma ormai, per uso comune, sta purtroppo diventando.
Mi sembra un poco “Oltre il giardino” con Peter Sellers. Ma andiamo oltre. Un amico al quale ho fatto leggere la tua recensione, mi ha detto che secondo lui a te il disco è piaciuto ma non ti ha fatto impazzire, quindi hai iniziato a scrivere cose del tipo “coerenza” eccetera perché così arrivavi in fondo.
Ma no. Non è per arrivare in fondo. Che il disco abbia qualcosa che secondo me non gira perfettamente l’ho scritto con chiarezza. Ho però voluto inserire elementi positivi oggettivi. Se non sapessi come portare a termine dignitosamente 1050 caratteri sarei un giornalista penoso, non credi? Ho scritto esattamente quello che mi sembrava giusto scrivere, nel bene e nel male.
L’ultima volta che hai fatto a pugni? Hai cominciato tu o ha cominciato lui?
Circa venticinque anni fa. Ha cominciato lui, anche da ragazzo ho sempre usato la violenza fisica solo se costretto, come ultimo strumento di difesa.
Hai mai provato a suonare uno strumento? Se sì, a che livello sei arrivato e qual era lo strumento? Insomma racconta…
La chitarra, la batteria e le tastiere, ma mi sono fermato quasi subito perché ho capito che non facevano per me: non mi sapevo coordinare bene e non riuscivo a mantenere la concentrazione. Non ho comunque rimpianti, il non saper suonare non mi è mai mancato.