Siamo qui perché lo vogliamo noi – La sindrome di Smaila.

“E’ tutto un attimo”. Si chiamava così. Era una canzone di Anna Oxa in non so quale edizione di Sanremo. Ricordo che pensai che di quell’edizione lì era una delle poche canzoni che si salvava e anche oggi, al netto di qualche suono di tastiera anni ottanta che risveglia il Torquemada che è in me, la ritengo una bella canzone. Ricordo che lessi il nome di Umberto Smaila tra gli autori. Umberto Smaila per me era uno dei “Gatti di Vicolo Miracoli”, che facevano del cabaret veramente avanguardistico e da piccolo mi piacevano un sacco. Jerry Calà era diventato un poco la star del quartetto (gli altri erano Smaila, Franco Oppini che poi sposò Alba Parietti, Nini Salerno che era quello che faceva ridere soltanto a guardarlo in faccia) ed era uscito dal gruppo per tentare la carriera solista. Il gruppo poi si sfaldò a metà degli anni ottanta e Smaila era uno che oltre a condurre programmi, fare il comico eccetera, scriveva anche canzoni. Ricordo che ci rimasi stranito quando lessi il suo nome su una canzone così, ma tant’è.

Smaila, tra i quattro gatti di Vicolo Miracoli, fu poi quello che ebbe la carriera solista più strana. Di lì a poco infatti venne chiamato su “Italia 7”, un canale diciamo così “minore”, a condurre un programma che fu una vera e propria rivoluzione. Si chiamava “Colpo Grosso” e per spiegarlo a quei tre che non lo sanno diciamo che con quel programma comparvero le tette in tv. Si trattava di un quiz dove i concorrenti si spogliavano quando perdevano una manche, dove c’erano delle vallette che si spogliavano e facevano vedere le tette ad ogni occasione buona, del tipo che se bisognava fare testa o croce si prendeva una valletta, le si metteva su un capezzolo “testa” o “croce” e poi, una volta scelte le facce della moneta, si tirava via il reggiseno e vedevi chi aveva vinto. Una cosa molto antifemminista, insomma.

Certo oggi che c’è internet e chiunque può sfondarsi di seghe con le cose più zozze dell’universo che basta un clic, una cosa come “Colpo grosso” può fare sorridere, esattamente come quando i miei nonni mi parlavano delle foto dell’enciclopedia con gli indigeni dell’Africa che giravano nudi. Però vi assicuro che all’epoca fu una cosa che fece epoca, scusate la ripetizione.

Per darvi un’idea, le vallette del programma, che erano uno stuolo di belle gnocche assortite, si chiamavano “Ragazze Portafortuna” e poi in seguito vennero ribattezzate “Ragazze cin cin”. Forse l’ordine del battesimo fu l’inverso, ora non ricordo, in ogni caso le ragazze suddette cantavano una canzoncina con la quale entravano in scena e alla fine della canzoncina, tutte insieme facevano vedere le tette tutte insieme e il regista ne beccava una ogni volta diversa per il primo piano di rito. Il momento era talmente atteso che ci sono migliaia di maschi italiani tra i 35 e i 55 che oggi, a vent’anni di distanza, vi sanno cantare a memoria (o quasi) gemme sonore come “Po po portafortunaaaa” oppure tutto il testo di “Cin cin cin cin, assaggia e poi mi dici…”.

Non so come fu, forse che a fare la maitresse il buon Umbertone Smaila si sentisse intellettualmente inferiore oppure per una bieca ragione di diritti d’autore, fatto sta che non si sa bene come ad un certo punto spuntarono anche, di tanto in tanto, dei momenti musicali veri e propri. Smaila si metteva al piano e, rigorosamente in playback con la base, suonava una canzone mentre attorno al piano si radunavano le signorine che ammiccavano alla telecamera. Una sera, ricordo perfettamente, Umberto Smaila ci concesse una versione di “E’ tutto un attimo”, la sua canzone cantata da Anna Oxa a Sanremo. La cantò in lingua inglese e nel ritornello, dove la Oxa cantava “Voi, solo voi” l’Umberto invece cantava “Goodbye, Yesterday”. on chiedetemi perché, ma mi sembra un particolare rilevante.

Ora, la cosa potrà pure farvi ridere, ma io che mi trovavo davanti allo schermo in quel momento provai una compassione solidale della quale non mi credevo capace.

Si vedeva quest’uomo in sovrappeso, infilato in una giacca brutta come solo le giacche di quegli anni sanno essere, che urlava tutta la sua disperazione in un microfono spento sopra ad una base con suoni sintetici terrificanti, attorniato da una decina di ragazze che ammiccavano alle telecamere sorridendo nella maniera più finta che possiate immaginare. E dietro quelle telecamere, nelle case, migliaia di maschi che con i pantaloni semiabbassati e il volume bassissimo si stavano soltanto chiedendo “Ma quando cazzo finisci di cantare, ciccione di merda?”.

Un uomo solo, circondato da un mondo che non lo potrà mai capire. Gliela leggevi in faccia la tristezza, a Smaila. Gli leggevi in faccia il fatto di capire di non poter farci nulla ma di dovere comunque andare avanti, se non altro per onor di firma. Per combattere fino in fondo e poter dire “Io ce l’ho messa tutta”. Lo vedevi cantare ad occhi chiusi, per cercare di estraniarsi da quel contesto grottesco che stonava più di un semitono eccedente. E in quell’attimo in cui poi tornava alla conduzione dopo l’applauso finto che in realtà era registrato e mandato dal regista alzando un cursore, gli leggevi tutto il peso della sconfitta e del mestiere che si era scelto lui, tutto sommato. Anche oggi, che Smaila ha una catena di locali dove fa il piacione e dove non mi augurerei di entrare nemmeno se costretto, ricordo essenzialmente quell’attimo lì, quella sua espressione del viso. “E’ tutto un attimo”, appunto.

Fu una scena tristissima, una di quelle che ti si piantano nella memoria anche se non vorresti, ché vorresti che la tua memoria e la tua scala di valori passasse per Verga, Flaubert, Tolstoj, i Velvet Underground e Igor Stravinskji e invece ti tocca avere come chiodo fisso Umberto Smaila e il “Raddoppio Panto” (qualcuno sa di cosa sto parlando, scusate il linguaggio da iniziati).

Oggi, quando (per fortuna sempre più raramente, l’ultima volta che mi sono sentito così è stato il 19 Aprile di quest’anno al Red Mosquito di Mazzalasino, vicino casa mia. La penultima manco lo ricordo, per fortuna) mi capita di andare a suonare in un posto e di dannarmi l’anima per un’ora e mezza nell’indifferenza generale davanti ad un pubblico che è venuto lì per farsi i sacrosanti cazzi propri, mi sento come Umberto Smaila quella sera lì. E quando, dopo aver cantato con gli occhi chiusi, li riapro a fine pezzo, a volte mi stupisco di non vederli tutti con il telecomando di fianco e i pantaloni giù, ma la cosa non mi consola per niente.