Il concerto di capodanno.

Una volta, il 31 dicembre del 1997, suonavamo con i Mocogno Rovers nella campagna Bresciana. Eravamo stanchi, io tornavo direttamente dalla Sicilia dove avevo fatto un paio di date suonando la batteria con i Julie’s Haircut in condizioni decisamente avventurose. Salimmo sul palco senza aver cenato, la disorganizzazione era totale. Ad un certo punto arrivò la pasta, mancavano circa 10 minuti a mezzanotte.

A quel punto il nostro cantante (Davide Morandi, proprio quello che oggi canta nei Modena City Ramblers) emulò il grande Mario Canello del film “Fantozzi” e disse “Mancano 30 secondi alla mezzanotte” e poi iniziò il conto alla rovescia. Io cominciai a ridere talmente forte che non riuscivo a suonare il pezzo che avevamo previsto per il conto alla rovescia e mi sdraiai sul palco a ridere tenendomi la pancia per il dolore. Tutti o quasi festeggiarono il capodanno con una decina di minuti di anticipo e poi andarono fuori a scoppiare dei botti e a fare casino, lasciando lì le tonnellate di pasta nei pentoloni.

Noi scendemmo dal palco, mangiammo con relativa calma in un quarto d’ora dove dentro non era rimasto praticamente nessuno, augurandoci buon anno all’ora giusta. Poi tornammo sul palco e ricominciammo a suonare.

(Quella sera lì poi abbiamo fatto altre cose che non posso raccontarvi, perché onestamente mi vergogno ancora adesso anche se son passati più di quindici anni. Per darvi un indizio posso solo dirvi che se oggi qualcuno mi parla di Nuova Zelanda o di Waterloo, io prima rido e poi abbasso il capo cambiando discorso)

VU.

Era il 4 luglio del 1989, avevo quasi 17 anni. Stavamo andando a sentire “Piastrella Rock”, che era un festival con gruppi locali che suonavano a Fiorano. Lo presentava Stefano Covili di Radio Antenna Uno, detto il Cocco. Siamo saliti sulla macchina (non mia, non potevo) e abbiamo messo sui 104.7, la frequenza di Antenna Uno Rock Station. C’era la nastroteca ed è partita una canzone con un pianoforte che picchiava come un martello e una batteria ancora più ossessiva, delle chitarre che friggevano, poi una voce secca e impietosa attacava dicendo “I’m waiting for my maaaaaaaannnnnn”. Mi andò il cervello in pappa, un suono così non lo avevo mai sentito. Nicola Caleffi, che all’epoca di anni non ne aveva ancora 16 ma già trasmetteva ad Antenna Uno e che era il mio “compagno di dischi” dell’adolescenza mi disse che quelli erano i Velvet Underground. Mi disse che erano fighissimi, che i pezzi erano tutti così, andavano avanti secchi e dritti al punto. Niente assoli inutili, niente virtuosismi particolari o numeri da circo. Mi disse che il testo del pezzo parlava di uno che aspetta il suo spacciatore e che nello stesso disco c’era una canzone che si chiamava “Heroin”. No, dico. EROINA, punto e basta. Se mia madre mi avesse chiesto “Come si intitola questa canzone?” avrei avuto il coraggio di risponderle? Il giorno dopo Nicola trasmetteva in radio e quindi lo passai a trovare e mi feci tirare fuori il disco. Aveva in copertina UNA BANANA e sotto c’era scritto ANDY WARHOL. Non avevo mai visto niente del genere, a parte forse la copertina di “In the court of the Crimson King”. Ma qui la musica era allucinante. E chi cacchio era NICO, che veniva citata in copertina? “Una cantante tedesca”. Ricordai che ne avevo sentito parlare per il fatto che era stata con Morrison. Qui di Morrison ce n’era un altro, si chiamava Sterling ed era chitarrista e bassista. Poi c’era uno che suonava la viola e si chiamava JOHN CALE. Io conoscevo solo J.J. Cale e per un microsecondo mi chiesi se c’entrasse qualcosa. Poi alla batteria c’era scritto un nome. MAUREEN TUCKER. Una donna. Strano anche questo. Partì il primo brano. Nico cantava in tre pezzi, mi aveva detto Nicola. Credetti che il primo fosse “Sunday Morning”, un errore che fanno tutti visto che poi mi dissero che “No, quella è la voce di Lou Reed”. Cosa? Io Lou Reed lo avevo sentito, era quello che cantava “Walk on the wild side”, che faceva “DU DU DU DU DU” nel ritornello. Non poteva essere quello. E invece si. Poi arrivò “I’m waiting for THE man” che io credevo si chiamasse “I’m waiting for MY man” visto che nel testo lo diceva. Strano anche questo, soprattutto perché la voce era sempre quella di Reed, ma stavolta la riconoscevo come tale. Poi arrivò “Femme Fatale” e Nico fece la sua comparsa. Non ci stavo capendo niente ma era tutto bellissimo. Quando attaccò “Venus in furs” il mio cervello andò definitivamente in frantumi. Io una cosa così non l’avevo veramente mai sentita. MAI. C?era una viola distorta che faceva il diavolo a quattro e intanto un tamburello marziale, con questa voce gelida che cantava “Shiny shiny, shiny boots of leather…”

Nessuno ha un suono del genere. Nessuno.

Non ricordo se arrivai a “All tomorrow’s parties” o a “Heroin”. Ricordo che uscito dalla radio andai in un negozio di dischi e comprai “The Velvet Underground & Nico”. Chiesi “Quello con la banana” per essere chiaro, poi scoprii che quel disco è per tutti “La banana”. Quel disco rimase sul piatto fino a settembre. Prima un lato e poi l’altro. Senza soluzione di continuità. Non riuscivo ad ascoltare altro. Ogni tanto pensavo “Adesso cambio disco”, ma poi finivo per mettere SOLO QUELLO. A settembre comprai “Velvet Underground Live With Lou Reed VOl 1” e feci la conoscenza di “Pale Blue eyes” e di un altro aspetto dei Velvet. Quella era una canzone dolcissima e il loro terzo disco, il “disco nero”, ne era pieno. Lo comprai. Lo consumai (quasi) quanto la banana. Poi comprai ogni disco dove trovavo scritto “Heroin”. Comprai “Rock’nRoll animal” di Lou Reed e anche se era pieno di chitarroni roboanti supertecnici mi piacque molto. C’erano alcune canzoni stupende, come “White Light White Heat” e “Lady Day”. Scoprii che la prima era nel secondo album dei Velvet Underground, che però all’epoca non si trovava in vinile neanche a pagarlo oro e quindi me lo feci registrare su cassetta. Era RUMOROSISSIMO. C’era una canzone di 17 minuti che si chiamava “Sister Ray” e scoprii che non era dei Joy Division, visto che l’avevo sentita su “Still” e non mi aveva detto niente, ma mi ricordavo il titolo. C’era “Lady Godiva’s Operation” che era una cosa incredibile. C’era un racconto chiamato “A GIFT” di uno che si fa spedire dentro ad un pacco postale alla sua ragazza per farle una sorpresa e lei nell’aprirlo con due cesoie gli apre la testa in due. Ormai avevo un libro dei testi, di Lou Reed e i Velvet Undeground. Feci la conoscenza con i testi di “Berlin” e lo comprai fiducioso visto che lessi che era prodotto da Bob Ezrin, che aveva messo le mani dentro a “The Wall” dei Pink Floyd. Era un disco bellissimo, di una tristezza cruda e cupa che avrebbe scandito il tempo di parecchie serate dei miei lunghi inverni. Un disco di quelli che quando hai finito di ascoltarlo la tua vita non è più la stessa. Di quelli che esci con i tuoi amici in bar e tutti ti chiedono “Cos’hai?” e allora che gli rispondi? Che hai ascoltato un disco e che ci stai ancora pensando? Poi toccò ad altri album. A “Street Hassle”, che aveva il pezzo che intitolava tutto che durava l’ira di Dio e parlava di uno stupro e di storiacce di strada su un tappeto di archi talmente soave che il contrasto rischiava di annichilirti. Poi “Loaded”, che ora lo salutano tutti come un classico, ma all’epoca ne parlavano tutti male ed in effetti suonava troppo normale, per essere un disco dei Velvet (ma avercene, sia chiaro). Da lì in avanti arrivarono pure “Songs for Drella”, comprato il giorno stesso dell’uscita così come “Magic and Loss”, la cui tournèe mi vide in seconda fila al teatro Storchi di Modena per uno dei concerti più belli della mia vita. Poi ci fu la reunion, che non mi piacque per niente perché quando metti qualcosa su un piedistallo e lo idealizzi poi non dovresti mai farlo scendere sulla terra. Ma la soddisfazione di vedere dal vivo Moe Tucker che suonava in quel modo folle oggi mi rende contento di essere stato là, contro la transenna al centro ovviamente. Arrivai persino a comprare i tributi ai Velvet Underground su Imaginary, dove i Nirvana facevano “Here she comes now” ma la parte del leone erano la versione IMMENSA di “All tomorrow’s parties” dei Buffalo Tom e “What goes on” degli Screaming Trees. Ogni band che faceva una canzone dei Velvet per me era dalla parte giusta (e quante erano, madonna mia). E poi ogni volta che si finiva a suonare con qualcuno e non si sapeva cosa suonare bastava che uno dicesse il titolo di un pezzo dei Velvet Underground oppure di Lou Reed che si poteva suonare alla grande, senza bisogno di essere dei mostri dello strumento.

Non riuscirò mai a spiegare cosa sono stati per me i Velvet Underground. Di sicuro mi hanno cambiato la vita. La vita e la concezione stessa di cosa potesse essere una canzone.

Però, mercoledì 31 Luglio (cioè stasera, per tanti che stanno leggendo) al SUN AGOSTINO di Modena ci saremo proprio io, Nicola Caleffi e i ragazzi di Radio Antenna Uno. Proveremo a parlarvene e a suonarvene, sicuramente tralasceremo qualcosa e argomenteremo in maniera scomposta, sconnessa e inopportuna. Però, con un poco di fortuna, magari potremmo anche cambiarvi la vita. Venite a provare.