Forse un giorno, la musica.

E’ curioso come per definire la musica che va dal rinascimento all’inizio del novecento, noi tutti utilizziamo un’unica parola.

CLASSICA.

Può essere musica da camera, musica orchestrale, inni religiosi, un quartetto che suona un adagio, un’orchestra intera che spara “La sagra della primavera” o qualche delizia Weberniana, di tutto un poco. Ma un’unica parola. Quando non è musica folk, allora è musica classica.

Due parole. FOLK e CLASSICA.

Poi hanno inventato il fonografo e passo dopo passo siamo arrivati alla musica distribuita registrata in multitraccia, dapprima su supporto fisico fino ad arrivare ai giorni nostri con la condivisione un file digitale su una piattaforma.

E’ curioso come le musiche prodotte negli ultimi settant’anni hanno avuto bisogno di parole sempre crescenti per essere definite. Blues, Rock’n’Roll, Rock e poi via via psichedelia, beat, punk, glam, disco, techno, rap, hip-hop, grunge, new wave, garage, crossover, funk, metal, hard rock, vogliamo andare avanti?

Immagino che questo percorso possa essere stato identico per la musica che oggi chiamiamo con un’unica parola. Penso che nei primi dell’ottocento, di fronte all’esuberanza compositiva di uno Schubert, ci sarà stato chi parlava di “Scuola viennese” come noi oggi parliamo della scena noise di Washington, delle differenze con Beethoven (che nacque trent’anni prima ma morì un anno dopo), di influssi mozartiani come noi oggi parliamo dell’eredità dei Sonic Youth, di romanticismo come oggi noi parliamo di tropicalismo brasiliano. Nei primi del novecento magari qualcuno non avrà tirato in ballo il “crossover”, ma Bela Bartòk pescava nel folk a piene mani per rielaborarlo in partiture arditissime che andavano a sposare dissonanze che facevano drizzare i peli ai conservatori e intrippavano i musicologi esattamente come qualche anno fa ci si intrippava per i campionamenti di Dj Shadow.

In ogni caso, basterebbe vedere nel jazz, più recente della classica ma che ha intrapreso più o meno lo stesso percorso. Partito con ragtime,  blues e swing, ha sviluppato una serie di correnti (Be Bop, Cool, eccetera)  che poi sono arrivate a non avere più parole comprensibili al grande pubblico per essere comprese con cognizione di causa. O si arrivava al “free jazz” per misurarsi con le tentazioni dell’atonalità oppure si cercavano nuove contaminazioni con linguaggi differenti arrivando alla “fusion”, per poi arenarsi nel vicolo cieco dell’indefinibile, con un’ultima agitata invenzione di termini che non riuscivano a mettere d’accordo nemmeno un condominio visto che erano pieni di “post”, di “pre” di indicazioni geografiche per divisioni superficiali.

E’ curioso come una musica fatichi a trovare un nome quando nasce, poi ad un certo punto diventa stile e si trova una parola nuova che la definisce, poi passa di moda e si confonde con le altre e torna, dopo un’ultimo colpo di coda con definizioni chilometriche, ad una parola unica già esistente che tanto va già bene, quella musica è cristallizzata e morta nell’immaginario collettivo. Sta accadendo pure alla musica rock, arrivata già stanca alla “new wave of the new wave” e che oggi è sempre “post qualcosa”. Anche la musica elettronica mi sembra che segua la stessa strada.

Ecco, credo che tra trecento anni (ma potrebbero volercene molto meno) ci sarà una parola unica che definirà un brano di Julia Holter, uno dei Rolling Stones, uno dei Rancid, uno dei Radiohead, uno dei Rage Against The Machine, dei Public Enemy o di Biagio Antonacci. Saranno tutti lo stesso genere. Forse quella parola potrebbe essere “Rock”, oppure “Pop”, ma chissà che altre parole avranno inventato tra trecento anni. Forse ritorneranno a “Folk”, che in fondo è sempre folk ma con la spina attaccata. Oppure potrebbero riutilizzare “beat”, per indicare il fatto che avere un ritmo pulsante e (quasi sempre) costante e regolare dall’inizio alla fine era, più che la presenza di chitarre o tastiere o altri strumenti, il suo marchio di fabbrica distintivo rispetto alle altre musiche, fossero essere del passato o a lei contemporanee.

Forse useranno i numeri e magari la risposta alla domanda “Che genere fate?” sarà “78”. Qualcuno, per darsi un tono, dirà che “Suoniamo come il minimo comune multiplo tra 41, 18, 63 e 29”, che forse non sarebbe neanche male, non fosse altro perché uno potrebbe rispondere “149814, potevi dirlo subito invece di fare tanto il difficile”.

Questo per dire che, probabilmente, ho detto solo una cazzata.