E’ stato un lampo, qualche giorno fa. Arrivare a capire che forse i Buffalo Tom non si erano mai sciolti, avevano solo aspettato un poco dopo le due raccolte che avevano fatto uscire, come ogni tanto un guerriero deve fermarsi a riposare.
Perché il sospetto era lecito. Forse però la fregatura è stata attenderlo così tanto tempo, questo “Three Easy pieces”. Ed è una delusione. Non che non fossi abituato alle delusioni, soprattutto quando si parlava di gruppi che si riuniscono dopo parecchio tempo. La delusione più grande di tutte fu vedere la reunion dei Velvet Underground a Bologna, nel 1993. In prima fila, contro la transenna davanti a Lou Reed. Una folla quasi oceanica, i pezzi suonati con un suono addomesticato, non facevano più male. Certo, Moe era uno spettacolo, in piedi a smazzare su quei tamburi. Però come mai durante il crescendo di “Heroin” c’erano centinaia di persone che saltavano ritmicamente urlando “he, he, he” come se fossimo allo stadio? Quella canzone parlava di un tossico che ha deciso di stare definitivamente dall’altra parte, qualunque conseguenza comporti. Cosa c’era da esultare?
Idealizzare è pericolosissimo. La realtà prima o poi arriva e ti chiede di colmare lo scarto e non sempre la tua vita è pronta per compiere tutta quella distanza in così poco tempo. A volte arrivi impreparato.
Ma i Buffalo Tom dal vivo erano stati grandi. Li avevo visti a Baricella, tra Bologna e Ferrara, in un palestrone chiamato Kryptonight, in mezzo alla nebbia emiliana. Nello stesso posto avevo visto pure i Nirvana, nei giorni in cui, anche se stavano esplodendo proprio in quel periodo, uno poteva pure vantarsi di essere andato lì per vedere gli Urge Overkill, che fecero un set con un’acustica terribile. Noi sì che eravamo snob come si deve, mica come quelli che si vantavano di essere venuti per i Melvins, nel 1994. L’eccitazione non era paragonabile, tanto che la sera dei Nirvana chi era rimasto fuori sfondò una porta di sicurezza e volarono botte da orbi, la capienza arrivò ad essere ben oltre il limite di sicurezza, era tutto molto pericoloso e quindi molto eccitante, come a 19 anni chiede di essere eccitante subito e senza possibilità di appello, una serata fuori.
I Buffalo Tom avrebbero potuto essere ancora più eccitanti. Fino al punto che ancora oggi c’è chi sostiene di ricordarsi il gruppo spalla e di essere andato lì apposta per loro (“Bravi. Com’è che vi chiamate? Black Babies? Ah no…Blake, come William Blake, ok”).
Una sera, nella discoteca dove andavo a ballare di solito in quel periodo (Albert Hall) perché ci metteva i dischi Antenna Uno, dove avevo appena cominciato a trasmettere, dopo aver riempito la pista con “Smells like teen spirit”, il dj (Giuliano Ghini) aveva messo “Velvet Roof” per cercare di lanciare un pezzo nuovo che potesse, con la dovuta insistenza sabato dopo sabato, diventare una hit da ballo. La pista si era vuotata quasi già al primo break con l’armonica, ma quel riff, quel ritmo, quella melodia, mi avevano fatto sentire come se ci fosse la possibilità che i Buffalo Tom riuscissero a diventare una cosa tipo “I nuovi Nirvana” o “I nuovi R.E.M.” o comunque a vendere un sacco di copie.
Invece a Baricella saltò la luce. Una, due, forse tre volte. Il gruppo dopo un poco ne ebbe abbastanza e suonò il minimo sindacale, una cosa simile avrebbe fiaccato anche un bufalo vero, figuriamoci un trio della costa est degli USA.
Eppure quell’ora di concerto fu memorabile. Bill Janovitz aveva una gibson SG color rosso vino e un amplificatore alto come un armadio, dal quale usciva un volume allucinante a tal punto che Janovitz stesso aveva due enormi tappi per le orecchie, di quelli che si vedono a distanza, che ti fanno sembrare la creatura di Frankenstein e che rendevano ancora più antieroiche le smorfie e il sudore che quel viso da nerd con i capelli rossi e le lentiggini era costretto a fare per aver ragione di quella massa di suono. Al centro un sassofonista, un ospite che si portavano in tour per rafforzare il suono dal vivo e che soffiava dentro ad uno strumento che era peraltro sempre completamente sommerso da basso, chitarra e batteria, tanto che ad un certo punto ci si iniziò pure a chiedere se servisse a qualcosa, tra le prime file.
Di quella serata ricordavo soprattutto una canzone, una delle canzoni che in realtà amavo di meno, almeno fino a quel giorno: “Enemy” si chiamava.
C’era un gruppo di amici miei che, non appena il brano cominciò, si mise a urlare sconnessamente e a cantare come una banda di ubriachi. Per un attimo ci si sentiva una tribù indiana e Buffalo Tom era il nostro grande capo a tre teste più sassofono.
Arrivò un nuovo album, qualche tempo dopo. Si chiamava “Big red letter day” e odorava di muffa. Era bello, per carità. Ma sembrava una copia di “Let me come over”, l’album prima. Era quello il perfetto equilibrio tra rumore, melodia, sonorità acustiche ed elettriche, da lasciare senza parole. Lo zenit.
Forse, pensai una notte poco dopo l’uscita del disco mentre indossavo una divisa dell’esercito italiano, con “Let me come over” le carte erano ormai tutte scoperte. Il suono del gruppo era perfetto e oltre non era consentito andare. I confini dei Buffalo Tom erano dunque quei guaiti sofferti di Janowitz, quel basso eternamente sulle frequenze medie mai troppo presente, quella batteria che apriva il charleston quando doveva riempire e lo chiudeva nelle strofe, potente senza mai essere granitica e fantasiosa senza mai suonare se non al servizio della canzone. Quell’equilibrio distorto/acustico che i Grant Lee Buffalo non sono quasi mai riusciti ad avere, e dire che l’animale delle praterie ci aveva riprovato a infilarsi nel nome e nelle sonorità.
Forse i confini di tutta quella meraviglia erano quegli accordi di Sol suonato aggiungendo un dito che sulla corda del SI tocca il terzo capotasto, quel suo cambiare tra Mi minori, Re, Do, La maggiori e minori, cercando il più possibile di non muoversi con mignolo e anulare dal terzo capotasto del MI cantino e del SI ed evitando i barrè come la peste, in modo che il centro tonale del pezzo fosse scandito dagli acuti e da qualche corda vuota sulle medie, non da qualche insulso power chord sulle frequenze basse come accade di solito nella musica rock che decide di essere rumorosa e distorta.
Forse era quello che dava quel gusto epico alle canzoni, pensai. In fondo quel sapore lì, quello che ad un certo punto non basta nemmeno urlare e ti vengono i lucciconi agli occhi e ti sembra proprio di volare, ce lo avevano anche le cose degli U2 migliori, ce lo avevano anche gli Afghan Whigs di “Turn on the water” e di un sacco di altre canzoni. Andai a verificare mentalmente le posizioni di diversi brani sulla chitarra con la mano sinistra e quasi mi scappò il fucile di mano. Nessuno se ne accorse, peraltro, tanto in porta centrale non c’era nessuno. Erano tutti andati a letto e finalmente mi ero potuto guardare la rotazione notturna di Videomusic, all’epoca una cosa molto figa in senso metaforico, senza essere costretto dagli altri a sorbirmi un’ora di pubblicità di telefoni erotici, all’epoca una cosa molto figa in senso letterale. Il tempo di pensare a tutto questo, poi il video di “Sodajerk” era già finito e ne era partito un altro. Forse gli Stone Temple Pilots, forse i Lemonheads, chi se ne frega.
Si, non era poi brutto “Big Red Letter Day”. E’ che era tutto come ti aspettavi. Era come ritornare a casa in licenza e non saper bene di cosa parlare con nessuno.
Ci volle un nuovo album, un singolo come “Summer” a rialzare un attimo la testa. Ma ormai era andata, l’amore si fa in due e da parte mia non c’era più forse la voglia, in quel momento.
Quindi è inutile che oggi cerchi di rivivere i miei vent’anni solo perché una band di Boston ha fatto un nuovo album dopo cinque o sei anni di silenzio. Certe cose, penso, non te le ridà nessuno. Conviene rimettere “Three Easy Pieces” nello scaffale dei cd e lasciarlo lì. Magari venderlo, tanto il rammarico di aver capito che quei brividi sono rimasti per sempre un ricordo ormai si è già stampato nella memoria, non occorre un simbolo a ribadire il concetto. Forse un giorno me lo ricomprerò in qualche bancarella a 3 euro e scoprirò che la musica poi non era male, vuotata da ogni aspettativa e analizzata più freddamente.
In fondo, se mi guardo indietro, al momento non mi importa nulla. Dopo “Smells like teen spirit” nessuno ha mai messo “Velvet Roof” per cercare di non vuotare la pista. Oggi anche “Smells like teen spirit” è scomparsa dalle scalette, andando a cercare casa in quei locali dove, se dici “Buffalo Tom”, credono che sia il fratello di Buffalo Bill. Quei posti dove non trovi persone che abbiano urlato tutta la propria disperazione cantando “Stymied” a squarciagola in una camera chiusa a chiave e quindi cosa vuoi che ne sappiano loro del fatto che dopo “Stymied” arriva la beatitudine solare di “Porchlight” a sollevarti il morale e poi con “Frozen Lake” giungi alla pace dei sensi e ogni colpo di tamburello che viene dopo che Janovitz dice “IN” (sciaf) “A FROZEN LAKE” (sciaf) “SHE COMES AND TAKE” ti ricorda che per il momento tu non hai bisogno di niente altro al mondo. Cosa ne sanno loro della tua vita? Al massimo, se proprio hanno un poco di orecchio, gli fai sentire “Taillights fade” e ti va già bene che si accorgono a malapena che ha gli stessi accordi di “Don’t Cry” dei Guns ‘n’ Roses, soltanto con anulare e mignolo bloccati sulle corde più acute.
Oggi non ha proprio più importanza, sapere se i Buffalo Tom si siano riuniti ufficialmente, o se avessero solo preso una pausa. Così come quando una storia d’amore è davvero superata quando non ti importa più di cosa cavolo stia facendo il tuo ex, anche qui ormai è tutto finito, ognuno va per la sua strada. Troppo tardi.