Londra chiama – Le buste interne dei Clash

Mio fratello aveva le buste interne di “London Calling”. Non aveva i dischi. Aveva solo le buste interne, quelle con i testi e qualche foto presa dal tour americano. Non gli ho mai chiesto come mai avesse solo le buste interne e francamente la cosa ormai fa parte di quegli angoli misteriosi della mia gioventù che preferisco non esplorare, come se il loro destino sia quello di rimanere in una zona grigia per l’eternità. Io non lo sapevo neanche che quelle erano le buste interne di “London Calling”. Per me erano solo buste interne di dischi, e un giorno chiesi a mio fratello di che dischi fossero e lui mi rispose “London Calling dei Clash”. Non ricordo cosa disse in merito al fatto che avesse solo le buste interne, mi immagino che sia stato evasivo. Forse una lite con una fidanzata, forse con un amico, non so e come ho già detto non mi importa. Io, come ricorderete se avete letto il post sui Doors, imparavo l’inglese con i “testi con traduzione a fronte”. Solo che qui la traduzione non c’era. E poi non avevo la musica come riferimento. Mica potevo andare a sentire le canzoni. C’erano parole parecchio strane, che se i Doors non scherzavano, questi sembravano proprio prendere la cosa poco sul serio. Voglio dire, che cazzo significa “Sattamassagana” (Jimmy Jazz) e perché in “Spanish Bombs” c’erano tutti quei “Disco Casino”, “Dc10”, “Yo te quiero y finito”, “Mandolina, oh my corazon”? Domande alle quali ancora oggi non so pienamente rispondere, ma all’epoca suonavano come veri e propri misteri inquietanti. Avevo cominciato a prendere lezioni di chitarra e immediatamente avevo dato sfogo al mio bisogno di scrivere canzoni. Non appena imparati i giri armonici di DO e di SOL avevo cominciato a scrivere cose mie. Il problema, quando vuoi scrivere in inglese e non sai bene la lingua, è quello di trovare dei testi validi. Accadde così che quelle due buste interne diventarono una palestra mica da ridere. Visto che avevo solo le buste e non avevo sentito le canzoni, cominciai a scriverle io, le mie “London Calling”, “Working for the clampdown” e robe varie. Spesso le registravo con un registratore mono a cassetta e da qualche parte nel mondo potrebbero ancora esserci delle C-90 della Maxell con io che canto in un inglese tutto da verificare. Andai avanti così per parecchio tempo, poi un giorno di diversi anni dopo comprai finalmente il disco. “London Calling” era integro nelle mie mani, con tanto di buste interne nuove e non ingiallite. A parte l’infittirsi del mistero (che cazzo ci faceva quella “Train in vain” alla fine? Nei testi non c’era), le versioni originali non lasciavano scampo. Oggi, manco a dirlo, quel disco è uno dei miei preferiti in assoluto. Però ogni tanto mi piacerebbe ancora provare, chitarra in mano e busta interna sott’occhio, a provare a musicare in maniera differente una “Rudie can’t fail” o una “Lover’s Rock”. Per vedere l’effetto che fa.

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